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Il castello era un vero eremo.
Neppure la albergatrice si lasciò vedere, e fu la
serva che m'introdusse nel camerone bianco dove giaceva sul cuscino di un letto
colossale, il mefistofelico viso del mio povero amico Chieco. Me gli accostai
in punta di piedi. Aveva gli occhi chiusi ma la fisonomia era composta.
Dormiva? Mi arrischiai di dirgli piano all'orecchio:
Lazzaro!.
Mi rispose un fil di voce:
Chi è?.
Cesare sussurai sono Cesare.
Allora Chieco, senza aprir gli
occhi, sbatté la bocca come un cane che azzanna a
vuoto, dicendo sottovoce: Asino!. E continuò con una diabolica rapidità crescendo:
Cane, brigante, assassino, 'ragionàt!', aperse quei
suoi carboni sfavillanti di occhi, saltò in piedi sul letto ballonzolando e
gridando come un ossesso: Entrate, o Purganti, di Castel Porcino, entrate a
vedere il principe degli straccioni che, se non si crepa, non viene!, e si pose
a tirarmi tutto che aveva sul letto, mentre entravano ridendo la tonda signora
Purgher e la serva. Colei incominciava a scusarsi meco
della burla, quando Chieco, non avendo altro nelle mani, fece atto di tirarmi
la camicia. Fughe, strilli, e risate; restammo soli.
Chieco saltò dal letto, corse
così come era scalzo e in camicia, a pigliar il suo
violoncello e, sedutosi in faccia a me, se lo piantò fra le gambe, attaccò un
delizioso andante appassionato. La Purgher e la serva fecero
subito capolino all'uscio, ma il maestro s'interruppe, si diede a sgambettare
verso il soffitto, fischiando in un suo modo infernale, per cui le donne
scapparono da capo, non ci seccarono più. Egli, suonando, mi guardava sempre. I
visacci che faceva non si scrivono; non sapevo se commuovermi della melodia
dolcissima, o ridere della bizzarra faccia, ora lugubre, ora sfavillante, ora solenne,
ora furbesca, ora patetica, ora beffarda, comica sempre. Chieco ha
trentott'anni, barba e capelli misti di nero e di argento;
ciò accresce la stranezza della sua fisonomia napoletana, piena di sentimento
umano e di brio diabolico. Finalmente depose lo strumento. E
come si fa? disse egli. Caro Cesare, e come si fa?.
Gli domandai che musica fosse quella.
Povero Chieco! mi
rispose serio serio, io ho detto tutto e questo infelice 'ragionàt' non ha
capito niente. La mia musica significa, o straccione, che io sono innamorato e
che tu ti devi ammogliare.
Io pigliai la cosa come una delle
sue solite pazzie, per quanto mi giurasse che non
aveva mai detto in vita sua una parola più vera.
Egli conosceva benissimo le mie
passate relazioni con donna Antonietta e me ne parlò in modo tale che lo pregai a smettere. Quanto sei
asino! disse egli. Tu le vuoi ancora bene. Diventai
troppo rosso, forse, ma negai; ahimè, più di tre volte. Intanto Chieco ripeteva
su tutti i toni, infilando le mutande: Quanto sei asino! quanto
sei asino!. Tuttavia non mi parlò più di Antonietta.
Invece, appena compiuta la sua
toeletta, mi invitò a vedere 'Castel Pulcino'. Prima
di tutto mi condusse in cucina vociando: O Purganti, o Purganti del diavolo
dove siete? E trovata, invece della Purgher, la
servotta tedesca, incominciò a farle boccacce, a gesticolarle davanti, a
stordirla con un diluvio di 'schlicche schlocche', da cui la disgraziata doveva
capire di preparar subito da pranzo per due; ed accennò di aver capito tanto
bene che Chieco la volle abbracciare prima di portarmi fuori.
Il castello non aveva proprio
niente di raro, toltone la postura e quel cortile pittoresco; ma quando Chieco
s'infatuava di un luogo, lo sentiva da gran poeta fantastico, lo idealizzava
con una potenza straordinaria.
Questo è Castel
Divino, capisci? mi disse egli nel cortile,
estatico, davanti a un capitello gotico dei più comuni. Guarda che bestia
gentile deve essere stato lo scultore di quella
graziosa porcheria lì! Sono dieci anni che io passo otto mesi dell'anno a
Parigi e puoi pensare se ho visto Pierrefonds. Ho visto anche i castelli del
Reno. Ebbene, sono niente rispetto a questo; ti dico
niente. Qui, se tu non sei troppo asino, ci vedi tutti i tempi. Questo
pavimento non sa che sia scalpello, tu lo vedi; è ancora dell'età della pietra.
Le fondamenta di queste mura sono romane. Va qui vicino dal prete di Santa
Pazienza, che è un santo uomo, a domandare se i romani
non praticavano qui. E poi c'è tutto questo Medio Evo; e poi nelle camere tu
hai veduto il Rinascimento sino al rococò; e poi ci sono i Purganti che sono il
vile presente; e poi ci sono io che sono l'avvenire!.
Gli chiesi se avesse fatto gite.
Che gite, che gite! mi
rispose. Queste sono idee da 'ragionàt'. Mi volevano ben mandare a Santa
Pazienza, a Mancavino, al diavolo che li porti. Ma io, questi nomi, li fiuto e mi basta. Vado qualche volta
a Comano, ecco tutto. Domattina per esempio, vado a far colazione a Comano.
Vengo anch'io! dissi.
No! gridò
Chieco Nossignore! Domattina Lei resta a Castel Tavolino e mi rimpasta qualche
dozzina di versi. Io vado per intendermi sul ballo.
Che ballo?.
Il ballo che si
dà qui domani sera.
Una cosa magica, mio caro; vedrai. Ho invitato tutti quegli straccioni di
Comano per aver lei. Si fan due passi fuori?.
Chi lei?.
Chieco mi piantò per ricomparire
due minuti dopo in ombrellino, panama e babbucce.
Si deve capire che io sono in
casa mia disse egli e che tu sei uno straccione
qualunque. Del resto, eccoti lei, ma somiglia poco.
Mi diede la fotografia di una signora
che non mi parve assai giovane, né assai bella.
Somiglia poco
ripeté. La vedrai. È
una musica dalla punta dei capelli alla punta dei piedi. Povero Chieco.
Grossi nuvoloni uscivano dalla
gola delle Sarche, raggiungevano e celavano il sole; l'òra del
Garda soffiava sempre più forte nei pini e negli arbusti sul lago tumultuante,
tutto mobili luci plumbee. Chieco si buttò a giacer supino nell'erba con le
mani intrecciate sotto nuca, e mi volle accanto a sé.
È una musica
disse egli. È la più
morbida, fine musica che io conosca; è del Bach, per
Sebastiano!.
Balzò su a sedere per potersi
sfogar meglio. Non pareva più il matto di prima.
Tu sai disse
egli o piuttosto tu non sai come disegna Bach. Ebbene,
quando lei si muove e io vedo svolgersi tutte le linee del suo dolcissimo corpo
e ondulare in aria così, così, dietro di lei, io penso sempre alla musica di
Bach.
Scosse forte il capo piantandosi
le cinque unghie della mano destra nella fronte.
Cosa vuoi? disse. Ha un orecchio, per esempio,
che lo può fare solo il mio violoncello. E due labbra
poi, due labbra così frementi di passione e di sensi, di tutti i peccati
capitali, mio caro! Benché sia santa e 'prude' come una
vecchia diavolessa inglese. È questo che ti frigge il sangue, capisci?
Non ti parlo degli occhi, non sono mica il Padre
eterno per poterne parlare. Ma le mani, per Bach, ma
le mani! C'è un birbaccione di professore tedesco che gliele studia con gli
occhiali, e gliele ha trovate 'psichiche!' Maledetto, come ha trovato bene! È
un pezzo di Quattrocento.
Continuò a lungo su questo tono
misto di fuoco meridionale e di finezza parigina, di sensualità e di poesia,
levando a cielo persino le toelette della dama, delle quali tremava che fossero
una sola cosa con quel corpo e quella anima, che le
crescessero vive intorno come il calice al fiore. L'anima? Ah l'anima era
musica italiana del Settecento, così ricca di vena, così delicata nello
scherzo, così composta e precisa nel sentimento, sempre penetrata da una
ragione luminosa. Insomma questa donna era la sola degna di sposare Lazzaro
Chieco, la sola cui avrebbe voluto sacrificare la sua libertà.
Questo accesso di febbre
matrimoniale mi strappò una esclamazione molto
ammirata. Allora Chieco mi parlò con toccante gravità della tristezza che era
in fondo al suo cuore sotto tanti pazzi umori, come l'acqua morta, scura in
fondo al lago sotto tanto ballare e luccicare di onde.
Era stanco, disgustato di tutto fuorché della musica e di un suo antico ideale
d'amore, non detto mai ad alcuna delle tante femmine che aveva prese un
momento.
Ho trentott'anni mi disse egli ma
potrei forse amare ancora ed essere felice come un fanciullo
di venti.
E perché non lo sarai? diss'io.
Perché questa stupida non mi ama rispose.
La signora Purgher chiamò da una
finestra. Chieco balzò in piedi e, ficcatosi un dito in bocca, cacciò il suo
fischio diabolico.
Andiamo a
tavola disse egli.
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