L'indomani mattina pioveva. Elena
discese in sala alle sei e mezzo. Il cocchiere, che aveva ordine di attaccare
alle sette e mezzo, usciva dalla cucina quando Elena entrava in loggia dalla
sala. Le domandò se, piovendo ancora alle sette e mezzo, si sarebbe partiti
egualmente. Elena accennò di sì con la testa. Colui se ne andò. Nello stesso
punto venne il domestico per domandare alla contessina se dovesse portare o no
il caffè al senatore. Partivano anche se pioveva? Elena lo guardò. Aveva
dimenticato, per un momento, che venisse anche il senatore. Sì, lei partiva
sicuro. Forse più tardi? No, perché Clenezzi doveva prendere il diretto delle
undici per Milano.
Già piova lunga non fa certo
disse il domestico dopo aver considerato il tempo. Usciva il sole, allora. Il
Rumano e il Passo Grande erano tutti neri sotto una fascia pesante di nebbione;
Villascura e i prati avevano il sole. Pioveva un polverìo lucente. Laggiù in
fondo al cannocchiale del portico, di là dagli abeti, si vedeva un verde
livido, il cielo turchino sulla pianura.
Elena uscì senza ombrello, andò
fino al vecchio abete dai rami cadenti che ora è scomparso, ha ceduto, dopo
secoli, alla tempesta, come per avverar il triste sogno della sua giovane
signora cui non vedeva più. Elena posò un momento la mano sul poderoso tronco
fedele, tornò indietro. La nebbia argentea si rompeva qua e là sul Corno
Ducale, mostrando al sole qualche scoglio verdognolo, come sospeso in cielo.
Era un augurio? Un uccellino cantava sui campi, sì, sì, sì, ma Elena non gli
credette, continuò sospirando le sue visite di addio. Andò nel piccolo studio
tutto aperto, sedette sul sofà, prostrata, guardando per la porta tremare al
vento il cespuglio di rose, muoversi le frondi della vite cadenti dall'alto e
quelle della magnolia a sinistra e l'erba del prato. Il parato bianco e rosa
ondulava, ondulavano le cortine con un tintinnìo quieto, continuo dei vetri. Il
volume di Chateaubriand era aperto sul tavolino. V'erano ancora i fiori
appassiti. Elena prese il libro, vi rilesse jamais ternie. Dio, Dio, si sentiva
morire. Lo chiuse in fretta, lo posò; ma poi lo riprese per portarselo via.
Prima di uscire aperse il cassetto del tavolino, stette come stupida a guardar
le parole e le cifre scritteci da lei. L'ultima era questa 29 giugno 1881?. Si
ricordava di aver voluto dire con quel punto interrogativo: tornerò mai più?
Pensò un poco, indi prese la penna, scrisse tremando come una foglia: 18 aprile
1882? La parola e le cifre paiono scritte da un bambino.
Uscendo, trovò che non pioveva
quasi più. Sopra il nebbione del Passo Grande s'intravvedeva qualche pallida
sfumatura d'azzurro. La finestra di Cortis era aperta. Elena lo sapeva partito
all'alba per Villascura.
S'erano accordati fra loro che
avrebbe fatto così. Ell'aveva temuto tradirsi, smarrir le forze se Cortis fosse
stato presente alla sua partenza, o anche solo se l'avesse veduto poco prima.
Sapeva che sarebbe venuto a salutarla ad un bivio, dove la strada che ella
doveva percorrere è raggiunta da un'altra che move direttamente da Villascura.
La contessa Tarquinia era alla
finestra, in veste da camera. Chiamò Elena a piè della finestra, le diede una fila
di commissioni per la città, le raccomandò di non farsi aspettare, l'indomani,
a pranzo. Non v'era di peggio per metter di malumore lo zio! Elena non rispose,
salì nella sua camera. Passando per la loggia incontrò Pitantòi.
Se è vero diss'egli che si disfanno
i deputati d'adesso e che dopo ci danno il bollettino anche a noi, pesce
popolo, lo facciamo ancora, sa, il signor Daniele.
Elena gli disse bravo sottovoce,
gli stese la mano.
Gesummaria, contessina? disse Pitantòi
tutto sorpreso e confuso. Bene, bene soggiunse perché ella insisteva, faremo
anche questa! E toccò appena quella piccola mano che strinse la sua con
gratitudine.
Passando, nella sala superiore,
davanti alla porta dello zio Lao, Elena ci gettò un bacio. Lo zio aveva
protestato, la sera prima, contro una partenza così mattutina. A quell'ora lui
non s'alzava né per Domeneddio né per il prossimo. Elena era contenta, ora, di
non vederlo. Ripose il volume delle Mémoires nella borsa da viaggio,
insieme a un ramoscello di rosa con bottoni, foglie e spine. S'inginocchiò un
momento davanti alla finestra e discese frettolosamente. Trovò sua madre e il
senatore in loggia a scambiarsi gli ultimi ringraziamenti. Borse, ombrelli e
mantelli erano già accatastati sul tavolino rustico.
Come sei pallida, Elena! disse la
contessa. Anche il senatore la trovava un po' pallida; più bella, però, se
possibile. La contessa era in collera con Cortis ch'era fuori e non si sapeva
dove. Un bell'originale anche lui, però! Il senatore lo scusò; Elena tacque. La
contessa entrò in sala, le accennò di seguirla.
Cos'hai? diss'ella piano. La
Bettina mi dice che certo devi avere qualche cosa.
No, no, niente, niente rispose
Elena, e le sfuggì subito, ritornò in loggia, domandò se non fosse ora
d'attaccare.
Mancavano dieci minuti alle sette
e mezzo.
A proposito! esclamò la contessa
Tarquinia. Ho visto che porti via un baule, nientemeno.
Sai rispose Elena, porto in città
tante cose che mi è inutile di tener qui.
Cinque minuti ancora e la carrozza
tempestò sulla ghiaia, entrò fragorosamente sotto il portico. Era chiusa,
perché piovigginava ancora.
Dunque, cara contessa... cominciò
il senatore.
Elena ebbe paura di non reggere,
si rifugiò in carrozza subito, senza salutar sua madre, si rannicchiò in un
angolo.
La baronessa ha premura disse poi
il senatore sopravvenendo.
Era appena a posto quando la
cameriera corse a dire che il conte Lao aveva udita la carrozza e mandava a
vedere se il signor senatore volesse venirlo a salutare un momento. La contessina,
no; non la voleva.
Dio mi aiuta pensò Elena.
La contessa Tarquinia si fermò a
chiacchierare allo sportello fino al ritorno di Clenezzi.
Son qua disse questi,
affrettandosi. Il conte mi ha ordinato di dire a donna Elena ch'è in collera
perché ha voluto partir oggi e così per tempo. E anche se non tornerà domani a
pranzo, non gliene importa niente, dice.
E come sta? chiese la contessa.
M'ha detto da cane', ma mi pare
che stia meglio di ieri.
Intanto il senatore s'era venuto
accomodando a fianco d'Elena; borse, ombrelli, mantelli e scialli erano a
posto.
Contessa disse Clenezzi, mi
saluti anche don Bortolo:
Se cerca, se dice:
L'amico dov'è?
L'amico infelice,
Rispondi, partì.
Morì corresse la contessa, spensieratamente. Avanti!
È la stessa cosa, contessa,
quando si parte da casa Sua! replicò il senatore spenzolandosi fuori dello
sportello mentre la carrozza partiva.
Né l'uno né l'altra avean badato
al pallore d'Elena, all'angoscia che le si leggeva in viso. Dio l'aiutava
davvero.
Ella chiuse gli occhi senz'averne
coscienza. Clenezzi cominciò subito a parlar dei giorni deliziosi che aveva
passati, di tante belle cose vedute, di tante gentilezze usategli.
Lei non si sente bene? diss'egli
a un tratto. Lei ha mal di capo?
Elena aperse gli occhi, rispose
sgomentata:
Sì, sì, mal di capo.
Clenezzi voleva avvertire il
cocchiere, tornare indietro. Ella gli afferrò un braccio.
No! disse. La prego.
Richiuse gli occhi, non voleva
che pensare in silenzio a lui. Pochi minuti ancora e gli darebbe l'ultimo
saluto. Come correvano i cavalli! Riaperse gli occhi. Dio, come correvano!
Avrebbe voluto che quel mezzo miglio di strada fosse eterno.
Alla salita di San Giorgio il
cocchiere mise i cavalli al passo. Poco dopo si voltò a dire:
C'è il signor Daniele.
E fermò i cavalli.
Guardate un po'! esclamò il
senatore. Come sono mai contento di salutarlo!
Cortis venne allo sportello di
destra. Era pallido, contraffatto. Né lui né Elena articolarono sillaba.
Caro Cortis disse il senatore un
po' sorpreso, se permettete.
E gli porse la mano. Cortis la
strinse senza parlare.
Venite anche voi in città?
riprese il senatore. Mi pare che ci pensiate. Andiamo?
Elena fece un cenno negativo,
impercettibile. Troppo forte cimento! Si erano accordati, la sera prima, di non
affrontarlo. Ah, sarebbe stato meglio, forse, non rivedersi neppure adesso,
partire senza l'ultimo addio.
Parve a Clenezzi che Cortis
esitasse.
Coraggio! diss'egli.
Non posso rispose Cortis.
Elena aperse la sua borsa, ne
tolse il volume di Chateaubriand, lo fece vedere a Cortis e lo ripose dopo
averne tratta una lettera che gli porse.
Per lui diss'ella.
Cortis prese la lettera e la mano
con ambo le proprie, fe' cenno ad Elena di volerle dire una parola in segreto,
le posò all'orecchio un addio, un bacio lieve ch'ella ricevette ad occhi
chiusi, cercando aria colla bocca semiaperta.
Cortis diè un passo indietro,
bruscamente, salutò con la mano. I cavalli focosi balzarono avanti. Nell'atto
stesso ella gittò il viso alla portiera. Cortis si protese a lei, pensando
quasi che volesse slanciarsi fuori, ma poi non vide più che la mano, la piccola
mano ignuda, spenzolata come una cosa morta.
La carrozza non si vedeva più da
un pezzo, che egli guardava ancora da quella parte, immobile.
Andò verso casa, spossato,
senz'altra coscienza che di un dolor sordo al cuore. Non entrò nella villa,
prese la stradicciuola che cinge in alto i giardini. Scavalcò la siepe al gran
tiglio e salì verso la colonna. Lassù, fra i castani che guardano la valle e il
piano, si gittò nell'erba molle ancora di pioggia.
Ecco finito tutto; era solo.
Dio, cos'aveva fatto! Il sole era
scuro, il mondo era morto, il cuore gelava. Chiamò: Elena, Elena! Piante ed
erbe tacevano in un silenzio desolato.
Giacque senza moto, senza
pensiero, guardando le nuvole passar lente, trasformarsi di continuo, turbate
da uno spirito muto.
Quanto tempo gli fosse trascorso
così, non lo seppe mai. Si levò finalmente a sedere. Tutto gli faceva male: il
corpo e l'anima. Quello scritto, ultimo tesoro che gli restava d'Elena, lo doveva
leggere subito? Per un momento aveva pensato d'aspettar la sera, di riserbarlo
per l'ora sconsolata.
Considerò la lettera. Era stata
nelle sue mani, era una cosa sacra, per sempre. Vi posò le labbra. La considerò
ancora, la baciò ancora, gittò uno sguardo e l'anima, un istante, laggiù nella
pianura immensa, dietro a lei.
Aperse la busta. Non v'era che
questo:
D'inverno e d'estate, da presso e
da lontano, fin ch'io viva e più in là. 18 aprile 1882.
Cortis guardò le solenni parole,
come impietrato. Il petto gli si venne gonfiando, il respiro diventò affannoso,
una tempesta di dolore gl'irruppe alla gola. Si difese a morsi nelle labbra, a
strette di convulse pugna nelle tempie; poche lagrime roventi gli oscurarono la
pagina aperta sulle sue ginocchia.
Quando gli si snebbiò la vista
era più sollevato. Una voce gli disse nel cuore: S'ella tornasse un giorno,
anche fra lunghi anni? Immaginò il caro viso guasto dal tempo e dal dolore,
bello per lui solo oramai, più dolce che nella giovinezza; immaginò la mano
ancora giovane e gentile, la voce ancora soave, gli occhi stanchi e quieti, che
dicevano ancora, ma quasi timidamente: Fin che io viva e più in là.
E se accadesse ora qualche cosa
per cui ella non partisse più?
Cacciò questo e ogni altro fiacco
pensiero. Il sacrificio era stato liberamente voluto, per il bene; e la debole
natura s'era sfogata abbastanza. Di più non voleva concederle. Si alzò
risolutamente e discese, pensando a Roma, al suo giornale, al febbrile lavoro di
cui sentiva bisogno.
Ebbe, scendendo fra gli abeti e i
pini, la visione dell'avvenire. Lotte con la penna, lotte con la parola, nella
stampa, nella Camera, nelle riunioni, per le sue idee di governo, contro la
indifferenza pubblica; prime vittorie, ossia abbandono di amici, sarcasmi di
sedicenti liberali, villanie di sedicenti cattolici; pertinacia indomita,
favore di Dio nel suo spirito, negli eventi; paurose crisi, giorni d'angoscia,
improvvise chiome, nel suo pugno, della fortuna, giorni di potenza; una grande
via aperta al rinnovamento sociale in senso cristiano e democratico, e su
questa via, avanti a tutti, l'Italia.
Dio lo voleva tutto per questo.
Dio gli toglieva la famiglia, l'amore, la giovinezza, lo chiamava, con un
soffio di fuoco, alle opere sue.
Prima d'entrare in casa fece
sciogliere Saturno che da lunghi mesi era tenuto a catena. Il cane enorme corse
furiosamente su e giù per il prato davanti alla villa, si precipitò in sala a
spiccar lanci smisurati intorno al suo padrone, che, afferratolo per le zampe
anteriori, se lo rizzò davanti, tutto fremebondo, lo guardò negli occhi
lagrimosi lucenti.
Saturno! diss'egli. Povero
Saturno!
Ella gli aveva voluto bene, a
Saturno.
Cortis lo lasciò cadere sulle
quattro zampe e andò nel suo studio, seguito dal cane che gli si coricò a lato,
guardandolo fiso, dimenando forte la coda ogni volta che l'occhio pensoso del
padrone incontrava il suo. Il padrone preparò questo telegramma:
Senatore P. Parma.
Parto subito per mettermi
interamente a disposizione degli amici.
CORTIS.
Suonò il campanello.
Portare subito questo telegramma
diss'egli al domestico. Poi andare a Villa Carrè a prendere la mia roba; poi
avvertire Schiro che sia qui col cavallo alle due per andare in città. Saturno
viene con me.
Fino in città, signore?
Fino a Roma. Se a casa Carrè vi
domandano qualche cosa, rispondete che a momenti ci vado io.
Il domestico fece un inchino e
uscì.
Cortis, rimasto solo, sorse in
piedi. Incrociate le braccia, guardò con piglio severo, là di fronte, suo
padre, e disse forte:
Ecco.
- FINE -
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