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Antonio Fogazzaro
Il fiasco del maestro Chieco

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    • FEDELE.
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FEDELE.

 

Soffio, signor Fogazzaro disse, quella sera indimenticabile del agosto 1884, il generale Trèzel pigliandomi una delle mie povere pedine. Stia attento!

Alle dame gli rispose per me la signorina Prina toccandomi il braccio con la penna. Avanti! Detti! 'Mi co te vedo, sento Un certo non so che'; e poi?

Scusi generale dissi io, dopo aver mossa una pedina a caso. 'È digo che nol sento, E digo che nol ghè'.

Fa piacere, Filippo! disse la signorina a suo fratello che cercava inutilmente sul piano il motivo dell'Aria di Chiesa di Stradella.

Continuai a dettare la vecchia canzonetta che piaceva tanto alla società milanese, molto intelligente, molto distinta, dell'Hôtel Brocco:

 

Mi me se inchiava i denti

Quando te voi parlar;

E digo: i xe acidenti...

 

Qui mi mancò la memoria. La signorina Prilla, le altre amabili signore e un paio di giovanotti molto disposti a usare della graziosa strofetta per i loro fini particolari, se ne desolavano. Il verso non venne e io potei solo ripetere alla damigella con il più sentimentale accento che seppi:

 

Mi me se inchiava i denti

Quando te voi parlar.

 

'I xe acidenti' osservò sorridendo donna Luisa Trèzel con la sua solita finezza benevola e ironica insieme. Chi sa soggiunse sotto voce che il signor Fogazzaro possa avere il versetto dalla sua Fedele.

Tutti risero e io mi seccai. Mi rimisi a giuocare con attenzione; poi, siccome Filippo non veniva a capo di nulla, mi alzai, gli accennai con la mano destra le prime battute dell'Aria di Chiesa.

Mangio, signor Fogazzaro disse il generale che non aveva mai tolto gli occhi dallo scacchiere, se non per guardare di traverso, qualche volta, pianoforte e suonatore. La sua signora mi domandò se fossi in collera con lei. Non ero in collera, ma mi seccavano le allusioni a quella persona che donna Luisa chiamava 'la Sua Fedele'. Era una giovane signora arrivata da tre giorni a S. Bernardino, sola. Nessuno la conosceva. Salutava molto gentilmente ma non parlava mai con nessuno. La gente dell'albergo asseriva ch'era veneziana. Sul cartoncino che usano allacciare intorno alle salviette, perché i forestieri vi scrivano il proprio nome, ella aveva scritto con una calligrafia punto inglese, punto elegante:

 

Signora Fedele.

 

Era bionda: non alta ma snella; bellina assai ma più delicata e graziosa che bella. Lo confesso, non saprei dire con certezza il colore de' suoi occhi; avevano forse il colore mutabile del mare presso il quale era nata. Portava sempre lo stesso costume grigio, la stessa toque di pelliccia nera, gli stessi guanti neri. Usciva tardi per qualche passeggiata solitaria; alla fonte non si vedeva mai. La sera scendeva al caffè verso le nove. Se si faceva musica, restava lungamente nel suo angolo scuro, lontano dal pianoforte; altrimenti prendeva il caffè e spariva.

Si facevano commenti infiniti sulla sua origine, sul contegno misterioso, sul nome 'Fedele', che serviva persino al generale Trèzel per illudersi di avere spirito. Mi accadde una volta, nel solito crocchio della loggia, di prendere le sue difese contro le signore, che mi parevano troppo maligne. Ella passò in quel momento improvvisamente, salendo dalla via. Era molto accesa in viso, ma non guardò alla nostra volta. Mi guardò invece quel giorno stesso, passandomi vicino nella sala da pranzo, con uno sguardo che ai miei amici parve di gratitudine. Ne avrei proprio fatto a meno, perché poi non mi tribolassero tanto.

Che miracolo, stasera, esser venuta giù così presto? disse piano Filippo, che le aveva probabilmente dedicato i suoi pasticci musicali.

Infatti la signora Fedele era già nel suo angolo e suonavano in quel punto le otto.

Aspetterà il concerto disse la signora Prina.

Ci avevano annunciato per quella sera il concerto di un cieco suonatore di pianoforte.

Un signore che stava in piedi, presso a me, guardando giuocare al biliardo, ci disse che il concertista si era fatto scusare per una indisposizione del suo compagno.

A questo punto qualcuno disse sull'entrata del caffè:

Nevica.

Le signore si alzarono esclamando, i giuocatori di biliardo gittarono le stecche, i giuocatori di tarocco le carte. Perfino il generale Trèzel accordò una tregua alle mie pedine. Tutti si precipitarono in sala e di in loggia. Non accade così facilmente di veder nevicare in agosto.

A me, antico frequentatore di quelle Alpi, ciò era successo più volte. Mi alzai tranquillamente e mi accostai ad una finestra.

Era uno spettacolo fantastico, una magnifica festa notturna che il vento del Nord e la neve offrivano alla luna. Ella sorgeva sopra mille punte di abeti, fra due montagne enormi, nel sereno. Ora la vedevo lucida, ora un turbinare di fumo argenteo la nascondeva nella sua stessa luce. Perché non si poteva propriamente dire che nevicasse. Era neve delle cime, cacciata dalla tormenta. Fra un turbine e l'altro si vedevano tutte le creste bianche fumar su nel cielo azzurro.

La scusi, signor Fogazzaro mi disse in veneziano una voce tremante. Non c'è il concerto stasera?.

Mi voltai, sorpreso.

Scusi la libertà riprese la signora Fedele. So che siamo quasi concittadini.

Ma non mi ero tanto sorpreso del suo improvviso interrogarmi, come della commozione strana, profonda, che sentivo nella sua voce, in una domanda così volgare. E poi il caro dialetto usato così di primo acchito, e quel chiamarmi per nome, mi avevano avvicinato con violenza alla misteriosa signora; con una violenza certo voluta da lei chi sa per qual fine.

S'immagini! le risposi. Non credo che ci sia concerto. Ho udito che il compagno del cieco è malato e che questi si è fatto scusare.

E andrà via, forse? Non suonerà più?

I begli occhi mi parvero ad un tratto più grandi, la voce più tremante.

Non lo so davvero risposi. Credetti poi di dover soggiungere per cortesia: Lei ama molto la musica?.

Ella non rispondeva, guardava fuori nella tempesta nel baglior di luna e di neve. Scorso qualche momento, mi domandò ancora:

Il compagno, ha detto?

Un signore, poco fa, diceva 'il compagno'; ma ora, pensandoci, credo che s'inganni. Credo che sia una compagna, una signorina.

Ella appoggiò la fronte alle invetriate, come per vedere meglio; in fatto per non essere veduta in viso da me; e ricominciò a parlare con voce più sommessa di prima, più rotta dall'emozione.

Sono qui senza amici disse ella senza nessuno, e posso aver tanto bisogno di un'anima buona. Penserà male di me, Lei, adesso? No, sa, non pensi male. So che Lei non mi giudica come gli altri. E poi mi hanno detto che ha famiglia. È per questo!.

Parlava così accorata!

Si calmi, signora risposi. Se posso qualche cosa...

La gente tornava allora correndo, schiamazzando, allegra e intirizzita dallo spettacolo della neve, e il generale mi cercava con gli occhi per finire la partita. Ci dividemmo rapidamente. Subito dopo, il padrone dell'albergo venne a fare pubblicamente le scuse del concertista, signor Zuane, impedito dalla indisposizione di sua figlia, che doveva accompagnarlo anche al piano. Lo stesso signor Brocco ci informò poi delle tristi condizioni di questo povero uomo, che, senza il concerto non saprebbe come pagare lo scotto dell'infimo albergo dove alloggiava. Le signore, impietosite, mi pregarono di andarlo a pigliare. Un valente allievo del Conservatorio di Milano s'offerse di suonare con lui.

Partimmo subito, il giovinotto ed io, pieni di zelo. Il cieco signor Zuane ci accolse con gratitudine dignitosa, con grave cortesia da re in esilio, parlando un italiano floscio che affondava ogni momento nelle mollezze del mio dialetto natio. Era insieme comico e triste udirlo discorrere così solennemente, accompagnando alle parole il gesto ampio e interrompendosi tutto perplesso quando incontrava con la mano il cappello nevicato che il mio compagno gli aveva storditamente posto davanti sul tavolino. Udivamo la signorina Zuane tossire nella camera vicina, aperta, da cui entrava una luce affatto superflua al signor Zuane, affatto insufficiente a noi. La signorina ci pregò, nello stesso morbido linguaggio paterno, di venire a prenderci il lume. La sua voce mi colpì; quando poi vidi lei a letto, credetti proprio vedere i capelli biondi, il delicato viso della signora Fedele.

Le raccomando tanto papà, signore mi disse. Sento che sono così buoni!

Poi alzò il capo dal guanciale e mi accennò di accostarmi a lei.

La scusi, per carità mi sussurrò ansiosa.

Conosce lei qui una signorina veneziana bionda, che mi somiglia?

Sì, la signora Fedele.

Per carità, non la lasci parlare a papà, la supplico a ogni costo! Glielo dica magari a nome mio. A nome della Lisetta, dica. Adesso no, adesso no, per carità!

Non si spiegò più di così. Partendomene con il signor Zuane, cercavo invano, fra me e me, di penetrare il mistero di dolore che avevo sentito prima nelle parole della Fedele, poi in quelle della signorina Lisetta; e mi pesava assai d'essermi lasciato immischiare.

Non vidi bene lo Zuane in viso che all'Hôtel Brocco, davanti alle candele del piano, quand'egli aspettava, in piedi, che aprissero lo strumento, che ne portassero via le montagne di musica e si accomodassero gli sgabelli. Altissimo della persona, si teneva immobile ed eretto come una statua d'imperatore antico, levando sopra noi tutti la faccia più marmorea e tragica ch'io abbia incontrato mai. Era una faccia color di cera, senza un pelo, dal naso, scultorio, dall'austera fronte imperiosa, piena d'anima sopra gli occhi sinistramente chiusi, piena quasi di un arcano sguardo che vi si spandesse sotto, cercando uscita.

Non c'era moltissima gente, perché la società dell'Hôtel Ravizza non aveva osato affrontare il vento e la neve. La signora Fedele era , nel suo cantuccio favorito. Guardava il cieco, ma non accennava di volerlo accostare.

Nei brevi momenti della mia visita allo Zuane e del tragitto all'albergo, lo avevo udito parlar dell'arte sua con la devozione sincera, profonda, di un fanatico. Egli era, tuttavia, assai mediocre artista. Aveva più forza ed esattezza che espressione, e mostrava poi, nella scelta dei pezzi, un gusto molto dubbio. Il pubblico, tocco della sua sventura, applaudì il primo ed il secondo pezzo, applaudì più ancora il terzo, una fantasia a quattro mani in cui l'allievo del Conservatorio si fece troppo onore con scarsa carità del povero cieco.

Ma il programma era soverchiamente lungo. Parecchi uscirono a guardare il tempo, a giuocare nel gabinetto attiguo al caffè. I pochi rimasti chiacchieravano. Durante il quinto o sesto pezzo, non ricordo bene, la signora Fedele si alzò e venne dov'ero io, presso al piano, nel vano della finestra. Guardava molto pallida quelli che uscivano, guardava quelli che conversavano, con occhiate, non dirò di sdegno ma di tristezza amara. Io tremava che, finito il pezzo, ella volesse appiccar discorso con lo Zuane. Avevo ancora negli orecchi gli scongiuri della signorina malata, quel suo affannoso La supplico!. Mi chinai e le dissi:

La signorina Lisetta la scongiura di non parlargli adesso.

Ella trasalì, m'interrogò con uno sguardo attonito e diffidente. Non so niente risposi. Lei ha detto così. Non so altro.

Non parlerò diss'ella sottovoce, rapidamente. Ma ella ha promesso il suo appoggio a me, sa, prima che alla Lisetta!

In quel momento lo Zuane pose fine al suo faticoso pezzo. Egli pregò alcuno dei signori presenti a volersi compiacere di raccogliere le offerte. Io stava per farmi avanti, quando la signora Fedele mi trattenne e mi chiese di avvertire lo Zuane che una signorina gli offriva di chiudere il suo concerto con un pezzo vocale; e che sarebbe bene non uscire col piatto che poi. Io esitava, ma il ragazzo Prina, che stava a mangiarsela cogli occhi, colse a volo le parole di lei, e si affrettò a pubblicare la proposta, cui lo Zuane accolse con l'usata solennità, fiutando l'aria mentre parlava, in qua e in , come per scoprire dove la gentile donne fosse.

La Fedele mi sussurrò all'orecchio:

Lei mi accompagna l'Aria di Chiesa? Gliela ho udita suonare, stasera.

Mi scusai, con ottime ragioni. Ella preferì allora non pregare altri e accompagnarsi da sé. Mentre si toglieva i guanti feci alzare il signor Zuane e lo condussi, di proposito, a sedere alquanto discosto dal piano.

Intanto la gente, avvertita come per incanto, rifluiva nel caffè a udir la bella veneziana. Lo Zuane si trovò subito in mezzo a un gruppo di persone.

La signora si pose al piano. Io ero in piedi vicino a lei; potevo vedere il leggero tremito delle sue mani, l'inquietudine delle sue labbra. Mi chinai per dirle all'orecchio che avrei potuto pregare l'allievo del Conservatorio di accompagnarla. Scosse il capo nervosamente e incominciò subito, con mano sicura, il preludio. Prima di finirlo, mi diede un'occhiata come per dirmi: Le pare?; come per mostrarmi il suo viso pallido, ma risoluto.

Vorrei saper esprimere la timida dolcezza accorata del suo canto quando incominciò sottovoce:

 

Pietà, Signore,

Di me dolente.

 

Guardai involontariamente i Prina e i Trèzel, dei cui bisbigli, dei cui sorrisi ironici m'ero bene accorto. Non sorridevano più. Gli occhi miei, tornando lentamente al piano, incontrarono a caso il volto del cieco, mentre la dolce voce saliva con un fremito di passione alle parole:

 

Se a te giunge il mio pregar

Non mi punisca il tuo rigor.

 

Lo Zuane porgeva il viso accigliato verso la musica, ascoltando a bocca semiaperta. A un tratto lo vidi piegarsi a destra, sussurrar qualche cosa a un vicino che gli rispose guardando la Fedele, come se gli parlasse di lei. Ella cantava allora con uno straziante spasimo nella voce:

 

Ah non fia mai che nell'inferno

Io sia dannata al fuoco eterno.

 

Lo Zuane si alzò in piedi con una faccia terribile, agitò le braccia verso la parte opposta al pianoforte, quasi per farsi strada fra la gente. Tutto il pubblico si voltò a lui, zitti così imperiosamente, ch'egli si fermò sull'atto, si ripose a sedere. La signora Fedele s'imbarazzò nell'accompagnamento, smarrì l'intonazione, si coperse il viso con le mani.

Coraggio! le dissi sotto voce. Avanti!

Non posso, non posso rispose senza scoprirsi. Sto male, faccia le mie scuse.

Dissi forte che la signora si sentiva male e non poteva proseguire. Vi ebbe un momento di agitazione perché i vicini dello Zuane e anche altri sospettavano una occulta relazione fra l'atto del cieco e il turbarsi di lei; ma poi uno, due, quattro batterono le mani, scoppiò l'applauso da tutta la sala. Parecchie signore si accostarono alla Fedele, offrirono il loro aiuto, insistettero perché prendesse qualche cordiale, perché si ritrasse. Rifiutò l'una e l'altra cosa ringraziando umilmente; ma più quasi con gli occhi e il piegar del capo che con la voce. La voce pareva rotta, spenta. Si alzò dal piano, sedette nel vano della finestra.

Volli starle vicino e pregai il Prina di raccogliere le offerte. Le monete piovevano nel piatto. Lo Zuane volgeva il capo a destra e a sinistra dietro al tintinnio dell'argento. Pareva impaziente di fare o dire qualche cosa.

La signora Fedele seguiva cogli occhi intenti ogni suo moto. Il Prina le si accostò esitante dubitando se dovesse rivolgersi anche a lei o no. Ella gli accennò col capo di venire e, trattosi un anello, lo posò sul piatto.

Io ringrazio questi gentili signori disse lo Zuane quando gli furono recate le offerte io ringrazio questi gentili signori e prego che il denaro sia dato per i colerosi di Marsiglia.

Le ultime parole furono proferite da lui con una subita energia di voce, con un aggrottar fiero di ciglia, con un gran gesto d'ambo le braccia.

La Fedele non diè segno né di sorpresa né di collera. Guardava sempre lui, sempre quella faccia marmorea, quegli occhi spenti.

Le hanno dato anche un anello, signor Zuane disse il Prina.

Il cieco stese un braccio, brancicò le monete del piatto, prese l'anello, lo palpeggiò con le dieci dita, alzando la fronte.

Non accetto quest'anello diss'egli. La persona che lo ha dato lo riprenderà. Suppongo soggiunse con voce quasi iraconda ch'è ancora presente.

Nessuno fiatò. Lo Zuane ripeté la domanda. Allora la Fedele accennò al Prina che rispondesse di no, come infatti rispose immediatamente.

Pregherò i signori che m'hanno accompagnato, di restituire l'anello domattina disse il cieco. Intanto è mio dovere esprimere la mia gratitudine a questi signori.

Si fece condurre al piano e cominciò a tempestarvi su il suo pezzo di ringraziamento, mettendo in fuga la gente, che andò a passeggiare e a commentare l'accaduto nella sala vicina. La signora Fedele, l'allievo del Conservatorio, il giovinetto Prina e io eravamo soli presso al piano.

Sento che la sala è vuota disse lo Zuane cessando dal suonare. V'è qualcuno presso di me?..

Sì, sì risposi.

Ah, quel signore veneto diss'egli. Io sono stato poco gentile, stasera, e devo almeno a lei qualche spiegazione.

Stavo proprio sulle brage e protestai di non volere spiegazioni; ma quegli insistette e la signora mi scongiurò, in silenzio, a mani giunte, con un viso disperato, di lasciarlo parlare. Guardai involontariamente gli altri che intesero e piano piano, molto a malincuore, se ne andarono.

Non potevo prendere del denaro guadagnato da lei, capisce disse lo Zuane: È mia nipote, l'ho allevata io, l'ho educata io. Una cosa orribile! Mi ha tradito.

Soffrivo inesprimibilmente, mi pareva d'essere un traditore io stesso, a permettere che egli parlasse così davanti a lei; ma ella lo voleva. Aveva voltato il viso alle finestre, adesso. Chi ci spiava dall'altra sala poteva credere che guardasse la luna e la tormenta. Dio, perché si ostinava a star ? Le toccai leggermente una spalla. Ella m'indovinò, negò del capo con la stessa muta energia di poc'anzi.

Lo Zuane tacque un poco, aspettandosi forse qualche domanda. Poi riprese:

Quell'anello mi era caro, una volta; adesso no, adesso no!

Io lo interruppi, gli offersi di accompagnarlo a casa, dove la signorina Lisetta stava forse in angustia. Potrebbe parlarmi per via se volesse.

Sì, sì rispose senza muoversi ma del resto è presto detto. Tutte le miserie che si possono soffrire in terra, io le ho sofferte dodici anni perché questa creatura diventasse artista. Ella lo aveva promesso fin da bambina, prima a Dio poi alla Madonna - ogni artista è credente, signore! - E lo diventava. Grande artista! Io morivo di fame e di consolazione, signore. Ebbene, viene un giovane, un ricco, uno che non sa cosa sia l'arte, uno che dice: ti sposo, ma niente scena, ma niente grandezza, ma niente gloria. E allora si dimentica Dio, si dimentica la Madonna, si dimentica tutto, signor mio, si spezza il cuore a questo vecchio. Non basta.

Insomma, signor Zuane esclamai, non potendo più reggere è tardi, andiamo.

Non basta proseguì egli alzandosi. Il marito muore, perché lassù, capisce, vi è una giustizia.

La povera signora, sopraffatta, giunse le mani.

Dio, questo no! diss'ella.

Non potrei raccontar bene ciò che seguì in quel punto. Forse nessuno lo potrebbe. So che lo Zuane gridò, che accorse gente, che vi fu un tafferuglio, che il cieco fu condotto via, che la Fedele mi scongiurò di accompagnarla fuori subito, all'aria, alla solitudine.

La tormenta non soffiava più, ma il freddo era pungente. La guglia del Piz Vogel fumava ancora di neve. Ci avviammo in silenzio dall'altra parte, verso la luna e l'orizzonte basso, largo, tutto dentellato, fra due grandi montagne argentee, di punte nere di abeti. Di dalla villetta dell'ingegnere C. faceva meno freddo; la mia compagna rallentò il passo.

Mi perdoni diss'ella se le reco tanto disturbo. È la prima e l'ultima volta, sa. Non mi vedrà più, mai più. Domani spero che avrà la carità di fare ancora qualche piccola cosa per me e poi non udrà neppure più il mio nome. Mai più. Fedele è il mio nome di battesimo. Non posso esser altro che fedele.

Su queste ultime parole la sua voce si abbassò, quasi si spense, come se avessero qualche tristo senso nascosto. Le vidi brillare gli occhi di lagrime. 'Non mi vedrà più, non udrà più il mio nome'. Perché diceva così? Cosa voleva fare? Mi si stringeva il cuore. Doveva soffrir tanto, pover'anima delicata, e mi si rivelava così pura! Con quel viso, con quella voce, con quel tenero nome insolito, mi pareva una delle creature che si amano in sogno.

Mi ha posto nome lui, Fedele diss'ella.

Ha ben capito, non è vero, ch'è mio padre? Poveretto, non lo ha voluto dire. La vergogna gli pareva troppo grande. Non dico mica di non avere colpa, sa. È vero che avevo promesso a Dio e alla Madonna. Povero papà, forse aveva fatto troppo conto sulle promesse d'una bambina: forse il Signore non ne ha fatto tanto. Ma non voglio mica giudicarlo, povero papà. È la disgrazia nostra, di tutti, che abbia un sentimento così. Io non ho nessuna amarezza con lui. Solo non ho potuto...

Non seppe reggere al ricordo delle parole dure che più l'avevano offesa. Le mancò la voce.

È stata troppo amara soggiunse dopo un istante sospirando. Troppo amara, perché lui, caro, gli voleva bene, malgrado tutto al mio papà e quel che ho fatto per tornare con il mio papà, me lo ha insegnato lui dal paradiso. Solo non voleva che andassi sul teatro. Il papà credeva che dopo la disgrazia lo avrei accontentato, ma non è mica possibile; bisogna bene che lo ubbidisca più di prima, mio marito caro. Oramai poi ho perso tutte le speranze che il papà faccia pace. Neanche l'anello della povera mamma è giovato a niente. Me l'aspettavo, sa, ma volevo pur tentare una ultima volta. E adesso vorrei pregarla di parlare domani alla Lisetta.

Le dissi che disponesse pure di me per qualunque cosa.

La ringrazi tanto, prima di tutto, la Lisetta disse ella. Ha fatto quello che poteva, poverina, per aiutarmi. Le dica che non le scrivo perché proprio non posso, e non so neanche se le scriverò più; ma che tutta la roba mia è sua e che le carte e i denari sono a Milano in mano dell'avvocato Benvenuti, via S. Andrea, n. 23. Vuol prender nota?

Notai nel mio portafogli, al chiaro di luna, il nome e l'indirizzo. Il cuore mi batteva forte, sentivo di scrivere qualche cosa di sinistro, la fine, quasi, di una esistenza, la fine di quella dolce, bella creatura, tanto giovane, tanto amante, tanto mite con il fanatico furioso che l'uccideva.

Ecco dissi, riponendo il portafogli.

Eravamo giunti a quella fornace dove si spicca dalla via maestra il sentiero del laghetto.

Vorrei andare al lago disse ella tranquillamente come se tutto fosse oramai finito in pace; e mi nominò un mio libretto, dove si tocca di questo lago alpino. L'idea di andare al lago a quell'ora dopo quei discorsi mi colpì tanto che me le opposi con troppo manifesto orrore. Fedele sorrise un poco. Torniamo pure diss'ella; e fatti pochi passi in silenzio, si pose a cantar sottovoce:

 

Ah non fia mai che nell'inferno

Io sia dannata al fuoco eterno

 

Ne fui rassicurato. Solo mi doleva di averle potuto attribuire per un momento quella idea orribile e di essermi tradito. Volevo ora domandarle che intendesse fare, e non osavo. Ella non parlava più. Passata la villetta C., mi disse che voleva farmi sapere il suo nome, che suo marito si chiamava Vida, e ch'ella aveva tenuto nascosto questo nome, acciocché suo padre, venendo per caso ad udirlo, non fuggisse addirittura da S. Bernardino.

Giungemmo al villaggio deserto, tutto bianco di luna. Nel porre il piede sugli scalini dell'Hôtel Brocco, mi feci coraggio ed incominciai:

Lei parte?

Domattina.

E posso sapere?...

Fedele esitò.

Glielo dirò rispose a bassa voce non lo ripeta a mia sorella. Me lo prometta! Vado a Marsiglia.

La guardai, le stesi la mano senza poter parlare. Ella mi diede la sua.

So che ci muoio soggiunse ma in ogni caso andrei suora.

Ci parve udir parlare nell'albergo.

Domani disse ella in fretta non venga mica a salutarmi quando parto. I suoi amici sono troppo cattivi, mi criticherebbero, già, per la mia familiarità di stasera. Non racconti mica niente, sa. 'El ghe diga ch'el xe el nostro far, de nualtre veneziane'.

Le strinsi la mano forte forte, con ambo le mie. Fu il nostro muto addio.

Dunque mi disse l'indomani mattina, alla fonte, la signorina Prina, tutta sfavillante di ironia glielo avranno ben trovato quel verso iersera?

Che verso? diss'io.

Caro! esclamò la signorina; e si mise a declamare con un'enfasi sarcastica:

 

Mi me se inchiava i denti

Quando te voi parlar

E digo: i xe accidenti...

 

Me l'avevano trovato, il verso, sì. 'E digo: el xe el mio far'. Ma io lo tacqui, sdegnai concedere ai motteggi di quell'altera signorina che mi era del tutto indifferente, le ultime parole di Fedele.

 


 




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