IL FIASCO DEL
MAESTRO CHIECO
IL FIASCO DEL MAESTRO CHIECO.
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Rilessi nel vecchio quaderno,
dove l'avevo trascritta molti anni addietro, questa sentenza di Lessing: Lass dir
eine Kleinigkeit nicht n'äher gegehen als sie werth ist (Non lasciarti toccare
da un'inerzia più ch'essa nol meriti). Alzai gli occhi
e vidi la mia vita, vuota e amara per l'oblìo di quelle parole sapienti. Anche lei, però! Sì, lei era stata troppo orgogliosa, troppo
fiera; ma se io le avessi detto sorridendo: Badi, le
sue rose avevano questa spina, e mi ha punto qui e vi è rimasta, ella avrebbe
levata la spina e forse anche baciata la ferita. Invece io m'ero fitto in
cuore, con una strana e crudele compiacenza, quella sua lieve allusione a un passato di cui ero geloso. Il cuore aveva poi date
parole acerbe che fecero stupore e offesa; l'amor proprio era entrato subito in
mezzo, come naturale nemico di quell'altro amore, a reprimere ogni slancio
generoso delle anime; e così, reciso dalla piccola spina un legame che pareva eterno, io non avevo più sposata donna
Antonietta, la giovane vedova del tenente colonnello D'Embra di Challant.
Quando chiusi sospirando il
vecchio quaderno, mi accorsi d'una lettera col francobollo, austriaco, che mi avean gittata sulla scrivania senz'avvertirmene, al
solito.
Era quel matto del maestro
Lazzaro Chieco, il famoso violoncellista e compositore che mi scriveva così:
Castel Tonchino (o che diavolo
è)
24 giugno 1883
Caro Cesare,
Hai da sapere che il povero
Chieco sta da quindici giorni in un Castel Catino del Tirolo fatto così. C'è un diavolo di montagna a picco, tutta nuda; sotto c'è la
strada; questa strada tocca dall'altra parte un laghetto celeste e vi caccia
dentro uno sperone di terra e sassi; in cima a questo sperone c'è Castel
Tapino.
Dovevo andare ai bagni di Comano,
ma passando ho visto questo castello che non c'è altro stupendo posto per
comporre, e ho detto: Chieco mio, se tu non fai il primo atto della Tempesta
qui, 'leverito!' come dicono a Fiumelatte, tu creperai
senza farlo. E ci sono e scrivo. Tu sai, caro Cesare,
che gli amici musicanti di Milano, mi sputarono su questo soggetto per la gola
che n'avevano; ma lo straccione calabrese vuole che 'se òngen' tutti questi
'ragionàt' quanti sono.
Solo che tu mi devi aiutare
perché il poeta veneziano ha il secondo atto in corpo e ponza; e io gli scrivo
corajo, corajo! e lui mi risponde: grassie, grassie,
el vien, el vien! ma non viene un accidente. Dunque va
in via Brera, pigliamelo per il collo, e se non ti dà
l'atto, strozzalo. Quindi tu vieni qua e stai tre
giorni con il povero Chieco. Il primo giorno riposerai, il secondo ascolterai la mia musica, il terzo mi rifarai alquanti versi
che non vanno e se li mando in via Brera, 'te saludi!'. Il quarto te n'andrai fuori dei lazzerei piedi.
Il tuo
Lazzaro Chieco
PS. - Non mi
guardare le donne belle del Tirolo che sono tutte mie. Povero Chieco, e
come si fa?
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