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L'annuncio così crudo, inatteso,
della morte di Torranza era stato per Bianca un colpo di sgomento e di dolore,
che volle celare, quanto poté; a quella sciocca compagnia pettegola. Comprimer
lo sdegno le riusciva men facile; e, venuti in campo i discorsi di Torranza al
caffè Pedrocchi, era uscita per non prorompere contro suo padre che rideva e
gli altri che compativano.
Si chiuse in camera. L'immagine
di un nuovo Torranza, di un Torranza morto assai più grande e buono che non le
fosse mai parso il vivo, le riempiva l'anima; e lo pianse, meravigliata delle
proprie lagrime, di sentirsi una tenerezza tanto profonda. Averlo lasciato
partire così, senza un addio! Ecco, se non fosse stato quel ch'era stato, ella
si sarebbe trovata a Padova, lo avrebbe potuto vedere. Si rimproverò d'aver
risposto un po' tardi all'ultima sua lettera, di non averlo ringraziato bene
della romanza. Tante altre sue piccole negligenze, tante altre lievi freddezze
punto necessarie, che avevan forse rattristato il poeta, le tornavano tutte al
cuore, le facevano male. Egli, un potente creatore d'anime e di figure ideali,
l'aveva cullata, da bambina, sulle ginocchia, l'aveva consigliata, dopo il
collegio, negli studi; sposa, l'aveva condotta alla più squisita intelligenza
d'ogni arte; finalmente si era innamorato di lei come delle creature a cui il
suo genio aveva dato vita e passione. Adesso Bianca voleva persuadersi d'essere
stata amata così; sentiva più pura, in questo concetto, la memoria del poeta, e
se più alta, più vicina, al paese in cui vivono i sogni dei grandi poeti
spiritualisti. Egli l'amava ancora, povero amico; le si era voluto ricordare
dal paese dei morti appena giuntovi. Era spirato, alle undici e mezzo; e Bianca
si era sentito, prima della mezzanotte, il suo nome strano nel cuore.
Si picchiò all'uscio; era la
signora Giovanna con una lettera urgentissima. Bianca prese la lettera senza
guardarla, pregò sua madre di scendere a pranzo, di lasciarla sola. Non voleva
trovarsi con papà prima d'essere un po' più calma; temeva che certi discorsi la
irritassero troppo, le facessero dire quello che non avrebbe voluto. La signora
Giovanna se n'andò sospirando, mentre sua figlia, chiuso l'uscio, si
sorprendeva dell'oscurità sopravvenuta nella camera, del torbido mare che
saliva davanti alle finestre. Vide per un momento ancora i fantasmi dei vasi
ritti sul muricciolo della spianata, qualche altro spettro di piante vicine;
poi niente, neppure un'ombra nel bianco immenso, eguale, impenetrabile. E
stette a guardarvi su, attonita sentendo la voluttuosa dolcezza di trovarsi lì
nella sua piccola camera tepida, a pensare, in grembo a quell'oceano
silenzioso; sentendo una rispondenza arcana, indefinibile delle cose esterne
con i pensieri che le empivano il cuore. Si ricordò a un tratto della lettera che
aveva in mano, l'accostò ai vetri per decifrarne il carattere. Oh Dio!
diss'ella.
L'aperse in furia con le mani
convulse. Vi trovò uno scritto e una fotografia. Ravvisò tosto la barba bianca,
l'abito nero, il fiore all'occhiello; lui insomma, Ermes Torranza.
Sentiva di dover leggere subito,
non ci vedeva, non sapeva che si facesse, andava per la camera con la lettera
in mano cercando a tastoni una candela che non v'era. Abbrancò un cerino sul
suo tavolino da notte e l'accese. La fiammella mise un picciol lume sul legno
lucido e sul crocefisso di bronzo, un gran buio nella camera. Bianca
s'inginocchiò, macchinalmente, e lesse, sempre ginocchioni, lo scritto che
segue:
Padova, 26 ottobre 1879
Cara, non si turbi, non si
sgomenti; legga questa lettera come io la scrivo con la tranquillità più
serena. Non è niente; il vecchio codino Torranza, che cosa strana!, se ne va.
Mi dia la buona notte, cara Bianca; dispongo perché questa lettera Le sia
inviata appena spento il lume.
Avvertito da una voce interna, ho
fatto stamane, spontaneamente, quello che fece, prima di morire, il codino mio
padre; adesso mi sento nel cuore qualcosa che si allenta, e insieme un silenzio
pieno di riverente aspettazione. Avrò forse ancora quattro, sei, otto giorni;
mi basta un'ora per Lei.
Bianca, nei nostri passati
colloqui, Ella mi parve temere, qualche volta, di un'ombra; il suo gentile
affetto per me n'era turbato, non sapeva come esprimere un risentimento. Non è vero?
Pure vi è solo nel mio cuore una tenerezza che in questo stesso momento solenne
non offende i pensieri più alti; tutta la colpa è del vecchio sangue fantastico
che lascia sempre un po' di colore sui sentimenti e sulle parole. Mi perdoni e
sorridiamone insieme, oramai.
Ho a farle un'altra preghiera e
voglio porvi su il suggello della morte. Mi è amaro non averle dato in addietro
più prudenti consigli circa i Suoi dissensi domestici e discender nella tomba
con questo pensiero. Bianca, per il bene Suo, per il bene di persone che Le son
care e un poco anche per la mia pace nel mondo a cui vado, mi ascolti; non
resti a Monte San Donà. Ella, in fondo al cuore, ama certo ancora Suo marito.
Questo povero giovane fa pietà. L'altro giorno mi ha parlato di Lei per un'ora,
con le lagrime agli occhi. Mi disse di averle scritto più volte, mi riferì le
Sue risposte che gli tolgono ogni speranza se i vecchi non acconsentono a una separazione,
o, almeno, se non promettono mutare contegno con Lei; e coloro non piegano né
all'una né all'altra cosa. Bianca, pensi che qualche diritto ceduto in silenzio,
qualche torto patito senza sdegno, non per timore, ma per pietà delle persone
ingiuste che pensano offenderci, leva l'anima nostra al di sopra del loro contatto
irritante. Torni con suo marito. Non vi è tanto amore nel mondo da gettar via
questo ch'è pur fedele, pur tenero, e non toglie la pace.
E ora, se si ricorda le nostre
conversazioni sul mondo invisibile e sui fenomeni che il secondo nega perché lo
umiliano, non troverà strano ch'io desideri manifestarmi a Lei, dopo la mia
morte, in qualche modo sensibile. La sera del giorno stesso in cui riceverà
questa lettera, si trovi sola, fra le dieci e le dieci e mezzo, nella Sua saletta
del piano. Apra la porta che dà sul giardino; le ombre della notte devono poter
entrare. Suoni quindi la breve introduzione della romanza che Le ho inviata
venti giorni sono. Dopo di questo, se Dio permette ch'io sia presente e possa
darne segno, anche lieve, lo darò. Ella non conosce paura e vorrà consentire
all'ultima fantasia sentimentale di un vecchio poeta che muore.
È tempo di dirvi addio, Bianca.
Ho qui davanti a me la testina leonardesca che Vi somiglia. Gli occhi
dell'incognita sono ben grandi, i capelli più chiari, ma l'espressione originale
del viso è la stessa. Questo dolce sole di ottobre che passa tra i miei libri
chiusi, brilla sul quadretto. Vi vedo viva, depongo la penna. Vi guardo, Vi
guardo, una ultima ed irragionevole lagrima mi cade e si perde per sempre, come
lo merita. Addio, addio.
Ponete questo ritratto nel vostro
salotto di Padova.
Ermes Torranza
Sì, sì sì singhiozzò Bianca
appassionatamente. Tutto! Si chiuse il viso tra le mani, promise a Torranza,
con uno slancio del cuore, che avrebbe appagato tutti i suoi ultimi desideri e
pregò, senza parole, per esso.
Cadendo quell'impeto di fervore,
il suo pensiero si assopiva, si perdeva, senza avvedersene in un altro campo.
Ella non pregava più; aperte le mani, guardava la fiammella del cerino, si
sentiva tornar nel cuore le conversazioni avute con Torranza sui misteri
d'oltre la tomba.
Non cercava né combatteva queste
memorie, le lasciava venire, inerte. Ad un tratto spense il cerino, pregò un
altro poco e si rizzò. Era notte, il bianco oceano silenzioso empiva sempre le
finestre, pareva essere in un'isola. Le venne in mente, malgrado se stessa, un
racconto meraviglioso fattole dal poeta, una camera buia nel vecchio castello
reale di Stoccolma, in mezzo al mare; il re Carlo XI che siede taciturno al
fuoco ascoltando il dottore Paumgarten parlar della regina morta, poi si alza,
va alla finestra e dice al conte Brahe: chi ha acceso i lumi nella sala degli
Stati?.
Quivi non apparivano lumi;
appoggiando il viso ai vetri si vedeva in alto, nella nebbia, un diffuso
chiarore lunare. Bianca non poté a meno di pensare alla sala del piano, di
vedervisi sola con le candele accese, ad aspettare uno spirito.
Alle sette e mezzo uscì di camera
senza lume, discese la scala rischiarata dai quattro finestroni che rompono
tutto un fianco del palazzo, dal primo piano alla cornice. Attraverso i due
superiori si vedeva la luna mancare e tornare fra le nebbie fumanti; dei vani
azzurrognoli si aprivano e si chiudevano nel cielo.
Sei qua? disse dal fondo della
scala la signora Giovanna.
Subito dopo la fessa vocina
stizzosa di Beneto gridò più da lontano:
Presto! Oramai, tanto, la poteva
anche andare a letto, mi pare. Presto!
Bianca non gli badò. Quel padre
amoroso voleva proprio farle costare poco il ritorno in casa Squarcina!
Egli era in salotto, picchiava e
ripicchiava sulla tavola un mazzo di carte, impaziente che sua moglie venisse
per la solita partita.
Qua! disse egli, brusco. Qua!
Andiamo!
La rassegnata signora prese il
suo posto all'angolo della tavola, presso una lucerna a petrolio. Bianca
sedette sul canapè, nell'ombra. Povera mamma, pensava, che vita! Emilio era
debole, non sapeva proteggerla; ma però, qual differenza da suo padre! Ella era
sicura del suo marito, se non ci fossero i vecchi, la farebbero regina in casa
propria. Era andato a piangere da Torranza, povero Emilio! Sentiva di volergli
bene anche lei; e bisognava pur prenderlo come la natura lo aveva fatto.
A vu! brontolava tutti i momenti
il signor Beneto. A vu! Presto!
Egli non rivolse mai una parola a
sua figlia, e dopo le otto e mezzo se ne andò, com'era solito, a letto. Allora
la signora Giovanna che prima non aveva mai osato fiatare, si pose attorno a
Bianca perché pigliasse qualche cosa, offerse quanto seppe con una premura
timida e appassionata nel tempo stesso; ma Bianca non accettò nulla.
Quella lettera? disse sua madre.
Era di casa tua?
No.
Disgrazie?
No, mamma.
Perché ho visto urgentissima
rispose l'altra esitante.
Bianca si rizzò e l'abbracciò.
Mamma disse ella sottovoce se
andassi via presto? Se tornassi con Emilio?
Oh Dio! rispose la signora
Giovanna commossa cosa vuoi che ti dica? In coscienza non potrei dirti di no.
Forse lo faccio, mamma.
Alla signora Giovanna vennero le
lagrime agli occhi.
Ma che ti maltrattino poi, no
sai! disse ella con voce soffocata e soggiunse dopo un breve silenzio:
Se fosse per il papà, sai bene
come è fatto. Non bisogna mica badare a certe apparenze.
No, mamma, non è per il papà.
Bene, cara, cosa vuoi che ti
dica?
La povera donna prese le sua
calza e si mise a sferruzzare frettolosamente. Dopo le asciutte risposte di
Bianca non osava toccare della lettera urgentissima, quantunque comprendesse
bene che il segreto di questo probabile ritorno in famiglia doveva trovarsi lì.
Lavorava e taceva, sperando ottenere qualche spiegazione col silenzio che era
come un dignitoso dolersi del riserbo di Bianca, un espresso aspettare che
parlasse. Ma Bianca non aperse bocca, per cui, verso le dieci, la buona
signora, mortificata e non avendo il coraggio di usare autorità, posò il suo
lavoro, e chiese alla figlia se volesse andare a letto.
Bianca rispose di non aver sonno.
Sarebbe andata volentieri nella saletta del piano a fare un po' di musica. La
mamma voleva tenerle compagnia, ma ella protestò tanto nervosamente che la
signora Giovanna le chiese scusa, e, accesale una candela, salì le scale con la
sua cerea faccia curva sul lumicino a petrolio.
Bianca si avviò invece per il
corridoio che mette alle camere deserte nell'angolo nord-ovest della casa.
Entrò in una sala non grande, ma molto alta, tutta istoriata di affreschi
mitologici, vuota; e accese con la mano ferma le candele del suo piano
attraversato a un canto. La lenta luce si allargò, a destra, sopra un tavolino
zeppo di musica; a sinistra, sopra una giardiniera; in alto, su per le membra
enormi di non so quali divinità. Non vi erano altri mobili in tutta la sala; i
passi della giovine signora vi pigliavano un suono lungo, vibrante.
Ella guardò l'orologio: le dieci
erano imminenti. Cercò un pezzo di musica e lo posò sul leggìo del piano. Poi
si trasse dal petto il ritratto di Torranza, guardò a lungo la calva testa
scultoria, del poeta. Oh, voleva bene accontentarne l'ultimo desiderio quando
anche fosse una follia, voleva fedelmente comporgli la scena poetica, cui egli
aveva forse pensato con qualche compiacimento prima di morire!
Si giustificava così, con se
stessa, dei suoi preparativi e della sua emozione, senza confessarsi che
aspettava davvero, con un oscuro istinto del cuore, qualche cosa di
straordinario. Posò il ritratto sul leggìo e stette un momento,
involontariamente, in ascolto. Che cosa si muoveva dietro a lei? Niente, un
foglio scivolava dalla catasta della musica. Bianca si ripiegò a leggere i
versi riprodotti sulla copertina del pezzo che aveva davanti. Erano stati
composti, lo sapeva, fra il contrasto della passione con il sentimento
religioso, da un giovane amico di Torranza, morto pochi mesi dopo, presso la
donna non sua che amava malgrado se stesso, in silenzio; e dicevano così:
Ultimo pensiero poetico
Le finestre spalanca a la luna;
T'inginocchia, mi sento morir.
Da i terror de la cieca fortuna,
Da la guerra de i folli desir,
Esco e salgo ne' placidi rai
Lo splendente universo a veder,
A bruciar ne l'amor che bramai,
Che non volli qui impuro goder.
Ma se orribile un ciel senza Dio
Tra le stelle funeree mi appar,
Ricadrò su quel cor ch'era mio,
Disperato m'udrai singhiozzar.
Bianca si coperse il viso con le
mani, si rivide dentro alla fronte le sinistre parole:
Ma se orribile un ciel senza Dio
Tra le stelle funeree mi appar.
Immaginava con un brivido quel
che proverebbe se udisse piangere vicino a sé nel vuoto. Aperse la romanza per
dar una passata alla introduzione non troppo facile, che aveva letto una volta
sola. Ma le pagine non volevano stare aperte, si chiudevano tutti i momenti
fastidiosamente. Le fermò col ritrattino di Torranza, e suonò, sotto voce, le
quindici o venti battute di introduzione che ricordano molto, in principio, la Dernière
pensèe musicale di Weber.
Dio, come parlava quella musica!
Che amore, che dolore, che sfiduciato pianto! Entrava nel petto come un
irresistibile fiume, lo gonfiava, vi metteva il tormento di sentire la passione
sovrumana senza poterla comprendere. Bianca si alzò con gli occhi bagnati di
lagrime, andò ad aprir le imposte della porta che mette in giardino. Le ombre
della notte aveva scritto Torranza devono poter entrare nella camera.
La notte era chiara. Gli alberi
del giardino si vedevano sfumati nella nebbia lattea. Non un sussurro, non un
soffio; la nebbia, muta e sorda, era immobile.
Bianca tornò con un leggero
tremito al piano. Guardò ancora l'orologio; erano le dieci e un quarto. Allora
si decise, si raccolse nella musica che aveva davanti, bandì ogni altro
pensiero, ogni trepidazione come se vi fosse dietro a lei una attenta folla severa
e strappò dal piano con la sua grazia nervosa il primo accordo.
Ella suonava ansando, per lo
sforzo di mettere tutta l'anima nella musica, di non pensare a quel che forse
verrebbe dopo. Le fu impossibile seguire le ultime note smorzate della introduzione;
il cuore le batteva troppo forte. Passarono dieci, venti, trenta secondi
eterni. Silenzio.
Bianca alzò un poco la testa. In
quel momento due colpi sommessi, affrettati, suonarono vicino a lei, che balzò
in piedi con un subito ritorno di energia calma, e stette in ascolto.
Altri due colpi affrettati, più
forti dei primi; poi un tocco leggero sulla soglia della porta aperta alle
ombre della notte. Bianca guardò. Era entrata una ombra, una figura umana. La
giovine signora gittò un grido: Emilio! disse ella. Era suo marito.
Egli si fece avanti rosso rosso,
a passo incerto e a braccia distese, con la stessa ingenua contraddizione negli
occhi di imbarazzo e di ardore. Bianca, pietrificata, non si muoveva.
Mi aspettavi bene! disse egli
supplichevole, fermandosi.
Fu un lampo. Bianca ride
confusamente che Torranza chissà come aveva combinato questo e rispose: Sì
buttando le braccia al collo di suo marito con impeto così repentino che il
povero giovane, tra la felicità ed il non capir niente, perdette addirittura la
testa e non sapeva che ripetere fra un bacio e l'altro: scusa, scusa. Ma ella
non lo udiva neppure e piangeva piangeva, sentendosi una tenera gratitudine per
il suo povero amico, una gran consolazione di esser al posto che Dio,
finalmente, le aveva dato nel mondo, presso un cuore forse debole, forse male
atto a comprenderla, ma buono e fedele.
Star qui con la porta aperta
sussurrò il giovane carezzevolmente a quest'aria umida, con il dolor di capo
che hai! Non voglio mica io!
Ella passò in un baleno dal
pianto al riso, e rise, rise sul suo petto, rise deliziosamente sentendo tornar
l'allegria pazza del suo viaggio di nozze. Povero caro Emilio, credere che un
doloruccio di capo di due mesi prima le durasse ancora! Egli restò un momento
perplesso e poi rise anche lui di tutto cuore.
Senti diss'ella a un tratto,
facendosi seria adesso spiegami bene tutto.
Suo marito parve sorpreso. Ma se
lo sai! rispose.
Lo so, ma ho piacere udirlo da
te. Vien qua, conta.
Camminarono su e giù per la sala,
cingendosi l'un l'altro la vita con un braccio, parlando piano.
Lui aveva fretta, voleva
sbrigarsi in due parole, dir che Torranza gli aveva scritto di venire e basta.
Ma lei non la intendeva così! Aveva egli seco la lettera di Torranza? No.
Quando gli era pervenuta? Questa mattina stessa prima di mezzogiorno. E cosa
diceva, proprio? Diceva presso a poco: la sera del giorno in cui riceverai
questa lettera, trovati fra le dieci e le dieci e mezzo a Monte San Donà. Se
vedi lume nella sala del piano, se odi suonare e se la porta è aperta, entra,
che Bianca ti aspetta ed è disposta a tornare con te. - Che data aveva la
lettera? Anche la data? Egli non volle più rispondere né ascoltare; la sua
gioia, la sua passione avevano bene il diritto, oramai, di passare avanti a
tutto. E si strinse Bianca tra le braccia, le soffocò nel collo un tal impeto
di tenerezza che ne perdette anche lei la parola. Ma, improvvisamente, un lieve
suono blando la scosse.
Zitto! diss'ella rialzando il
viso. Puntò le mani al petto di suo marito e guardò là ond'era venuto il suono.
Al leggìo del piano la romanza Ultimo
pensiero poetico si era chiusa sul ritrattino che Bianca, poco prima, vi
aveva posato a trattenere le pagine; Ermes Torranza non si vedeva più. Parve
all'amica sua che quello fosse il promesso segno sensibile, l'addio del poeta
il quale, compiuta l'opera propria, si ritraesse chetamente, si dileguasse
nell'ombra, o per le condizioni misteriose della sua esistenza superiore, o,
fors'anche, per effetto di un malinconico sentimento che si poteva comprendere.
Cosa è stato? disse Emilio.
Cos'hai che sospiri?
Bianca tornò a piegargli il viso
sul petto. Niente diss'ella.
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