FEDELE.
Soffio, signor Fogazzaro disse, quella
sera indimenticabile del 1° agosto 1884, il generale Trèzel pigliandomi una
delle mie povere pedine. Stia attento!
Alle dame gli rispose per me la
signorina Prina toccandomi il braccio con la penna. Avanti! Detti! 'Mi co te
vedo, sento Un certo non so che'; e poi?
Scusi generale dissi io, dopo
aver mossa una pedina a caso. 'È digo che nol sento, E digo che nol ghè'.
Fa piacere, Filippo! disse la
signorina a suo fratello che cercava inutilmente sul piano il motivo dell'Aria
di Chiesa di Stradella.
Continuai a dettare la vecchia
canzonetta che piaceva tanto alla società milanese, molto intelligente, molto
distinta, dell'Hôtel Brocco:
Mi me se inchiava i denti
Quando te voi parlar;
E digo: i xe acidenti...
Qui mi mancò la memoria. La
signorina Prilla, le altre amabili signore e un paio di giovanotti molto
disposti a usare della graziosa strofetta per i loro fini particolari, se ne
desolavano. Il verso non venne e io potei solo ripetere alla damigella con il
più sentimentale accento che seppi:
Mi me se inchiava i denti
Quando te voi parlar.
'I xe acidenti' osservò
sorridendo donna Luisa Trèzel con la sua solita finezza benevola e ironica
insieme. Chi sa soggiunse sotto voce che il signor Fogazzaro possa avere il
versetto dalla sua Fedele.
Tutti risero e io mi seccai. Mi
rimisi a giuocare con attenzione; poi, siccome Filippo non veniva a capo di
nulla, mi alzai, gli accennai con la mano destra le prime battute dell'Aria
di Chiesa.
Mangio, signor Fogazzaro disse il
generale che non aveva mai tolto gli occhi dallo scacchiere, se non per
guardare di traverso, qualche volta, pianoforte e suonatore. La sua signora mi
domandò se fossi in collera con lei. Non ero in collera, ma mi seccavano le
allusioni a quella persona che donna Luisa chiamava 'la Sua Fedele'. Era una
giovane signora arrivata da tre giorni a S. Bernardino, sola. Nessuno la
conosceva. Salutava molto gentilmente ma non parlava mai con nessuno. La gente
dell'albergo asseriva ch'era veneziana. Sul cartoncino che là usano allacciare
intorno alle salviette, perché i forestieri vi scrivano il proprio nome, ella
aveva scritto con una calligrafia punto inglese, punto elegante:
Signora Fedele.
Era bionda: non alta ma snella;
bellina assai ma più delicata e graziosa che bella. Lo confesso, non saprei
dire con certezza il colore de' suoi occhi; avevano forse il colore mutabile
del mare presso il quale era nata. Portava sempre lo stesso costume grigio, la
stessa toque di pelliccia nera, gli stessi guanti neri. Usciva tardi per
qualche passeggiata solitaria; alla fonte non si vedeva mai. La sera scendeva
al caffè verso le nove. Se si faceva musica, restava lungamente nel suo angolo
scuro, lontano dal pianoforte; altrimenti prendeva il caffè e spariva.
Si facevano commenti infiniti
sulla sua origine, sul contegno misterioso, sul nome 'Fedele', che serviva
persino al generale Trèzel per illudersi di avere spirito. Mi accadde una
volta, nel solito crocchio della loggia, di prendere le sue difese contro le
signore, che mi parevano troppo maligne. Ella passò in quel momento improvvisamente,
salendo dalla via. Era molto accesa in viso, ma non guardò alla nostra volta.
Mi guardò invece quel giorno stesso, passandomi vicino nella sala da pranzo,
con uno sguardo che ai miei amici parve di gratitudine. Ne avrei proprio fatto
a meno, perché poi non mi tribolassero tanto.
Che miracolo, stasera, esser
venuta giù così presto? disse piano Filippo, che le aveva probabilmente
dedicato i suoi pasticci musicali.
Infatti la signora Fedele era già
nel suo angolo e suonavano in quel punto le otto.
Aspetterà il concerto disse la
signora Prina.
Ci avevano annunciato per quella
sera il concerto di un cieco suonatore di pianoforte.
Un signore che stava in piedi,
presso a me, guardando giuocare al biliardo, ci disse che il concertista si era
fatto scusare per una indisposizione del suo compagno.
A questo punto qualcuno disse
sull'entrata del caffè:
Nevica.
Le signore si alzarono
esclamando, i giuocatori di biliardo gittarono le stecche, i giuocatori di tarocco
le carte. Perfino il generale Trèzel accordò una tregua alle mie pedine. Tutti
si precipitarono in sala e di là in loggia. Non accade così facilmente di veder
nevicare in agosto.
A me, antico frequentatore di
quelle Alpi, ciò era successo più volte. Mi alzai tranquillamente e mi accostai
ad una finestra.
Era uno spettacolo fantastico,
una magnifica festa notturna che il vento del Nord e la neve offrivano alla
luna. Ella sorgeva sopra mille punte di abeti, fra due montagne enormi, nel
sereno. Ora la vedevo lucida, ora un turbinare di fumo argenteo la nascondeva
nella sua stessa luce. Perché non si poteva propriamente dire che nevicasse.
Era neve delle cime, cacciata dalla tormenta. Fra un turbine e l'altro si
vedevano tutte le creste bianche fumar su nel cielo azzurro.
La scusi, signor Fogazzaro mi
disse in veneziano una voce tremante. Non c'è il concerto stasera?.
Mi voltai, sorpreso.
Scusi la libertà riprese la
signora Fedele. So che siamo quasi concittadini.
Ma non mi ero tanto sorpreso del
suo improvviso interrogarmi, come della commozione strana, profonda, che
sentivo nella sua voce, in una domanda così volgare. E poi il caro dialetto
usato così di primo acchito, e quel chiamarmi per nome, mi avevano avvicinato
con violenza alla misteriosa signora; con una violenza certo voluta da lei chi
sa per qual fine.
S'immagini! le risposi. Non credo
che ci sia concerto. Ho udito che il compagno del cieco è malato e che questi
si è fatto scusare.
E andrà via, forse? Non suonerà
più?
I begli occhi mi parvero ad un
tratto più grandi, la voce più tremante.
Non lo so davvero risposi.
Credetti poi di dover soggiungere per cortesia: Lei ama molto la musica?.
Ella non rispondeva, guardava
fuori nella tempesta nel baglior di luna e di neve. Scorso qualche momento, mi
domandò ancora:
Il compagno, ha detto?
Un signore, poco fa, diceva 'il
compagno'; ma ora, pensandoci, credo che s'inganni. Credo che sia una compagna,
una signorina.
Ella appoggiò la fronte alle
invetriate, come per vedere meglio; in fatto per non essere veduta in viso da
me; e ricominciò a parlare con voce più sommessa di prima, più rotta
dall'emozione.
Sono qui senza amici disse ella
senza nessuno, e posso aver tanto bisogno di un'anima buona. Penserà male di
me, Lei, adesso? No, sa, non pensi male. So che Lei non mi giudica come gli
altri. E poi mi hanno detto che ha famiglia. È per questo!.
Parlava così accorata!
Si calmi, signora risposi. Se
posso qualche cosa...
La gente tornava allora correndo,
schiamazzando, allegra e intirizzita dallo spettacolo della neve, e il generale
mi cercava con gli occhi per finire la partita. Ci dividemmo rapidamente.
Subito dopo, il padrone dell'albergo venne a fare pubblicamente le scuse del
concertista, signor Zuane, impedito dalla indisposizione di sua figlia, che
doveva accompagnarlo anche al piano. Lo stesso signor Brocco ci informò poi
delle tristi condizioni di questo povero uomo, che, senza il concerto non saprebbe
come pagare lo scotto dell'infimo albergo dove alloggiava. Le signore,
impietosite, mi pregarono di andarlo a pigliare. Un valente allievo del
Conservatorio di Milano s'offerse di suonare con lui.
Partimmo subito, il giovinotto ed
io, pieni di zelo. Il cieco signor Zuane ci accolse con gratitudine dignitosa,
con grave cortesia da re in esilio, parlando un italiano floscio che affondava
ogni momento nelle mollezze del mio dialetto natio. Era insieme comico e triste
udirlo discorrere così solennemente, accompagnando alle parole il gesto ampio e
interrompendosi tutto perplesso quando incontrava con la mano il cappello
nevicato che il mio compagno gli aveva storditamente posto davanti sul
tavolino. Udivamo la signorina Zuane tossire nella camera vicina, aperta, da
cui entrava una luce affatto superflua al signor Zuane, affatto insufficiente a
noi. La signorina ci pregò, nello stesso morbido linguaggio paterno, di venire
a prenderci il lume. La sua voce mi colpì; quando poi vidi lei a letto,
credetti proprio vedere i capelli biondi, il delicato viso della signora
Fedele.
Le raccomando tanto papà, signore
mi disse. Sento che sono così buoni!
Poi alzò il capo dal guanciale e
mi accennò di accostarmi a lei.
La scusi, per carità mi sussurrò
ansiosa.
Conosce lei qui una signorina
veneziana bionda, che mi somiglia?
Sì, la signora Fedele.
Per carità, non la lasci parlare a
papà, la supplico a ogni costo! Glielo dica magari a nome mio. A nome della
Lisetta, dica. Adesso no, adesso no, per carità!
Non si spiegò più di così.
Partendomene con il signor Zuane, cercavo invano, fra me e me, di penetrare il
mistero di dolore che avevo sentito prima nelle parole della Fedele, poi in
quelle della signorina Lisetta; e mi pesava assai d'essermi lasciato
immischiare.
Non vidi bene lo Zuane in viso
che all'Hôtel Brocco, davanti alle candele del piano, quand'egli aspettava, in
piedi, che aprissero lo strumento, che ne portassero via le montagne di musica
e si accomodassero gli sgabelli. Altissimo della persona, si teneva immobile ed
eretto come una statua d'imperatore antico, levando sopra noi tutti la faccia
più marmorea e tragica ch'io abbia incontrato mai. Era una faccia color di
cera, senza un pelo, dal naso, scultorio, dall'austera fronte imperiosa, piena
d'anima sopra gli occhi sinistramente chiusi, piena quasi di un arcano sguardo
che vi si spandesse sotto, cercando uscita.
Non c'era moltissima gente,
perché la società dell'Hôtel Ravizza non aveva osato affrontare il vento e la
neve. La signora Fedele era là, nel suo cantuccio favorito. Guardava il cieco,
ma non accennava di volerlo accostare.
Nei brevi momenti della mia
visita allo Zuane e del tragitto all'albergo, lo avevo udito parlar dell'arte
sua con la devozione sincera, profonda, di un fanatico. Egli era, tuttavia,
assai mediocre artista. Aveva più forza ed esattezza che espressione, e
mostrava poi, nella scelta dei pezzi, un gusto molto dubbio. Il pubblico, tocco
della sua sventura, applaudì il primo ed il secondo pezzo, applaudì più ancora
il terzo, una fantasia a quattro mani in cui l'allievo del Conservatorio si
fece troppo onore con scarsa carità del povero cieco.
Ma il programma era
soverchiamente lungo. Parecchi uscirono a guardare il tempo, a giuocare nel
gabinetto attiguo al caffè. I pochi rimasti chiacchieravano. Durante il quinto
o sesto pezzo, non ricordo bene, la signora Fedele si alzò e venne dov'ero io,
presso al piano, nel vano della finestra. Guardava molto pallida quelli che
uscivano, guardava quelli che conversavano, con occhiate, non dirò di sdegno ma
di tristezza amara. Io tremava che, finito il pezzo, ella volesse appiccar
discorso con lo Zuane. Avevo ancora negli orecchi gli scongiuri della signorina
malata, quel suo affannoso La supplico!. Mi chinai e le dissi:
La signorina Lisetta la scongiura
di non parlargli adesso.
Ella trasalì, m'interrogò con uno
sguardo attonito e diffidente. Non so niente risposi. Lei ha detto così. Non so
altro.
Non parlerò diss'ella sottovoce,
rapidamente. Ma ella ha promesso il suo appoggio a me, sa, prima che alla
Lisetta!
In quel momento lo Zuane pose
fine al suo faticoso pezzo. Egli pregò alcuno dei signori presenti a volersi
compiacere di raccogliere le offerte. Io stava per farmi avanti, quando la
signora Fedele mi trattenne e mi chiese di avvertire lo Zuane che una signorina
gli offriva di chiudere il suo concerto con un pezzo vocale; e che sarebbe bene
non uscire col piatto che poi. Io esitava, ma il ragazzo Prina, che stava lì a
mangiarsela cogli occhi, colse a volo le parole di lei, e si affrettò a
pubblicare la proposta, cui lo Zuane accolse con l'usata solennità, fiutando
l'aria mentre parlava, in qua e in là, come per scoprire dove la gentile donne
fosse.
La Fedele mi sussurrò
all'orecchio:
Lei mi accompagna l'Aria di
Chiesa? Gliela ho udita suonare, stasera.
Mi scusai, con ottime ragioni.
Ella preferì allora non pregare altri e accompagnarsi da sé. Mentre si toglieva
i guanti feci alzare il signor Zuane e lo condussi, di proposito, a sedere
alquanto discosto dal piano.
Intanto la gente, avvertita come
per incanto, rifluiva nel caffè a udir la bella veneziana. Lo Zuane si trovò
subito in mezzo a un gruppo di persone.
La signora si pose al piano. Io
ero in piedi vicino a lei; potevo vedere il leggero tremito delle sue mani,
l'inquietudine delle sue labbra. Mi chinai per dirle all'orecchio che avrei
potuto pregare l'allievo del Conservatorio di accompagnarla. Scosse il capo nervosamente
e incominciò subito, con mano sicura, il preludio. Prima di finirlo, mi diede
un'occhiata come per dirmi: Le pare?; come per mostrarmi il suo viso pallido,
ma risoluto.
Vorrei saper esprimere la timida
dolcezza accorata del suo canto quando incominciò sottovoce:
Pietà, Signore,
Di me dolente.
Guardai involontariamente i Prina
e i Trèzel, dei cui bisbigli, dei cui sorrisi ironici m'ero bene accorto. Non
sorridevano più. Gli occhi miei, tornando lentamente al piano, incontrarono a
caso il volto del cieco, mentre la dolce voce saliva con un fremito di passione
alle parole:
Se a te giunge il mio pregar
Non mi punisca il tuo rigor.
Lo Zuane porgeva il viso
accigliato verso la musica, ascoltando a bocca semiaperta. A un tratto lo vidi
piegarsi a destra, sussurrar qualche cosa a un vicino che gli rispose guardando
la Fedele, come se gli parlasse di lei. Ella cantava allora con uno straziante
spasimo nella voce:
Ah non fia mai che nell'inferno
Io sia dannata al fuoco eterno.
Lo Zuane si alzò in piedi con una
faccia terribile, agitò le braccia verso la parte opposta al pianoforte, quasi
per farsi strada fra la gente. Tutto il pubblico si voltò a lui, zitti così
imperiosamente, ch'egli si fermò sull'atto, si ripose a sedere. La signora
Fedele s'imbarazzò nell'accompagnamento, smarrì l'intonazione, si coperse il viso
con le mani.
Coraggio! le dissi sotto voce.
Avanti!
Non posso, non posso rispose
senza scoprirsi. Sto male, faccia le mie scuse.
Dissi forte che la signora si
sentiva male e non poteva proseguire. Vi ebbe un momento di agitazione perché i
vicini dello Zuane e anche altri sospettavano una occulta relazione fra l'atto
del cieco e il turbarsi di lei; ma poi uno, due, quattro batterono le mani,
scoppiò l'applauso da tutta la sala. Parecchie signore si accostarono alla
Fedele, offrirono il loro aiuto, insistettero perché prendesse qualche
cordiale, perché si ritrasse. Rifiutò l'una e l'altra cosa ringraziando
umilmente; ma più quasi con gli occhi e il piegar del capo che con la voce. La
voce pareva rotta, spenta. Si alzò dal piano, sedette nel vano della finestra.
Volli starle vicino e pregai il
Prina di raccogliere le offerte. Le monete piovevano nel piatto. Lo Zuane
volgeva il capo a destra e a sinistra dietro al tintinnio dell'argento. Pareva
impaziente di fare o dire qualche cosa.
La signora Fedele seguiva cogli
occhi intenti ogni suo moto. Il Prina le si accostò esitante dubitando se
dovesse rivolgersi anche a lei o no. Ella gli accennò col capo di venire e,
trattosi un anello, lo posò sul piatto.
Io ringrazio questi gentili
signori disse lo Zuane quando gli furono recate le offerte io ringrazio questi
gentili signori e prego che il denaro sia dato per i colerosi di Marsiglia.
Le ultime parole furono proferite
da lui con una subita energia di voce, con un aggrottar fiero di ciglia, con un
gran gesto d'ambo le braccia.
La Fedele non diè segno né di
sorpresa né di collera. Guardava sempre lui, sempre quella faccia marmorea,
quegli occhi spenti.
Le hanno dato anche un anello, signor
Zuane disse il Prina.
Il cieco stese un braccio,
brancicò le monete del piatto, prese l'anello, lo palpeggiò con le dieci dita,
alzando la fronte.
Non accetto quest'anello
diss'egli. La persona che lo ha dato lo riprenderà. Suppongo soggiunse con voce
quasi iraconda ch'è ancora presente.
Nessuno fiatò. Lo Zuane ripeté la
domanda. Allora la Fedele accennò al Prina che rispondesse di no, come infatti
rispose immediatamente.
Pregherò i signori che m'hanno
accompagnato, di restituire l'anello domattina disse il cieco. Intanto è mio
dovere esprimere la mia gratitudine a questi signori.
Si fece condurre al piano e
cominciò a tempestarvi su il suo pezzo di ringraziamento, mettendo in fuga la
gente, che andò a passeggiare e a commentare l'accaduto nella sala vicina. La
signora Fedele, l'allievo del Conservatorio, il giovinetto Prina e io eravamo
soli presso al piano.
Sento che la sala è vuota disse
lo Zuane cessando dal suonare. V'è qualcuno presso di me?..
Sì, sì risposi.
Ah, quel signore veneto
diss'egli. Io sono stato poco gentile, stasera, e devo almeno a lei qualche
spiegazione.
Stavo proprio sulle brage e
protestai di non volere spiegazioni; ma quegli insistette e la signora mi
scongiurò, in silenzio, a mani giunte, con un viso disperato, di lasciarlo parlare.
Guardai involontariamente gli altri che intesero e piano piano, molto a
malincuore, se ne andarono.
Non potevo prendere del denaro
guadagnato da lei, capisce disse lo Zuane: È mia nipote, l'ho allevata io, l'ho
educata io. Una cosa orribile! Mi ha tradito.
Soffrivo inesprimibilmente, mi
pareva d'essere un traditore io stesso, a permettere che egli parlasse così
davanti a lei; ma ella lo voleva. Aveva voltato il viso alle finestre, adesso.
Chi ci spiava dall'altra sala poteva credere che guardasse la luna e la
tormenta. Dio, perché si ostinava a star lì? Le toccai leggermente una spalla.
Ella m'indovinò, negò del capo con la stessa muta energia di poc'anzi.
Lo Zuane tacque un poco,
aspettandosi forse qualche domanda. Poi riprese:
Quell'anello mi era caro, una
volta; adesso no, adesso no!
Io lo interruppi, gli offersi di
accompagnarlo a casa, dove la signorina Lisetta stava forse in angustia.
Potrebbe parlarmi per via se volesse.
Sì, sì rispose senza muoversi ma
del resto è presto detto. Tutte le miserie che si possono soffrire in terra, io
le ho sofferte dodici anni perché questa creatura diventasse artista. Ella lo
aveva promesso fin da bambina, prima a Dio poi alla Madonna - ogni artista è
credente, signore! - E lo diventava. Grande artista! Io morivo di fame e di
consolazione, signore. Ebbene, viene un giovane, un ricco, uno che non sa cosa
sia l'arte, uno che dice: ti sposo, ma niente scena, ma niente grandezza, ma
niente gloria. E allora si dimentica Dio, si dimentica la Madonna, si dimentica
tutto, signor mio, si spezza il cuore a questo vecchio. Non basta.
Insomma, signor Zuane esclamai,
non potendo più reggere è tardi, andiamo.
Non basta proseguì egli
alzandosi. Il marito muore, perché lassù, capisce, vi è una giustizia.
La povera signora, sopraffatta,
giunse le mani.
Dio, questo no! diss'ella.
Non potrei raccontar bene ciò che
seguì in quel punto. Forse nessuno lo potrebbe. So che lo Zuane gridò, che
accorse gente, che vi fu un tafferuglio, che il cieco fu condotto via, che la
Fedele mi scongiurò di accompagnarla fuori subito, all'aria, alla solitudine.
La tormenta non soffiava più, ma
il freddo era pungente. La guglia del Piz Vogel fumava ancora di neve. Ci
avviammo in silenzio dall'altra parte, verso la luna e l'orizzonte basso,
largo, tutto dentellato, fra due grandi montagne argentee, di punte nere di
abeti. Di là dalla villetta dell'ingegnere C. faceva meno freddo; la mia compagna
rallentò il passo.
Mi perdoni diss'ella se le reco
tanto disturbo. È la prima e l'ultima volta, sa. Non mi vedrà più, mai più.
Domani spero che avrà la carità di fare ancora qualche piccola cosa per me e
poi non udrà neppure più il mio nome. Mai più. Fedele è il mio nome di
battesimo. Non posso esser altro che fedele.
Su queste ultime parole la sua
voce si abbassò, quasi si spense, come se avessero qualche tristo senso
nascosto. Le vidi brillare gli occhi di lagrime. 'Non mi vedrà più, non udrà
più il mio nome'. Perché diceva così? Cosa voleva fare? Mi si stringeva il
cuore. Doveva soffrir tanto, pover'anima delicata, e mi si rivelava così pura!
Con quel viso, con quella voce, con quel tenero nome insolito, mi pareva una
delle creature che si amano in sogno.
Mi ha posto nome lui, Fedele
diss'ella.
Ha ben capito, non è vero, ch'è
mio padre? Poveretto, non lo ha voluto dire. La vergogna gli pareva troppo
grande. Non dico mica di non avere colpa, sa. È vero che avevo promesso a Dio e
alla Madonna. Povero papà, forse aveva fatto troppo conto sulle promesse d'una
bambina: forse il Signore non ne ha fatto tanto. Ma non voglio mica giudicarlo,
povero papà. È la disgrazia nostra, di tutti, che abbia un sentimento così. Io
non ho nessuna amarezza con lui. Solo non ho potuto...
Non seppe reggere al ricordo
delle parole dure che più l'avevano offesa. Le mancò la voce.
È stata troppo amara soggiunse
dopo un istante sospirando. Troppo amara, perché lui, caro, gli voleva bene,
malgrado tutto al mio papà e quel che ho fatto per tornare con il mio papà, me
lo ha insegnato lui dal paradiso. Solo non voleva che andassi sul teatro. Il
papà credeva che dopo la disgrazia lo avrei accontentato, ma non è mica
possibile; bisogna bene che lo ubbidisca più di prima, mio marito caro. Oramai
poi ho perso tutte le speranze che il papà faccia pace. Neanche l'anello della
povera mamma è giovato a niente. Me l'aspettavo, sa, ma volevo pur tentare una
ultima volta. E adesso vorrei pregarla di parlare domani alla Lisetta.
Le dissi che disponesse pure di
me per qualunque cosa.
La ringrazi tanto, prima di
tutto, la Lisetta disse ella. Ha fatto quello che poteva, poverina, per
aiutarmi. Le dica che non le scrivo perché proprio non posso, e non so neanche
se le scriverò più; ma che tutta la roba mia è sua e che le carte e i denari
sono a Milano in mano dell'avvocato Benvenuti, via S. Andrea, n. 23. Vuol
prender nota?
Notai nel mio portafogli, al
chiaro di luna, il nome e l'indirizzo. Il cuore mi batteva forte, sentivo di
scrivere qualche cosa di sinistro, la fine, quasi, di una esistenza, la fine di
quella dolce, bella creatura, tanto giovane, tanto amante, tanto mite con il
fanatico furioso che l'uccideva.
Ecco dissi, riponendo il
portafogli.
Eravamo giunti a quella fornace
dove si spicca dalla via maestra il sentiero del laghetto.
Vorrei andare al lago disse ella
tranquillamente come se tutto fosse oramai finito in pace; e mi nominò un mio
libretto, dove si tocca di questo lago alpino. L'idea di andare al lago a
quell'ora dopo quei discorsi mi colpì tanto che me le opposi con troppo
manifesto orrore. Fedele sorrise un poco. Torniamo pure diss'ella; e fatti
pochi passi in silenzio, si pose a cantar sottovoce:
Ah non fia mai che nell'inferno
Io sia dannata al fuoco eterno
Ne fui rassicurato. Solo mi
doleva di averle potuto attribuire per un momento quella idea orribile e di
essermi tradito. Volevo ora domandarle che intendesse fare, e non osavo. Ella
non parlava più. Passata la villetta C., mi disse che voleva farmi sapere il
suo nome, che suo marito si chiamava Vida, e ch'ella aveva tenuto nascosto
questo nome, acciocché suo padre, venendo per caso ad udirlo, non fuggisse
addirittura da S. Bernardino.
Giungemmo al villaggio deserto,
tutto bianco di luna. Nel porre il piede sugli scalini dell'Hôtel Brocco, mi
feci coraggio ed incominciai:
Lei parte?
Domattina.
E posso sapere?...
Fedele esitò.
Glielo dirò rispose a bassa voce
non lo ripeta a mia sorella. Me lo prometta! Vado a Marsiglia.
La guardai, le stesi la mano
senza poter parlare. Ella mi diede la sua.
So che ci muoio soggiunse ma in
ogni caso andrei suora.
Ci parve udir parlare nell'albergo.
Domani disse ella in fretta non
venga mica a salutarmi quando parto. I suoi amici sono troppo cattivi, mi
criticherebbero, già, per la mia familiarità di stasera. Non racconti mica
niente, sa. 'El ghe diga ch'el xe el nostro far, de nualtre veneziane'.
Le strinsi la mano forte forte,
con ambo le mie. Fu il nostro muto addio.
Dunque mi disse l'indomani
mattina, alla fonte, la signorina Prina, tutta sfavillante di ironia glielo
avranno ben trovato quel verso iersera?
Che verso? diss'io.
Caro! esclamò la signorina; e si
mise a declamare con un'enfasi sarcastica:
Mi me se inchiava i denti
Quando te voi parlar
E digo: i xe accidenti...
Me l'avevano trovato, il verso,
sì. 'E digo: el xe el mio far'. Ma io lo tacqui, sdegnai concedere ai motteggi di
quell'altera signorina che mi era del tutto indifferente, le ultime parole di
Fedele.
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