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Alla sera Chieco, in frac e
cravatta bianca, raccolse una banda di ragazzotti, distribuì loro delle
lanterne di carta e delle torce a vento, li schierò in colonna, vi collocò in
mezzo i due violinisti, e, salito sull'asino di casa Purgher, si pose a capo di
una bizzarra marcia alle fiaccole, in omaggio a quelli di Comano che dovevano
trovarsi al ponte delle Sarche dopo le nove. I violini stridevano,
Chieco zuffolava, i portafiaccole facevano un chiasso d'inferno, il
terzo musicista tirava razzi dal nero culmine del castello, sul monte Cavedine
sorgeva un fantasma velato di luna. Io m'imbarcai per una corsa di prova. Il
canotto era un vecchio arnese pesante, troppo alto di sponde, fatto per i
flutti e le collere, fluctibus et fremitu, del Garda,
ben diverso dalla elegante barca inglese, che il maestro aveva a Fiumelatte; ma
stava a galla, e io non desideravo di più. Approdai subito al luogo indicatomi
da Chieco e vi attesi che le fiaccole e i clamori tornassero
dal ponte delle Sarche. Faceva quasi freddo, l'aspettazione di questa signora
che piaceva tanto a Chieco m'era sgradevole. Mi dolevo di avere scritto una
certa lettera ad Antonietta, di non essere invece partito per Saint-Vincent
dove ella si trovava. Le avevo scritto
per chieder perdono e pace, ma la penna non aveva forse scritto come il cuore
dettava, la penna aveva forse talvolta sentito il freno del maledetto orgoglio;
non mi si era risposto. Perché scrivere? La febbrile
visione di un incontro con Antonietta venne improvvisamente
sopra di me. Era di una vivezza, e, in pari tempo, di una mobilità
tormentosa. Ora Antonietta mi passava a fianco senza
salutarmi, conversando e ridendo con altri, ora mi diceva un freddo
'buon giorno', ora il suo lungo sguardo mi correva deliziosamente le vene.
Intanto i clamori e le fiaccole tornarono. Udii il fischio di Chieco. Voleva
dire che la signora c'era e che mi tenessi pronto.
Ero uscito dal canotto e mi
preparavo un'attitudine ossequiosa di barcaiuolo che aspetta, quando comparve
Chieco tenendo a braccetto la dama avviluppata in uno scialle bianco.
Entra, entra tu! mi gridò il
maestro. E a posto! La signora siede a prua e al
canotto gli do una spinta io. Presto! soggiunse, parlando a lei. Facciamo presto, altrimenti ci
prendono!.
Infatti si gridava dietro a loro: Chieco! Chieco!
anche noi! Dove siete, Chieco?.
Entrai nel canotto, sedetti sul
banco di mezzo voltando le spalle alla prua, e impugnai i remi. In un baleno la
signora balzò dentro, il canotto fregò, saltando
indietro, la sabbia. Presto, presto! ripeteva Chieco.
Gira, gira!. Feci girare a tutta forza quella vecchia
carcassa e la misi con quattro colpi di remo alla corsa.
Si tagliava dritto all'altra
sponda, quando la dama, che non aveva ancora aperto bocca, mi disse:
Fate il giro del castello.
Dio mio, che dolce voce era
questa? N'ebbi tronchi, per un momento, il moto, il respiro, il pensiero; era
la voce 'sua'. Appena potei, ripresi a remare a caso, immaginando febbrilmente ch'ella sapesse, che non sapesse, non osando volgere il
capo, sentendo che era un momento supremo.
Ella ripeté: Fate il giro del castello! con una leggera impazienza, stavolta. No, no, non poteva saper
niente, Chieco l'aveva ingannata come me. Obbedii; piegammo verso lo scoglio
del castello, incendiato in giro dal bengala. Qualcuno gridò: Donna Antonietta!
A terra! A terra!. Ella mi chiese allora se si potesse
approdare dall'altro lato della penisola.
Esitai un poco, e risposi con
voce involontariamente alterata:
Non lo so.
Antonietta non replicò nulla, ma
subito dopo sentii il canotto piegare sul fianco destro.
Certo ell'aveva
fatto un movimento, aveva cercato vedermi in viso. Anche
la sua voce mi parve leggermente alterata quando soggiunse:
Voglio tornar indietro,
all'approdo.
Pensai che mi avesse
riconosciuto, che forse mi credesse complice dell'inganno. Guai se credeva
questo, lei col suo carattere! Non c'era da sperar più nella pace. Voltai il canotto,
silenziosamente, per ricondurla all'approdo. Ero ben risoluto di parlare ma
solo quando ella fosse libera di scendere, di
lasciarmi. La luna usciva brillante di sotto un nuvolone: entrai nell'ombra del
muro di cinta.
Vi sono altri forestieri qui nel
castello? chiese Antonietta colla stessa voce di
prima. Eravamo a una trentina di metri dall'approdo.
Non risposi. Ora avrei dovuto voltar il capo verso di lei per approdar bene. Remavo adagio, adagio, il cuore mi batteva in tutto il
petto. Antonietta non ripeté la sua domanda. L'angolo del muro di cinta mi
comparve a fianco, era lì che dovevo approdare. Trassi di un colpo i remi nel
canotto e balzai in piedi voltandomi a lei che si rizzò in un lampo e fece l'atto
di slanciarsi a terra.
In nome di Dio esclamai
stendendole le braccia non sapevo niente! Mi crede, mi
crede? Non è possibile che non mi creda!.
In quel punto il canotto urtò la
riva. Antonietta non parlò né si mosse.
Esci, se vuoi proseguii
tra l'angoscia e la speranza, giungendo le mani. Proibiscimi di seguirti, di
parlarti, ma credi!...
Se non lo sapeva interruppe
Antonietta perché questa commedia?,
Saltai a lei, le afferrai una
mano ch'ella né mi abbandonò, né mi tolse, le
raccontai con affannosa fretta quello ch'io pensavo allora essere uno scherzo
di Chieco, le parlai del mio folle orgoglio distrutto dal dolore, dell'ardente
speranza che mi riprendeva, della vita mia che era in sua mano, come anche
l'anima, forse! Ebbro di gioia sentii quella mano cedere, cedere;
potei stringere fra le mie braccia la dolce fidanzata che nulla, neppure la
morte, potrà mai più interamente dividere da me.
Mi disse che aveva creduto
riconoscermi al mio primo non lo so, ma che n'era
stata sicura solo quando non avevo risposto alla sua domanda. Vinsi così presto
perché la mia lettera, arrivata a Saint-Vincent quando Antonietta n'era partita
per non trovarvisi bene, l'aveva raggiunta, dopo lunghe peregrinazioni, a
Comano, la mattina di quel giorno stesso. Le proposi di restare in barca, di
pigliare ancora il largo. Non le parve conveniente; e neppure ch'io, mutata qualità, l'accompagnassi al ballo. Ma prima di andarsene dovette pur dirmi qualche cosa di
Chieco. Egli le aveva infatti parlato di amore;
trivialmente, sulle prime, a modo suo; più tardi con una serietà e una passione
di cui Antonietta aveva creduto capace il violoncello, ma non l'uomo. Respinto
in tutti i modi, le aveva detto male di me,
scandagliando il terreno, giurando che non si sarebbe fatto alcuno scrupolo di
prendere ciò che io non aveva saputo tenere. A questo punto Antonietta gli
aveva chiuso la bocca con due parole asciutte cui egli dichiarò
di accogliere come il turacciolo del fiasco, soggiungendo però che farebbe
vedere alla signora chi fosse Chieco, che testa e che cuore.
Aveva ragione
disse Antonietta
abbracciandomi dopo il suo racconto. Ci ha intesi
molto bene ed è stato molto buono. Ed ora vado, sai.
Va va
risposi trattenendola più forte che potevo.
Come mandi via la gente, tu! diss'ella con una boccuccia e un accento di bambina dolente,
aggiustandomi i capelli sulla fronte. Mi pose le labbra all'orecchio, mi sussurrò:
Ho piacere che siamo qui al buio, che tu non mi veda bene negli occhi,
altrimenti ci tornerebbe tropp'orgoglio qui dentro!.
Ritirò il viso, rise un poco, mi
diede un bacio, saltò a terra e fuggì.
Io mi scostai dalla riva remando
in fretta e, deposti quasi subito i remi, mi abbandonai all'ebbrezza che
m'invadeva cuore, pensieri e sensi. Non so quanto tempo rimanessi
così sdraiato sul banco del canotto, con la nuca a una sponda, i piedi
all'altra, le braccia incrociate, gli occhi alla luna; so che mi scosse il
fischio di Chieco. Mi rizzai e remai a terra. Egli era là, sulla riva. Quando
mi vide a pochi metri mi disse: E come si fa?. Vi era
in me una battaglia di sentimenti diversi; pure saltai subito fuori ad
abbracciarlo. Io non potevo parlare, egli ripeteva: E come si fa? Poco
somigliante la fotografia! Come si fa?. Avevamo gli occhi umidi, credo, tutt'e
due.
Povero Chieco! diss'egli.
È stato un gran fiasco!.
Intanto un carro s'era fermato lì
vicino sulla strada e alcuni uomini vennero difilati
al canotto.
Cosa succede? diss'io
al maestro.
Succede che la barca e io andiamo via. Mi seccava di vederti, ma ti sei andato a
cacciare in mezzo al lago, bisogna bene farti venire a riva. Adesso si mette il
canotto sul carro, Chieco sul canotto e Castel-t'-inchino.
Così fu. In un attimo si
caricarono il canotto e i bagagli. Nel castello ballavano e suonavano, nessuno
sapeva niente, tranne la signora Purgher che credeva sognare e venne tutta commossa per un ultimo saluto. Chieco, seduto
sopra un baule, non volle stringerle la mano, pretendendo che non fosse pulita;
e le ordinò bruscamente di avvertire le signore e i signori che il maestro non cavaliere Chieco stava per partire e avrebbe degnato dar
loro un saluto.
Si udirono presto dei passi
rapidi, delle grida, delle esclamazioni, il carro fu attorniato di gente che lo
voleva prender d'assalto per tirar giù a forza il maestro. Ma questi cacciò
tali improperi napoletani e lombardi da fare scappar le signore e star quieti gli uomini.
Adesso diss'egli o straccioni, vi
saluto. Se volete poi sapere perché ne ho abbastanza
di voi, ecco qua.
Trasse il suo magico violoncello,
incominciò la melodia dolcissima, appassionata, ch'è
del duetto nel secondo atto della Tempesta, la troncò subito con quattro
raschiate buffonesche, ripose lo strumento e gridò 'avanti!' I buoi si mossero,
le ruote stridettero, gli uomini salutarono con la voce e il cappello, le
signore col fazzoletto, due o tre giovinotti saltarono sul carro. Vedo ancora
Chieco buttarli giù a calci, l'odo ancora gridar loro in segno di vittoria: E
come si fa? E come si fa?.
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