UN'IDEA DI
ERMES TORRANZA.
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Il prof. Farsatti di Padova, lo stesso
che ebbe con M.r. Nisard la famosa polemica sui fabulaeque Manes di Orazio, soleva dire di Monte San Donà: Cossa vorla?
Poesia franzese! Il solitario palazzo, il vecchio giardino dei
San Donà gli erano poco meno antipatici di monsiù Nisarde sin dall'autunno
del 1846, quando vi era stato invitato dai nobili padroni a mangiare i tordi e
fra questi gli si erano imbanditi degli stornelli. Dal viale di
entrata con i suoi ippocastani tagliati a dado, al laberinto, ai giuochi
di acqua, alla lunga scalinata che sale il colle; dalla base all'attico pesante
del palazzo, l'eccellente professore trovava tutto pretenzioso e meschino,
artificioso e prosaico. Cossa vorla? Poesia franzese!
Al tempo degli stornelli, forse,
sarà stato così. Il professore non ha più voluto rivedere Monte San Donà e
dorme profondamente da parecchi anni, nel suo campo di battaglia, come possono
ben dirsi:
... Nox fabulaeque Manes
Et domus exilis Plutonia.
Adesso la famiglia San Donà, che
ha vissuto con un certo fasto sino al 1848, pratica rigidamente, sotto l'impero
del nobile sior Beneto, la economia di cui qualche
indizio apparve sino dal 1846. Per il sior Beneto non esiste poesia francese né
italiana; e, sulla collina, il giardino, lasciato pressoché interamente in
delle proprie passioni, ha sciupato le fredde eleganze, ha preso, fra i vigneti
blandi degli altri colli, un aspetto selvaggio, vigoroso, che gli sta molto
bene in quel seno solitario degli Euganei. Al piano il laberinto fu messo a
prato; i tubi dei giuochi d'acqua son tutti guasti;
agl'ippocastani il sior Beneto ha sostituito due filari di gelsi. Voleva abbattere
con lo stesso scopo scientifico i pioppi secolari del viale pomposo che da
Monte San Donà mette ad una umile stradicciuola
comunale; ma la signorina Bianca li difese con passione e lagrime contro
l'acuto argomento di papà: bezzi, bezzi. Quando, nell'aprile del 1875, Bianca
sposò il signor Emilio Sparcina di Padova, chiese ed ebbe in dono dal padre la
promessa di lasciar in pace i cari pioppi che l'avevan tante volte veduta
correre e saltare, prima del collegio, con le sue rustiche amiche, e più tardi
leggere Rob Roy, Waverley e Ivanhoe, tre poveri vecchi
libri della sottile biblioteca di casa, tre poveri vecchi libri immortali che
ora aspettano sul loro scaffale altre cupide mani,
altri ardenti cuori inesperti della nostra grande arte moderna.
Ermes Torranza, il poeta, le
diceva che ella stessa a quindici anni, pareva un
piccolo pioppo ridente a ogni soffio di vento, e che certo le colossali piante
la ricambiavano di tenerezza paterna. Torranza lo diceva sul serio, egli aveva
nel sangue questo fantastico sentimento della natura, questi distinti che i
nostri freddi critici corretti gli rimproveravano forse a torto. Infatti, nel
settembre del '79 Bianca tornò a Monte San Donà, sola,
col cuore amaro; e le parve, passando fra i pioppi, che Torranza avesse
ragione, che le piante pigliassero con lei la espressione di quel biasimo
affettuoso che vien significato con la tristezza e il silenzio. Il piccolo sior
Beneto non tenne questo metodo. Lo aveva sempre detto, quel padre sapiente e
profetico, che la sarebbe andata a finire così, che troppi libri e troppa
musica non conducono a niente di buono, che a forza di volersi raffinare ci si
scavezza. Credeva la signorina di essere nata per sposare un principe, un
Creso, un chi cosa diavolo mai? Erano questi gli esempi avuti dalla santa donna
di sua madre? La mansueta signora Giovanna San Donà, una santa per forza, non
partecipò alle collere del suo temuto signore, anzi godé segretamente che la
ragazza non si fosse lasciata mettere in piedi sul collo e santificare come
lei. Bianca aveva riamato il giovinotto biondo fattosi
avanti, dopo un lungo sospirare, per la mano sua; ma i suoceri grossolani,
avari, stizzosi, le eran riusciti intollerabili. Il marito, buono ma debole,
non osava proteggerla a dovere; indi sdegni e lagrime. Non c'erano figli; e
così Bianca aveva potuto, in un impeto di collera, tornarsene al suo solitario
angolo degli Euganei, ai suoi pioppi venerabili.
Aveva creduto, sì, a prima
giunta, esserne guardata severamente; ma poi raccontò loro tante e tante cose
che ogni freddezza fra le vecchie piante e lei ne fu tolta. Due mesi dopo il
suo ritorno, quando ella vide, un lucido giorno di
novembre, che le ultime brine e il gran vento del dì innanzi le avevano
spogliate di foglie sin quasi alla vetta, quei tremoli pennacchi
giallo-rossicci le misero una malinconia da non dire; sentì che i pioppi la
salutavano da lontano come amici fedeli, prossimi a venir meno, a perdere la parola
ed i sensi.
Tutto veniva meno con essi nella gran pace, nella luce limpida del pomeriggio di
novembre; tutto, tranne il bruno dorato dei cipressi che dai vigneti deserti
presso a Monte San Donà si rizzavano qua e là sul cielo biancastro di oriente.
La giovane signora aveva lungamente passeggiato i vigneti e ora, al cader del
sole, scendeva piano piano la costa che ne beve con i suoi cavi sassi e con le
querce inclinate l'ultimo tepore. Ella guardava,
distratta, più le foglie dense del sentiero, più l'erbe grigie e giallicce del
pendio che il piano e i colli dorati, e il tenero cielo caldo del ponente.
Perché mai aveva pensato, la sera precedente, appena spento il lume, a Ermes Torranza? Perché ne aveva
sognato tutta la notte? Perché non poteva ancora liberarsi da questa immagine? Eran pur quasi tre mesi che non vedeva il
poeta, di cui nessuno a Monte San Donà le parlava mai,
ed egli le aveva scritto una volta sola in principio d'ottobre per inviarle una
romanza da camera. Bianca credeva ai presentimenti, non dubitava che avrebbe presto riveduto l'amico suo; ma pure, come spiegare
una impressione così forte? Ella ammirava l'ingegno di
Ermes Torranza, gli voleva un gran bene per la squisita nobilità dell'animo,
per la conoscenza che ne aveva sin da bambina; ma il poeta era sui
sessant'anni, e benché le portasse una amicizia più appassionata che paterna, e
la sapesse esprimere molto bene in prosa e in versi, con la musica e i fiori,
non poteva turbare il cuore della giovane signora; la quale correva con esso il
solo pericolo di offenderlo quando bisognava posare una delicata parola fredda
sulle sue effervescenze troppo giovanili. Avea ben pensato a lui tante volte
con affetto, povero Torranza; non era mai stata assediata come ora dalla sua
immagine. Proprio nello spegnere il lume le era venuto in cuore il nome strano
'Ermes'; e subito aveva veduto l'uomo, la barba bianca, l'abito nero, la
gardenia all'occhiello. Si fermò involontariamente per una foglia che cadeva in
lenti giri, davanti a lei; e ripensò come lo aveva riveduto in sogno, i versi
dolcissimi che le aveva letti, la divina musica che
aveva suonato stendendo la mano sul piano senza toccarlo. Venendole meno la
vivezza del ricordare, a poco a poco le voci lontane per la pianura, un
frequente zittir d'insetti nell'erba la richiamarono
al vero. Si ripose in cammino sotto le querce piene di sole, guardando
trasparir dal fogliame secco gli antichi tronchi verdi d'edera che le
parlavano, anch'essi!, della strofa in cui il Torranza
parla a certa gente del proprio ideale:
Se voi seguite, aride foglie, il vento,
Tutti si sdegna
il mio fedel cor;
Di ruine, com'edera, è contento,
Sul nobil tronco ch'egli ha amato, muor.
Glieli racconterebbe, a Torranza,
questi fatti bizzarri. Lui già metterebbe in campo il suo spiritismo,
la occulta influenza di una psiche sopra un'altra. Questa
idea le toccò il cuore come la sensazione di un mondo strano, forse non reale
ma possibile; e, se reale, anche presente, anche circonfuso a lei; non
solamente circonfuso, ma nascosto nel suo petto, inconscio nei misteri
dell'anima.
Una campanellina flebile suonò le
ore da lontano, in mezzo ai campi; una, due, tre e
mezzo. Non era più da credere che Torranza venisse in quel giorno.
Bianca trasalì. Le pareva udire
una carrozza sulla strada di Padova; ma ne passavano tante! Tutti volevano
godere quelle deliziose giornate di novembre. Sì, sì, i cani della fattoria abbaiavano, le ruote stridevano sulla grossa ghiaia del
viale d'entrata. Bianca affrettò il passo. Per tornare alla villa doveva scendere,
poi risalire.
Presso a casa trovò un ragazzo
che veniva in cerca di lei. Erano arrivati tanti signori in due carrozze e la
padrona gli aveva detto di correre a cercare la
padroncina. Non sapeva il nome di questi signori né se ci fosse
tra loro un vecchio vestito di nero con la barba bianca. Gli pareva di sì, ma
non n'era sicuro.
Bianca entrò trafelata nella sala
a pian terreno dove tutti erano ancora in piedi e Beneto distribuiva, qui i
suoi rispetti, lì le sue riverenze, a destra i suoi rispetti, a sinistra la sua
servitù, qualche complimentino sotto voce, qualche risatina cerimoniosa. Bianca
si fermò sulla soglia, raccolse tutta quella gente in una occhiata;
il poeta non c'era. Erano i Dalla Carretta con i loro ospiti,
un piccolo museo archeologico di lunghi scialli scuri, di cappellini barocchi,
di calze e nappe canonicali, di facce slavate; gente noiosa che veniva lì una
volta l'anno, per convenienza, a sedersi in giro e a guardarsi un tratto in
viso senza saper che dire; dopo di che un vecchio servitore in giacchetta bigia
entrava molto dignitosamente portando il caffè e i 'pandoli' che il
cavalleresco Beneto serviva con i suoi scherzetti sempre uguali, di cui la
compagnia rideva regolarmente ogni anno sullo stesso tono e sulla stessa
misura.
Perdere un bel tramonto di
novembre per costoro! Bianca non li poteva soffrire, le
toglievano il respiro.
Non so le disse fra un sorso di
caffè e l'altro il canonico Businello non so se la
sappia la brutta notizia..
No. Che notizia?..
rispose Bianca a fior di labbro.
Ah, sicuro dissero due o tre voci
sommesse.
Ah sicuro.
Il povero
Torranza, poveretto compunto il canonico, intingendo nel caffè l'ultimo
pezzetto della sua ciambella.
Bianca si sentì
una stretta al cuore; un formicolìo freddo al viso; e non poté articolare
parole.
Pur troppo disse monsignore,
agitando la tazza in giro per sciogliere lo zucchero rimasto al fondo. Mancato,
sì, poi... Vuotò la tazza e soggiunse sospirando:
Iersera, alle undici e mezzo.
Bianca perdette un momento la
vista, ma oppose all'emozione un voler violento, un
impeto, quasi di collera, e vinse. La signora Giovanna la vide farsi pallida
pallida e fu per alzarsi sgomentata; una rapida occhiata dura di sua figlia la
fermò sull'atto. Le signore Dalla Carretta, che conoscevano certi maligni
epigrammi corsi a Padova sulle fiamme senili di Torranza, si guardarono alla
sfuggita e tacquero.
Intanto il canonico raccontava
che Torranza si era posto a letto due o tre giorni
prima senza sofferenze gravi, però con tristissimi presentimenti. La catastrofe
doveva esser avvenuta improvvisamente; ma egli non poteva affermarlo. Era
partito da Padova, poche ore dopo, alle dieci del mattino. La città era già
piena della notizia; si sapeva che la Giunta Municipale doveva raccogliersi
d'urgenza.
Le solite commedie esclamò il sior Beneto. Beata, quella
gente là, di poter far del chiasso e spender dei soldi. Capaci di ringraziar Dio che quel povero infelice sia morto adesso
che ci son loro in Comune. E cosa crede,
Monsignore, che vogliano onorarlo per quei quattro versi? Ma
neanche per idea! È perché era famoso anche lui a spendere e spandere. Basta
questo, caro lei. Un uomo grande!
Papà disse Bianca agitatissima se
deliberano qualche cosa per Torranza, fanno più onore
a sé che a lui.
Idee tutte vostre, queste replicò Beneto dispettosamente. Idee tutte vostre. Non
mettetevi mica in mente ch'egli fosse poi questa gran
cosa. Non m'intendo di versi, ma siamo stati a scuola insieme, con Torranza, e
posso dirlo. Volete metter la testa di Farsatti?
No, no, no
interruppe con certa secchezza molle il canonico. Per talento, lasciamolo
stare, il povero Ermes ne aveva più del bisogno; ma
criterio, signora, criterio, la mi scusi proprio, neanche una briciola.
Egli era dei
miei amici, l'avverto, monsignore rispose Bianca. A me queste cose non
si possono dire.
Ah bene! fece
Monsignore scuro. I Dalla Carretta si rannuvolarono. Ma
Beneto non permise che la finisse così, in un silenzio burrascoso.
Monsignore parla benissimo disse
egli e mi meraviglio di voi che non le abbiate mai capite,
certe cose.
Basterebbe
l'affare dello spiritismo osservò a mezza voce il vecchio conte Dalla Carretta, rivolgendosi con un
sorrisetto al canonico, per confortarlo.
Euh! disse
questi, alzando gli occhi e le sopracciglia io non parlo.
Una zitellona
della compagnia chiese, facendo l'innocente, se Torranza fosse proprio
spiritista. Spiritista
fanatico, era. Aveva una biblioteca di pubblicazioni tedesche, francesi,
inglesi, americane sullo spiritismo. Stava traducendo un libro di un certo
Fechte o Fochte o Fichte, pieno di quelle minchionerie.
Si capisce che lei non lo ha
letto interruppe Bianca.
Sta' a vedere saltò su il sior
Beneto che mi diventate spiritista. Vorrei vedere
anche questa.
Bianca fu per dare a suo padre
una risposta audace e pungente. Si contenne e rispose solo che non amava i
pregiudizi di nessun colore.
Adesso gli potremo dare la prova,
allo spiritismo del povero Torranza osservò un signore perché, e questo l'ho
udito io con le mie orecchie da Pedrocchi, egli diceva
che dopo morto si sarebbe fatto sicuramente vedere e intendere da qualcuno.
Beneto nitrì una risata
gutturale, a bocca chiusa.
Gesummaria, papà! disse la contessina Dalla Carretta al suo genitore.
Matto, cara,
matto! rispose questi.
Eh, matto, poveretto; eh matto.
Ciascuno guardava il suo vicino, gli passava la parola
a mezza voce. Bianca si alzò senza dir nulla, spinse via nervosamente la sua
sedia e uscì.
Beneto fremeva,
la signora Giovanna stava sulle spine. Dopo un breve silenzio, la Dalla
Carretta guardò, imbarazzata, suo marito, piegando la persona; in un attimo
tutti furono in piedi, contenti, sollevati da un gran peso.
Beneto discese la scalinata a
braccio della contessa, che gli espresse, con molta
ipocrisia, il suo rincrescimento per i discorsi che si eran fatti prima, per il
dispiacere arrecato alla signora Bianca. Beneto protestò. Aveva gusto che sua
figlia imparasse a conoscer meglio il mondo: era stato
anche lui amico di Torranza, per tradizioni di famiglia; ma pur troppo quel
vecchio matto aveva esercitato una pessima influenza in casa Squarcina.
Intanto, dietro a loro scendeva la brigata tutta sussurri maligni, interrotti
prudentemente da qualche osservazione a voce alta sul tramonto vermiglio, sulle
campane della parrocchia che suonavano per l'ottavario dei morti, sul nero
nebbione che si levava dall'orizzonte soffiando.
Ecco i due
carrozzoni che si fanno avanti; ecco daccapo gli ossequi, i rispetti e i doveri. I lunghi scialli scuri, i cappellini barocchi,
le nappe canonicali, le slavate facce noiose si allontanano sotto i pioppi, e
il sior Beneto ritorna su, borbottandosi la lettura di un foglio consegnatogli
dal cursor comunale, che lo segue col berretto in mano. Giunto sulla spianata,
trova un servitore uscito ad avvertirlo che è in tavola; e fa chiamar fuori la
padrona.
Qui c'è l'annuncio di Torranza
diss'egli e questo galantuomo ha un'altra lettera.
Pagate voi?
Cosa? diss'ella
timidamente.
Cosa? La multa, 'cosa'!
Se vostra figlia si fa scrivere da dei disperati che
riempiono Dio sa quanti fogli e poi non sono in caso di metter fuori otto
palanche, suo danno! Io non pago sicuro.
La signora Giovanna guardò la
lettera. Viene da Padova diss'ella esitando. Eh, sì
sa, cara, che pagate!
È urgentissima sussurrò la povera donna. Beneto le domandò
qualche cosa con gli occhi e un cenno del capo.
No diss'ella. Mi pare e non mi pare di
conoscerlo, il carattere: ma di quella casa là, no certo.
Benone! esclamò
l'ironico marito. Adesso poi, siccome sarebbe una pazzia,
così son sicuro che pagate. Accomodatevi pure.
Ed entrò in casa.
La signora non aveva un soldo in
tasca, ma fece subito qualche segreta convenzione col cursore, che salutò e
sparve nella nebbia, dilagata, in un batter d'occhio, sul piano. Il triste oceano
bianco fumava su tutti i pendii, metteva le prime
ondate taciturne sulla spianata di Monte San Donà. Ancora un momento e avrebbe
chiusa la casa nel suo vapor denso, avrebbe affacciata
a tutte le finestre la sua malinconia stupida.
Ci vorrà un
lume, a tavola disse al domestico la signora San Donà, rientrando.
Niente, niente gridò Beneto dal
salotto non occorre lume che ci si vede benone.
Sbrigatevi e dite alla principessa che si degni, almanco, di non farsi
aspettare.
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