Cortis, minacciato di congestione
cerebrale, si era riavuto rapidamente, sì per la gagliardia della sua complessione,
sì per l'aiuto pronto e vigoroso dell'arte. Gli pesava di restare alla Camera;
benché, in quei giorni di vacanze parlamentari, la sua presenza non fosse
d'impaccio ad alcuno. Sospirava le sue montagne, e i medici pure consigliavano
riposo assoluto, aria libera, pura, appena fosse possibile, evitando l'inutile
disagio di due trasporti, e, ciò che più importava, l'irritante contatto della
signora Cortis.
Della minacciata congestione gli
era rimasto un grande abbattimento di spirito, una tristezza profonda che gli
metteva spesso le lagrime agli occhi. Non aveva più fede nell'avvenire né in
sé. Si vedeva gittato dalla corrente politica sulla riva, come un avanzo di
naufragio. Chiedeva avidamente chi venisse a prender sue notizie, pronto sempre
a interpretar male una mancanza, a immaginar noncuranze, abbandoni. Elena ne
soffriva assai, benché i medici le affermassero ch'erano fenomeni soliti,
passeggeri. Lo rincorava, gli proibiva con la sua dolce voce sommessa di
ripetere quei brutti discorsi. Egli allora le era tanto grato, e ubbidiva per
un po': quindi ricominciava. Soffriva male di star senza lei, la supplicava di
perdonargli le sue importunità e se ne scusava con dire che aveva perduto
tutto, che solo l'amicizia di lei gli restava. E voleva farsi promettere che
sarebbe venuta a Passo di Rovese, per trattenersi a lungo. Ella si schermiva il
meglio che poteva dal promettere, cercando in pari tempo di non irritarlo come
le era avvenuto la prima volta che s'era parlato di Passo di Rovese e che lei
nel dubbio di poterci venire o no, aveva accennato a suo marito. Cortis s'era
fatto cupo, non aveva più aperto bocca per un'ora.
Era stata lei a persuaderlo di
chiamare sua madre il 28, e di parlarle invece di mandar messaggi com'egli
avrebbe voluto. Colei ci andò difilata dalla Minerva. Cortis le significò molto
freddamente e recisamente la propria intenzione di partire presto per l'alta
Italia e la propria volontà ch'ella rimanesse in Roma. Parlò in un tono che non
ammetteva osservazioni né repliche. La signora non poté tuttavia stare zitta:
augurò a suo figlio, con voce grave e compunta, una cosa ben difficile, una
cosa impossibile; che altri affetti potessero sostituire presso di lui
l'affetto di sua madre! Soggiunse, congedandosi, che sentiva il dovere di perdonare
a quanti le avevano fatto del male, anche ai crudeli che l'avevano esclusa dal
cuore di suo figlio. Sapeva bene da chi veniva il colpo, e pregava il cielo che
volesse aprir gli occhi a suo figlio sui pericoli di certe amicizie equivoche.
Pur troppo non erano più equivoche per nessuno, a Roma, le sue amicizie.
Quando, partita la signora,
l'infermiere di Cortis gli rientrò in camera, lo trovò agitatissimo, tremante;
credette ad un accesso di febbre, voleva far venire il medico. Ma Cortis glielo
proibì con ira; ordinò che si facesse avvertire, invece del medico, la signora
baronessa, e poi quando l'infermiere stava per uscire, lo richiamò in fretta,
gli levò l'ordine.
Più tardi nella serata, venne il
dottore, venne il senatore Clenezzi e finalmente anche il conte Lao. Cortis si
commosse moltissimo di veder quest'ultimo. Gli chiese poi subito d'Elena e
seppe da lui ch'era andata in traccia di suo marito e che per quella sera,
probabilmente, non l'avrebbe veduta. Si chiuse allora in un silenzio cupo. Intanto
il dottore si lagnava con Lao della poca quiete che si lasciava all'ammalato;
poiché conveniva ancora chiamarlo così quantunque l'attacco, non grave, di
congestione fosse stato vinto rapidamente. Il turbamento nervoso era ancora
molto sensibile. Quei nervi lì volevano una tranquillità materiale e morale
impossibile a ottenere in Roma, nelle condizioni di Cortis, che soffriva così
di veder gente come di non vederne. Ci voleva riposo, aria dei campi subito,
subito; era opportuno di affrontare, per tale beneficio, anche il disagio di un
viaggio lungo. Poiché il signor deputato possedeva questa bella villeggiatura
di cui il dottore aveva udito parlare, poiché i suoi signori parenti gli erano
anche vicini di campagna e aveano la buona disposizione di tenergli compagnia,
niente di meglio che partire il più presto possibile.
Anche domani? disse il conte Lao
guardando Cortis.
Perché no? rispose il dottore.
Anche domani.
Cortis non fiatò.
Allora Lao descrisse al dottore
Passo di Rovese e la vita che Cortis vi farebbe, almeno per qualche tempo;
perché fino a guarigione intera e sicura il signor Daniele non si lascerebbe
andare a Villascura, si terrebbe prigioniero in casa Carrè. Lao lo guardava
spesso, parlando; spiava se ci fosse qualche indizio di sgelo. Nulla. Disse
allora dei passeggi che il convalescente farebbe nel proprio giardino di
Villascura e ne raccontò i boschi, i valloni, il lago, le fonti. Cortis,
coricato sul fianco, col viso alla parete, non si moveva, pareva che dormisse.
E Lao proseguì a dire che sua nipote era innamorata di quel giardino. Anche lei
ci andrebbe ogni giorno, sicuramente. Amava tanto i belli alberi! Il suo
prediletto era un superbo platano col tronco bipartito, lontano da casa, lungo
una stradicciuola pittoresca.
Un tiglio disse Cortis, senza
voltarsi.
Benedetto da Dio esclamò Lao, che
La parla! Un tiglio, sì, signore, giusto un tiglio.
Allora Cortis osservò, con
un'arte suggestiva affatto nuova in lui, ch'Elena, naturalmente, si
tratterrebbe a Roma, non verrebbe nel Veneto. Lao protestò contro il naturalmente.
Perché naturalmente? Forse subito, forse tra qualche giorno verrebbe
anche lei di certo. Cortis la vedrebbe l'indomani mattina. Allora si potrebbe
fissare tutto d'accordo col signor dottore, che favorirebbe di lasciarsi vedere
anche lui l'indomani mattina, all'ora solita. Cortis tornò di buon umore tanto
che il medico esortò Lao a partirsene con lui perché non avesse a parlar
troppo, a sovreccitarsi, e quindi forse a soffrire d'insonnia nella notte.
All'indomani mattina Lao capitò
verso le nove, solo. Elena era rientrata tardi, si sentiva stanca. Sarebbe
venuta, forse verso mezzogiorno. Del resto lui doveva fermarsi a Roma per
affari, non sapeva ancora quanto; ma Elena e sua madre erano disposte a partire
con Daniele anche subito.
Questi balzò a sedere sul letto.
Il diretto diurno per Firenze non partiva alle dieci e quaranta? C'eran quasi
due ore di tempo. Lao si mise a ridere, dicendo: Eccolo la! Un ragazzo!
Già fece Cortis, alquanto
mortificato, per le signore sarà impossibile, ma per me andrei certo.
Intanto sopraggiunse il medico e
dopo un breve battibecco, si dovette, per il minore dei mali, accontentare
Cortis che protestava di non voler differire la partenza oltre quella sera
stessa; e fu stabilito che partirebbe col diretto in un coupé a letto e
che il medico lo accompagnerebbe almeno fino a Bologna.
Lao usciva per andar ad avvertire
le signore, quando Cortis lo richiamò per dirgli, con una repentina commozione
inesplicabile, di pregar Elena a volersi recare da lui tosto lo potesse.
Ella era appena alzata quando lo
zio le riferì questo invito. Andò subito a Montecitorio.
Cortis la ricevette con le
lagrime agli occhi, le domandò se sapesse ch'egli sarebbe partito per il Veneto
la sera stessa, se fosse vero che sua madre e lei si disponessero a partir con
esso. Elena gli rispose di sì, semplicemente, senz'altre spiegazioni. Egli le
disse allora ch'era stato tanto felice di apprenderlo dallo zio Lao, che questa
felicità gli aveva fatto dimenticar tutto fino a pochi momenti prima, quando
gli era balenato il dubbio di commettere una cattiva azione. Ora voleva
chiederne a lei, ne andasse pure tutta la sua felicità! Elena non capiva. Egli
le raccontò la visita di sua madre, ripeté le ultime parole di lei. Soggiunse
che se il mondo era veramente tanto maligno, correva forse obbligo a lui di
avvertirnela, di rinunciare alla sua compagnia in viaggio e all'ospitalità di
casa Carrè.
Perché? diss'ella. Per il mondo?
Che importa il mondo?
Cortis non rispose parola, ma le
prese una mano, se la recò alle labbra, ve le impresse con passione. Si
scambiarono un lungo sguardo in silenzio. Le labbra di lei avevano dei moti
convulsi, lo sguardo una intensità paurosa. Ella pensava che il suo era quasi
un tradimento, poiché Cortis non sospettava certo la terribile risoluzione di
lei, il dolor mortale che lo attendeva. Sapendo di nascondergli questo, a lui
che l'amava tanto e così nobilmente, Elena si sentiva portare nelle sue braccia
da una tenerezza, da un rimorso, da uno struggimento indicibile, da un bisogno
di confessargli tutto, di piangere sul suo petto. Solo la tratteneva una muta
forza, forse un ignoto spirito superiore. No sussurrò con dolcezza, ritirando
la mano adagio adagio. Il mondo non mi fa niente, ma bisogna essere calmi,
bisogna essere come vecchi amici di sessant'anni, altrimenti non posso venire.
Puoi, puoi diss'egli con voce
accorata, con uno sgomento in viso da fanciullo colto in fallo. Scusami, non
sono ancora forte, vedi, ma lo sarò. Oggi mi pare già di sentirmi meno nervoso
di ieri.
Ella non rispose, gli sorrise.
Avrebbe voluto dirgli che lo stimava infinitamente migliore di sé, che si era
sentita, un momento prima, tanto debole, tanto in balìa sua se avesse voluto, e
non meritava quelle care parole timide.
Tacquero, per un poco, entrambi.
Cortis aperse poi la bocca per parlare, ma non ne usciva voce alcuna.
Cosa? diss'ella piano.
Egli esitò un istante e rispose:
Niente.
Ma Elena intese che qualche cosa
voleva dire e aspettò in silenzio. Infatti, egli mormorò poi senza guardarla:
E ti si permette di partire
stasera con me?
Debbo parlare o scrivere gli
rispose, ma vengo certo.
Cortis la pregò di scrivere. Un
colloquio gli metteva paura. Non si sapeva mai che ne potesse uscire. Perché
non scriverebbe subito? Lì c'era carta, penna e calamaio. Poi l'usciere
porterebbe la lettera.
Debbo scriver qui? diss'ella,
ancora incerta, parlando a se stessa.
Si decise e sedette al tavolino.
Lo aveva tutto in testa quel che doveva scrivere, ma pure indugiò alquanto
prima di cominciare. Come le batteva il cuore lì in presenza sua!
Ho trovato tuo zio di buon
aspetto disse Cortis.
Ella non rispose e scrisse:
Parto questa sera per Passo di
Rovese con mia madre e con Daniele.
Ad andarci ora in tale compagnia
faccio bene; ma dovunque io possa trovarmi, in qualunque momento tu me lo
chieda, terrò la mia parola. Tu intanto non ne parlare a nessuno. Quando la
cosa si saprà, io desidero essere già partita, evitare a me e ad altri molte
pene inutili.
Venuta l'ora, tu non avrai che a
scrivermi, indicando addirittura il porto d'imbarco, il bastimento, il giorno
della partenza, tutto, con la massima precisione. Vorrei che il mio viaggio
fosse il più diretto possibile; e vorrei anche partire da Venezia ch'è a
quattro ore da Passo di Rovese. Ma ho paura che da Venezia non ci sieno
partenze per l'America.
Elena restò un momento di
scrivere.
Quanto tempo disse Cortis, piano
che non ci troviamo insieme a Passo di Rovese, in maggio! Dobbiamo leggere Shakespeare
nei giardini, questo maggio. Scusa, scusa che ti disturbo soggiunse perché lei
non rispondeva, pensava con una mano sugli occhi.
Era un grido, un angoscioso grido
che le rompeva in quel punto dal fondo dell'anima: Devo andare? Devo proprio
andare? E il cuore le si sollevava, rispondeva: No, no con una violenza! Che
sarebbe poi là, a Passo di Rovese? Se la forza le mancasse, se si lasciasse
cadere? Era stato troppo facile di promettere; e facile sarebbe stato di
partire sull'atto, senz'avere tempo di veder nessuno, senza aver tempo di
pensare!
Riprese a scrivere:
Ti prego poi d'avvertirmi quanti
giorni prima sarà possibile, perché avrò pur bisogno d'un po' di tempo.
Appena scritte queste righe, se
ne pentì amaramente. Avrebbe dovuto chieder l'opposto, un richiamo immediato,
dalla sera alla mattina, che non lasciasse agio alle tentazioni; e invece la
mano debole, la mano vile aveva scritto così. E ora? Non voleva farsi vedere da
Cortis a lacerare la lettera, a scriverne un'altra. Il cuore le batteva a furia
come se credesse già di aver cominciato a vincere col suo no violento.
Non posso scrivere diss'ella
alzandosi. Ho paura di non aver trovato il tono giusto.
È meglio che gli parli.
Cortis ne parve atterrito, la
supplicò di non farlo, di finir la lettera. Poteva cambiarla, se voleva,
scriverne un'altra.
Elena si ripose a sedere e disse:
Proverò.
Subito le si affacciarono
argomenti di non mutare le ultime righe. Non era una partenza, quella; era una
fuga. Occorreva del tempo per disporla. Bisognava venire dalla campagna in
città; ci voleva un pretesto preparato di lunga mano. Non era facile trovarne
uno lì per lì. Ogni novità repentina, insolita, congiunta ad un turbamento
morale troppo profondo per potersi interamente dissimulare, desterebbe sospetti
almeno nello zio Lao. Poi qualche preparativo di viaggio ci vorrebbe bene; più
lungo perché segreto.
Ma qui il cuore le disse
impetuosamente un'altra cosa. Se distruggesse la lettera? Se andasse via senza
scrivere né parlare?
Oh diss'ella forse lascerò andare
così.
Cortis suonò, ordinò all'usciere
che portasse la lettera al Senato.
Posso mandarla io più tardi
sussurrò Elena; ma Cortis non sapeva veder ragione di questo indugio. Ella
scrisse la chiusa e l'indirizzo, sentendo quasi, intorno a sé, il fragor del
mare. C'era tempo ancora.
E se non andasse bene? diss'ella
con voce tremante. Se facessi a meno di scrivere?
No, no rispose Cortis. Son sicuro
che va benissimo. Qua, qua. Prese lui la lettera e la diede all'usciere.
Subito diss'egli. E soggiunse
vôlto ad Elena: Al Senato o a casa sua? Parve ch'ella non avesse inteso.
Al Senato o a casa sua? ripeté
Cortis.
Via delle Muratte diss'ella
sottovoce, numero 54.
L'uomo se ne andò con la lettera.
Ah Dio, se Cortis si pentisse di quella sua violenza, se richiamasse colui, se
sospettasse, se indovinasse! No, no, nulla di questo poteva succedere,
l'usciere scendeva le scale...
Cos'hai? disse Cortis.
Ella non rispose nemmeno, perché
in quel momento entrava il senatore Clenezzi. Gli corse incontro voltando le
spalle a suo cugino, gli fece un'accoglienza così cordiale che il senatore ne
andò in solluchero. Cortis lo aveva mandato a chiamare per pregarlo di
raccogliergli certe carte che aveva a casa e voleva portar seco. Ma il
senatore, ch'era accorso in fretta e in furia all'invito, non sapeva più
spicciarsi ora da donna Elena, era lì tutto sorrisi, inchini, complimenti.
Ehi, senatore! esclamò Cortis
dopo un po'.
Son qui, son qui rispose l'altro.
Son qui da Lei. La mi scusi,
La mi comandi. Son qui, son qui.
E io vado via disse Elena. A
stasera, alla stazione.
Prima ancora che Cortis e
Clenezzi potessero tentare di trattenerla, era scomparsa.
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