PRELUDIO MISTICO
I
«Signorina» disse
Giovanni, il domestico, entrando frettoloso, ansante, nella sala da pranzo.
Aveva cercato inutilmente la signorina Lelia nel giardino, nel salone, nella
sua camera. Erano le nove di sera, il padrone e la signorina avevano finito di
pranzare prima delle otto, il padrone si era chiuso quasi subito nel suo
studio, la signorina era uscita in giardino, a Giovanni non poteva venire in
mente che fosse ritornata nella sala da pranzo. Ella era lì, alla finestra.
Pareva guardare l'oscuro bosco di castagni, a levante della villa,
oltre il borro dove un'acquicella querula scende dal piccolo lago nascosto, più
su, dietro un giro di erbosi dorsi, cinto alla grande, severa montagna di
Priaforà. Tendeva in fatto l'orecchio a un remoto fragore che cresceva e
mancava collo spirare del vento: al fragore di un treno ancora lontano, in
corsa verso quella conca della Val d'Astico che la villa signoreggia. Intanto
si sgualciva lentamente una lettera nella mano inquieta. Alla chiamata del
domestico si voltò di soprassalto, stringendosi la lettera nel pugno.
«Che c'è?» diss'ella, corrucciata.
«Credo» rispose il domestico «che il signor padrone non stia
bene.»
La signorina Lelia mise una esclamazione di sgomento:
«Cosa?»
L'altro rimase lì, sciocco, a guardarla. Ella diede un balzo verso
l'uscio del salone, si arrestò di botto, si voltò al melenso uomo, lo
interrogò:
«Dov'è?»
«Nello studio, credo.»
«Credo!» ripetè Lelia, sdegnosamente. Corse nel
salone. Sull'entrata della sala del biliardo, che mette allo studio, incontrò
la cameriera Teresina. La cameriera le si fece incontro accennandole, a mani
spiegate, di fermarsi.
«Niente niente» diss'ella, sottovoce. «Non è niente.» Avvertì la
signorina che le si era aperto il medaglione pendente dalla cintura, glielo
chiuse. Lelia s'impazientì che si occupasse del medaglione invece di
raccontarle l'accaduto; ma ne fu tranquillata.
«Vada, Lei, Giovanni» disse Teresina al domestico, che aveva
seguito la signorina e ascoltava fra stupido e curioso. «Prepari l'acqua fresca
nella camera dei forestieri.»
Lelia tremò daccapo. C'era qualche cosa che Giovanni non dovesse
sapere? «Non signora no» rispose Teresina al suo modo trentino. Però parve a
Lelia ch'ella tardasse troppo a spiegarsi, che fosse preoccupata di non
spaventar lei.
«Ma insomma?» diss'ella, impaziente.
Infatti la cameriera, molto superiore per criterio, per tatto, per
educazione, al proprio stato, aveva cose piuttosto gravi a dire e le faceva
pena la signorina così delicata, così nervosa, così eccitabile. Diede
un'occhiata all'uscio dello studio.
«Se vien fuori» disse piano «ci trova qui a discorrere,
s'insospettisce. Sarebbe meglio passare di là.»
Lelia attraversò rapidamente il salone, ritornò nella sala da
pranzo, colla cameriera. Benchè fosse impaziente di udirne il racconto, fece
attenzione per un momento al fischio del treno, si domandò se fischiasse da San
Giorgio o dalla stazione di Seghe.
«Dunque?» diss'ella.
Dunque; Teresina aveva recato al padrone la corrispondenza,
secondo il solito, nello studio. Proprio nel momento dell'entrarvi, lo aveva
veduto piegare il capo, prima all'indietro e poi sulla spalla destra, chiudere
gli occhi, aprirli stralunati, chiuderli daccapo e daccapo mostrarne il bianco.
Allora gli aveva spruzzato il viso d'acqua, aveva suonato per il domestico, lo
aveva spedito in cerca della signorina; perchè, a dir vero, un po' di spavento,
da principio, lo aveva provato. Intanto il signore, dato un gran sospiro, si
era ricomposto, aveva parlato di un assalto di sonno. Poi si era messo ad
aprire i giornali e le lettere; e perchè Teresina stava lì dubbiosa se uscire o
rimanere, se fargli qualche domanda o no, l'aveva congedata. Ella si era
trattenuta fuori dell'uscio, a origliare. Non aveva udito che spiegazzar carte.
Perciò...
Due tocchi di campanello elettrico.
«Il signor padrone!» esclamò Teresina. «Per me!»
E corse via.
Lelia la seguì per alcuni passi, si fermò nel salone a guardarle
dietro, a guardar l'uscio della sala del biliardo che tornava lentamente a
chiudersi, stette in ascolto, aspettando ch'ella ricomparisse. Intanto il treno
fischiò sotto l'altura di Santa Maria, poco prima di entrare nella stazione
capolinea di Arsiero, a dieci minuti dalla villa dove Lelia viveva col signor
Marcello Trento, detta «la
Montanina» perchè, assisa sotto un cappello di tetti acuti,
col dorso alla montagna fra selvette e prati pendenti al Posina profondo, ha
l'aria di una boscaiuola discesa dai dirupi della Priaforà, che riposi seduta
sotto il grave carico e guardi.
Teresina,
devota al signor Marcello come lo era stata per vent'anni alla sua povera
moglie morta da due anni, bussò all'uscio dello studio, tremando che il padrone
si sentisse male. Udito un franco «avanti!» si rincorò, entrò sorridente perchè
non le si scoprissero in viso le tracce del passato sgomento.
L'uscio dello studio si apriva a sinistra del seggiolone dove il
signor Marcello sedeva davanti a un tavolo ingombro di carte, nella luce
dell'antica lucerna fiorentina di ottone a tre beccucci, che aveva illuminato
il capo canuto di suo padre e ora illuminava il suo. Il suo portava una
selvaggia criniera mista di grigio e di fulvo, irta come forse ne gittano i
cranii di tempra più maschia. All'entrare di Teresina egli girò verso di lei il
viso, dove i baffi e il pizzo duravano più accesi dei capelli, e, sotto la
breve fronte rugosa, si aprivano gli occhi quasi bianchi, terribili nella
collera, dolcissimi nella tenerezza: un duro viso, in quel momento,
d'inquisitore. Ella sentì crucciandosene invano, di arrossire fino al collo.
«Come va» diss'egli «che qui è tutto bagnato?»
«Non so no» rispose la cameriera, arrossendo ancora di più.
«Come, non so no? I miei capelli, chi me li ha bagnati.
Chi, dico, chi? Non capite? Cosa serve che facciate l'oca?»
La cameriera comprese che a negare ancora avrebbe fatto peggio.
«Lei aveva preso un po' di sonno» diss'ella. «Ho creduto che si
sentisse male e Le ho spruzzato addosso dell'acqua. Scusi tanto!»
«Che oca!» fece il signor Marcello. «Prima non capivo, ma poi me
lo sono immaginato che doveva essere successo così. Siete una grande oca,
però!»
«Eh, sissignore.»
Teresina era contenta. Non le pareva vero che il padrone
continuasse a credere di aver dormito. Si ritirò in fretta, ma il signor
Marcello la fermò con un gesto.
«Chi vi ha ordinato di andar via? Ditemi se il treno di Schio è
arrivato.»
«Non so no» rispose Teresina e si scusò tosto del suo modo
trentino che irritava sempre il signor Marcello. Girò adagio davanti al padrone
e prese lo smoccolatoio per un lucignolo della lucerna fiorentina che fumava.
«Lasciate stare!» esclamò il padrone, incollerito. «Volete che non
sappia smoccolare meglio di voi?»
La cameriera si scusò daccapo, umilmente, e, camminando in punta
di piedi per non irritare il padrone anche col suo passo, uscì. Aveva appena
incominciato a informare Lelia di questo colloquio, quando due nuovi tocchi di
campanello la richiamarono.
«Cosa vuole, adesso?» pensò Teresina, turbata, ritornando in
fretta verso lo studio.
Vide subito che il signor Marcello aveva un'altra faccia, una
faccia mansueta.
«Scusate» diss'egli quasi sottovoce. «Forse sono io, la bestia. Come
avevo gli occhi quando dormivo?»
«Chiusi.»
«Non li ho aperti mai? Non ne avete veduto il bianco?»
Teresina si sentì gelare. Negò, ma dopo un istante di silenzio. Il
padrone le piantò in viso quel suo sguardo investigatore che le dava i brividi.
Ella si confuse. Invece di negare ancora, disse che non ricordava.
«E dove avete trovata l'acqua?» riprese il signor Marcello,
tranquillamente.
Teresina ne aveva preso un bicchiere nell'attigua camera da letto
di lui, al robinetto del lavabo. Capì che, dicendolo, veniva ad ammettere una
tal quale durata di quel dubbio sonno, non trovò lì per lì bugie opportune,
rispose la verità, ma col tono incerto di chi la mette fuori a malincuore. Il
signor Marcello la guardò ancora un poco, disse dolcemente:
«Andate pure, cara. E quando arriverà il signor Alberti,
avvertitemi.»
Teresina uscì, tutta sgomentata, senza saper perchè, di quella
gran dolcezza. Era la terza volta, in ventidue anni che il padrone le diceva
«cara». Gliel'aveva detto la prima volta, con indifferenza, salutandola quando
si era presentata per entrare al suo servizio. Gliel'aveva detto la seconda
volta, con un impeto di commozione, quando gli era morto l'unico figliuolo,
Andrea, ringraziandola dell'assistenza che gli aveva fatta insieme a lui, la
madre essendo inferma del male che la uccise un anno e mezzo più tardi. La
dolcezza tranquilla del terzo «cara» era una cosa nuova.
Rimasto solo, il
signor Marcello si alzò lentamente in piedi, pallido. Voltosi alla grande
finestra, giunse le mani in atto di preghiera, guardando il cielo tenebroso sul
Torraro, sulla folla dei grandi castagni scendenti per la costa di Lago di Velo
al burrone del Posina. Le sue labbra non si mossero; parlarono gli occhi gravi,
solenni, riverenti. Egli toccava i settantadue anni come suo padre quando, una
sera, questi era stato visto piegar il capo mentre conversava, stralunar gli
occhi e riaversi, persuaso di aver dormito. Il medico aveva avvertito la
famiglia che si trattava di arteriosclerosi e che conveniva prepararsi al
peggio. Cinque mesi dopo, il giusto pio vecchio era stato trovato morto nel suo
letto, ardendogli a fianco la stessa lucerna di ottone che ardeva ora sul
tavolo del figliuolo.
La fiamma silenziosa pareva vivere e ricordare, pareva intendere
il tragico momento. Esso non era tragico nella mente del vecchio; era solenne.
Era il vago annuncio dell'approssimarsi di un altro momento, il più felice,
oramai, che Iddio potesse concedergli sulla terra, il momento di partirsene, di
ricongiungersi per sempre alle care anime desiderate, il momento per il quale
aveva tanto pregato, con tanto ardenti lagrime. Ora il suo cuore era pieno di
dolcezza e anche di tremore; era pieno di Dio buono e anche di Dio giudice.
L'anima sua ardeva e tremava, senza formar parole, come la conscia inquieta
fiammella della lucerna.
La cameriera dubitò che il padrone potesse aver pensato al modo
della fine di suo padre, da lei conosciuto. Non ne parlò alla signorina, che
probabilmente non sapeva. Solo le propose di avvertire il medico e di evitare
al signor Marcello per quella sera, la commozione di un incontro con questo
giovine Alberti, l'amico prediletto del suo povero Andrea. L'Alberti,
veramente, veniva a Velo per visitarvi il curato di Sant'Ubaldo; ma il prete,
non lo potendo alloggiare, aveva chiesto per lui l'ospitalità della Montanina.
«Proprio stasera» brontolò Teresina «ha da venire!»
Lelia credette udire un passo in giardino.
«Lui sicuramente» disse la cameriera. «È un pezzo che il treno ha
fischiato...»
Lelia scattò. «Non chiamarmi!» diss'ella, e corse via per l'uscio
che mette alla scala di servizio, salì adagio adagio, sostando spesso a tender
l'orecchio, nella sua camera. Si affacciò alla finestra. Nessun passo, nessuna
voce. Pensò, malcontenta di sè: «che me ne importa?». E, lasciata la finestra,
rilesse la lettera sgualcita che si era stretta nel pugno alla chiamata di
Giovanni. La rilesse corrugando le sopracciglia, levandone talvolta gli occhi,
due occhi singolari, d'indefinibile colore, a guardar fieramente qualche
proiezione del suo pensiero nell'aria. Poi se la strinse ancora in pugno, la
gittò a terra.
In quel momento entrò dalla finestra aperta un suono di voci
lontane. Lelia trasalì, porse il viso ascoltando. Le voci venivano dal basso,
dal fondo del giardino, dove, presso la chiesina di Santa Maria ad Montes, è
l'entrata dei pedoni. E subito le sopracciglia bionde si corrugarono ancora, il
piccolo viso capriccioso riprese una espressione indicibile di fierezza altera.
Ella si alzò, raccattò la lettera e chiuse la finestra Che le poteva importare
di questo Alberti?
Non era nè figlia nè congiunta del signor Marcello. Era il fiore
puro di uno stelo amaro, spuntato fra la putredine. Il figlio unico dei Trento,
il povero Andrea, l'aveva amata quasi bambina, voleva farla sua sposa. Morto
lui, i suoi genitori, che gli avevano sempre contrastato risolutamente questo
matrimonio, si erano presa in casa Lelia, comperandola, si può dire, a denari,
perchè la fanciulla, statagli così cara, fosse preservata dalle corruzioni del
mondo; e anche per un rimorso, non della coscienza ma dell'amore, per il dolore
di aver fatto soffrire il loro diletto.
Fin da giovinetta ell'aveva conosciuto i suoi a fondo, sopra tutto
sua madre, con acume precoce, per l'esperienza di se stessa, delle tendenze che
sentiva nel suo proprio sangue, avvertite a dodici anni, quando la vita, grazie
a quel che vedeva e udiva in casa, non aveva più misteri per lei, tendenze
disprezzate e odiate con tutta la forza del suo spirito altero, come
nell'intimo suo disprezzava la madre, tanto che il disprezzo le sprizzava
talvolta di sotto i modi corretti duramente. Tra i dodici e i quindici era
stata in collegio, al Sacro Cuore, distinguendovisi per ingegno, amore allo
studio, singolari attitudini musicali. A sedici aveva creduto riamare Andrea
Trento. Egli era sui diciotto e studiava matematiche a Padova, patria di Lelia,
natavi dal signor Girolamo e dalla signora Chiara Camin, che si facevano
chiamare da Camin. Il sior Momi era un volgare affarista, fallito più di una
volta, mescolatosi anche, in vario modo, alla politica.
La signora Chiara aveva militato, non senza gloria, nella
galanteria, si era divisa dal marito, in via sommaria, quando appunto lo
studente Trento, vicino di casa dei Camin, aveva incominciato a innamorarsi
della figliuola. Già matura, si era stabilita a Milano con un vecchio signore
austriaco, morto poi quasi subito, e ne aveva ereditata una discreta fortuna.
Allora si era data alla pietà, aveva aperto la sua casa a preti, a frati, a
suore, che facilmente, senza tanto indagare, l'avevano creduta vedova e nulla
sapevano del marito di Padova. Questi, alla sua volta, si teneva in casa una
donnaccia per governante, dissimulando molto le proprie debolezze ma tollerando
troppo che la rozza creatura prendesse delle arie da padrona.
Lelia aveva accettato l'amore di Andrea per gratitudine, per
compiacenza di giovinetta ammirata e desiderata, piuttosto che per un vero
ricambio di sentimento. Egli era troppo giovane, per lei, troppo gaio, troppo
immaturo a penetrare con adeguato sentimento in quel dramma morale che si
agitava nel profondo dell'anima di lei. Bello, intelligente, generoso, Andrea
Trento era un umile di cuore; ingiusto verso il proprio ingegno, era pronto ad
ammirare l'altrui.
Fra i suoi amici prediligeva Massimo Alberti, di Milano cui era
legato piuttosto per vecchie relazioni delle due famiglie che per consuetudini
di Università. Massimo Alberti maggiore di parecchi anni, stava compiendo a
Padova gli studi di medicina, cominciati a Roma, quando Andrea passò dal liceo
all'Università. Questi ammirava l'amico per l'ingegno e la cultura singolari,
per la severità del costume. Stimava grandemente superiore a sè anche Lelia e
le parlava molto di Alberti, ch'ella non aveva veduto mai. Era giunto a dirle,
in un impeto di amore e di umiltà, che Alberti sarebbe stato per essa un marito
più degno. Lelia, punto umile di cuore, usa correr diritta alle ultime
conseguenze di un principio accolto, aveva pensato: «discorso virtuoso, ma
spiacente e inopportuno». Ella non intendeva l'amore così. E si era rifiutata
sempre, con pretesti, a conoscere questo amico del suo innamorato. La morte di
Andrea l'addolorò tanto ch'ella si fece allora un concetto esagerato del
proprio amore, lo misurò insieme alla pietà, senza distinguere. Quando suo
padre le disse, piagnucolando, che gli s'imponeva un grande sacrificio per il
bene di lei, che i vecchi Trento la desideravano per figliuola in memoria del
loro caro perduto, e che, quantunque gliene sanguinasse il cuore, egli era
pronto ad accettare una proposta così vantaggiosa per lei, ella indovinò il
mercato che suo padre le taceva, ebbe uno scatto di ripulsa, un impeto di
offesa dignità, rivendicò a sè per un momento la tutela dell'onore familiare,
affidata male a un padre spregevole; ma poi lo sdegno contro di esso, lo schifo
delle lordure da lui portate nel focolare domestico, furono così grandi ch'ella
ritornò sulla sua ripulsa e, pensando al povero caro morto, accettò.
Accettò, ma l'atto dell'entrare, comperata, in casa Trento, le fu
durissimo. Capì subito che una condizione del mercato era stata il divieto a
suo padre di metter piede alla Montanina. Ne godette e ne soffrì al tempo
stesso. Il suo contegno verso i Trento fu, sulle prime, freddo. Ella ebbe
l'aria di significar loro, senza parole, che non sentiva gratitudine, che
sapeva di essere stata desiderata soltanto come una specie di reliquia del loro
figliuolo, che i beneficati erano essi, ch'ella pure si era fatta loro
benefattrice solo in memoria di lui e non per affetto. Posto il carattere
focoso del signor Marcello, c'era pericolo di una rottura. Vi ebbero infatti,
dopo le prime tenerissime accoglienze di lui, alquante burrasche. La dolce
mansuetudine della signora Trento e il talento musicale di Lelia salvarono il
nuovo legame. La signora Trento ammansò il marito coll'autorità della sua virtù
e anche delle sofferenze che in breve la condussero a morte. La musica fece il
resto. Il signor Marcello, discreto pianista, vi cercava le parole impossibili
degl'intimi suoi sentimenti del dolore, della speranza, dei vaghi ricordi e
rimpianti, della emozione mistica. Lelia ed egli portavano al piano la stessa
intensa passione e gli stessi gusti. Certo antagonismo segreto potè restare
lungamente nel cuore di entrambi; ma il caldo consenso nei giudizi e nei godimenti
musicali rese loro più facile il reciproco riconoscimento, misurato sì e
intermittente, di quanta morale bellezza era nelle loro nature, e la reciproca
tolleranza, pure misurata e intermittente, di quanto all'uno spiaceva
nell'altro.
La morte della signora Trento determinò una crisi nelle loro
relazioni. Lelia si era lasciata prendere, poco a poco, dalla mansuetudine
dolce della signora, e le sue cure, le sue attenzioni affettuose per la povera
ammalata avevano intenerito il cuore del signor Marcello. Ogni giorno più
mitemente paterno con essa, ogni giorno più declinante, nell'aspetto e nel
portamento, verso l'ultima vecchiaia, ogni giorno più indifferente alle cose
terrene, fuorchè alla musica e, un poco, ai fiori, più raccolto nei pensieri
delle cose eterne, egli aveva finito con ispirarle riverenza filiale, con farle
spesso dimenticare i sentimenti provati al primo suo ingresso in casa Trento.
Il caso del deliquio inavvertito, la faccia, più che le parole, della cameriera
Teresina, la turbarono di un'afflizione sincera, benchè la sua mente fosse
tanto presa dall'annunciato arrivo di Massimo Alberti. Tre anni erano trascorsi
dalla morte di Andrea e, dopo i funerali dell'amico, Alberti non si era più
fatto vedere alla Montanina. Solo si ricordava negli anniversarii e a capo
d'anno, affettuosamente, al signor Marcello. Questi glien'era riconoscente, ne
parlava, in quelle occasioni, a Lelia, si doleva qualche altra volta con lei di
non averlo più riveduto. Lelia lasciava sempre cadere il discorso. Le spiacenti
parole del povero Andrea non le erano mai uscite dalla memoria e la tenacità di
questo suo ricordo le dava noia, disgusto di se stessa. Se udiva quel nome
dalle labbra del signor Marcello, vi sentiva una specie di persecuzione; e
difficilmente il signor Marcello lo pronunciava senz'aggiungervi qualche parola
di stima o di simpatia, che la irritava di più. Tale istintiva repulsione,
invece di attenuarsi coll'andar del tempo, si era venuta aggravando. Ella non
potè a meno di associarla, nelle sue riflessioni, all'impallidire dell'immagine
di Andrea e ad altri oscuri moti dell'anima sua: tristezze senza nome, fiamme
di allegrie inesplicabili ch'ella durava fatica a comprimere, lagrime provocate
dalla musica, ebbrezze brevi ma quasi paurose comunicatele dalla vita della
natura, da prati in fiore, da boschi nel rigoglio fresco del giugno. Il senso
di questi moti oscuri non le sfuggiva interamente. L'idea di tendere all'amore,
di esservi tratta da istinti ciechi del sangue trasmessole da sua madre e da
suo padre, si associava nella sua mente al dubbio di un particolare germe di
passione che potesse annidarsi in lei, metter radice. Si spiegò così
l'avversione a quel nome a quella persona; e il veder chiaro nel proprio
interno la irritò maggiormente contro di sè. Era dovere per lei di non amare
mai più: dovere verso la memoria di Andrea; dovere verso il signor Marcello,
tacitamente accettato coll'accettare la parte di reliquia viva del morto;
dovere, sopra tutto, verso se stessa che non si abbasserebbe mai a essere una
delle solite, una delle infinite, avendo sortito dal destino, con i genitori
disonorati e il sangue infetto, la offerta di una purezza gloriosa. Nello stato
del suo spirito e de' suoi sensi, il solo considerarsi nel fondo della memoria
la materia oscura dove si poteva celare un germe di passione, faceva affluire
il sangue a quella cellula cerebrale e qualche cosa vi si formava realmente per
la potenza plastica del sangue. L'annuncio datole dal signor Marcello
lietamente, che Massimo Alberti era per venire alla Montanina come ospite, la
fece rabbrividire. Seguì una reazione di sdegno, quasi di rimorso; ma insomma
nell'esclamare «cosa m'importa di questo Alberti?» Lelia sapeva di non essere,
pur troppo, sincera.
Prima di porsi a letto, baciò il ritratto di Andrea che portava
nel medaglione, baciò l'anellino ch'egli le aveva donato in segno di pace dopo
una viva contesa. Spento il lume, si voltò sul fianco, verso il muro, si tirò
il lenzuolo fin sopra i capelli, e pianse.
II
Massimo Alberti, arrivato da Milano dopo un viaggio di quasi ott'ore nel caldo di
un giugno ardente, nella polvere, nel fumo, nello strepito, credeva, salendo a
piedi dalla stazione di Arsiero alla Montanina, sognare. Il cielo, senza luna,
era coperto; grandi fumate di nebbia pesavano, biancastre, sulla fronte della
Priaforà, sulle scogliere del Summano, aguzze nel cielo come una sega adagiata
sopra le morbide vette delle boscaglie; la brezzolina del monte spandeva
sull'erta sentori selvaggi, molte voci di acquicelle cascanti nei cavi dei
burroni e non una sola nota di vita umana. La strada odorava di fango;
piacevolmente, dopo tanta polvere. Dove essa svolta dentro un vallone e tutto
si discopre, nell'alto, l'ammasso lunato di castagni, che porta un diadema nero
di vette d'abeti, il contadino di Lago di Velo, certo Simone, detto Cioci, che
precedeva Massimo con le valigie, si fermò per domandargli se andasse a Velo, o
a Sant'Ubaldo, o alla Montanina.
«Ma come?» fece Massimo, sorpreso. «Vado da don Aurelio, a
Sant'Ubaldo.»
Allora quella testa fine che alla Stazione gli aveva solamente
fatte le scuse di don Aurelio rimasto a Lago per assistere un vecchio infermo,
gli disse tranquillamente:
«Perchè nol ga posto, salo, el prete.»
Massimo restò sbalordito. Come, non aveva posto? Se gli aveva scritto
di una camera preparata per lui? Cioci gli spiegò la cosa a suo modo:
«Per via de Carnesecca, salo».
Peggio che peggio. Carnesecca? Cos'era Carnesecca?
«Per via ch'el se l'à tolto in casa, salo.»
Massimo rinunciò a capire. Insomma, dove lo mandava don Aurelio,
poichè non gli poteva dare alloggio? Cavò stentatamente alla sua guida che don
Aurelio le aveva dato l'ordine di accompagnare il forestiere alla Montanina. E
perchè, santo cielo, non lo aveva detto subito?
«Sempre che La comandasse, me intendeva mi» disse Cioci.
Massimo lo pregò di tirare avanti verso la Montanina. Era
malcontento. Pensò che i preti, anche i migliori, anche i più cari, mancano,
almeno un poco, di tatto. Venerava il signor Marcello ma gli seccava di
prendersi una ospitalità non offerta, gli seccava d'incontrarsi forse, alla
Montanina, con altri ospiti, gli seccava di non potervi godere la libertà e la
quiete, tanto sospirate, che si era ripromesse partendo da Milano, gli seccava
di non essere stato avvertito in tempo. Avrebbe ritardato. Fatto un centinaio
di passi, il bravo Cioci si fermò e si voltò da capo a parlargli.
Il «prete» gli faceva dire che il signor Trento lo ringraziava
tanto di andare a casa sua.
All'ultima svolta. dove la strada della Montanina si diparte da
quella di Velo, Cioci fece un'altra sosta e un'altra commissione tempestiva. Il
«prete» faceva dire al signore di avvertire, se avesse bagaglio spedito, il
signor capostazione che lo si sarebbe mandato a prendere l'indomani mattina con
un carretto.
Massimo sorrise. No, no, non aveva bagaglio spedito. Rise anche
Cioci, questa volta.
«Cossa vorla, sior! Le gera tante!»
Alla Montanina, dunque. Il primo malumore di Massimo cedette ad
altri pensieri. Gli strinse il cuore la memoria del morto giovinetto amico,
tanto caro, buono, franco, brioso, che gli parlava con entusiasmo di Velo
d'Astico e della Montanina, della sua fiducia nella dolce bontà di sua madre
che avrebbe piegato presto ai suoi desideri, che poi gli avrebbe ottenuto anche
il consenso del padre alle nozze sospirate. E gli descriveva il quartierino
della sua futura felicità, tre stanze e una terrazza sul lato di ponente della
villa. Dov'erano la gioia e la dolcezza di tante speranze, dov'era quel capo
biondo, dov'era quel bel viso scintillante di vita e di gaiezza, dov'era quel
cuore aperto e caldo? Sotterra; e le montagne, e i boschi e la voce del Posina
profondo, e i sussurri delle acquicelle querule, tutto durava come prima,
amaramente. Ecco il castagno antico, dal tronco tripartito a candelabro, ecco,
sullo svoltar della salita, il biancor fioco della chiesetta bizzarra, ecco il
biancor fioco, in alto, della villa e il fosco sopracciglio della grande,
pensosa Priaforà.
Un anno prima che Andrea morisse, Massimo ed egli avevano discorso
insieme, sotto il castagno antico, della famiglia Camin, della necessità di
tener lontano da Lelia, dopo il matrimonio, anche suo padre. Andrea n'era
persuaso e diceva che la fanciulla lo desiderava quanto egli. Si era sfogato a
esaltare la nobiltà d'animo di lei e anche la maturità precoce della sua
intelligenza. A questo proposito aveva confessato di non essere stato sincero
con i propri genitori, indicando loro l'età della ragazza. Lelia era sui sedici
anni ed egli aveva detto diciotto.
Massimo si fermò istintivamente a toccare il tronco del castagno,
testimonio superstite, pensò il giovinetto in Dio, gli parve che l'albero e la
umile chiesina e l'accigliata montagna lo pensassero con lui.
«Xela straco, signor?» gli chiese Cioci che si era fermato
anch'egli. Massimo si scosse.
«No no, andiamo» diss'egli, e, anche per levarsi dai tristi
pensieri, domandò a Cioci del suo curato. Dovevano essere contenti, a
Sant'Ubaldo, del loro curato!
«Ah, cossa vorla!» esclamò Cioci. Era un panegirico, era come
dire: «In qual modo vorrebbe Lei che io esprimessi l'inesprimibile?». E
soggiunse: «Un capo grando, salo!».
Mentre i due passavano davanti alla chiesina di Santa Maria ad
Montes, una voce femminile chiamò dall'alto:
«Cioci! Qua, Cioci!»
«Siora!» rispose Cioci, sostando.
La «siora» era Teresina, che comparve presto al cancello del
portico, di fianco alla chiesa, dov'è l'entrata dei pedoni. Fece entrare Cioci,
lo avviò alla villa col suo carico e trattenne Alberti.
Ella gli si ricordò come la cameriera che gli aveva fasciata una
distorsione buscatasi nello scendere dal Colletto Grande col povero signor
Andrea. Le premeva di avvertirlo che il suo padrone, il signor Marcello, era
tanto felice di ospitarlo ma che le sue condizioni di salute non erano troppo
buone, che questo incontro lo avrebbe certamente commosso. Perciò si permetteva
di pregarlo a fingersi molto stanco del viaggio e a ritirarsi presto, perchè si
ritirasse anche il padrone. Tale era pure, diss'ella, il desiderio della
signorina.
La signorina? Certo; Massimo non ci aveva pensato. Adesso, alla
Montanina, c'era la signorina da Camin. Massimo sulla fede di Andrea e Andrea
sulla fede del sior Momi, l'avevano sempre chiamata così e non col suo vero
nome, Camin. Lelia stessa si credeva da Camin. Massimo non l'aveva veduta che
una volta, per via, da lontano. Ne conosceva due fotografie mostrategli
dall'amico e ricordava perfettamente le due impressioni del tutto diverse, che
gli avevano fatte. Ricordava una testolina di dieciott'anni, ben pettinata,
dalle linee non tanto regolari, dagli occhi sorridenti che guardavano
l'obbiettivo dicendo «va bene così?».
Ricordava un'altra testolina dai capelli un po' scomposti, chinata
leggermente in avanti e che guardava basso, per cui gli occhi non le si
vedevano. Alla prima non aveva fatto, quasi, attenzione; la seconda lo aveva
colpito. Il secondo viso poteva essere il viso di una creatura conscia di
qualche sua colpa grave oppure di un triste destino; poteva essere un viso
guardato con amore e inteso a celare amore; poteva essere semplicemente il viso
di una giovinetta che pensa. Era, in paragone dell'altro, un viso più giovanile
di un'anima più profonda; era il viso di una bambina di quindici anni
moralmente e intellettualmente matura quanto una donna di trenta. Anche l'idea
di farsi un ritratto simile indicava qualche cosa di strano e di forte nella
intelligenza che l'aveva concepita. Massimo n'era stato preso, e restituendolo
all'amico, gli aveva taciuto il dubbio che quella tentante creatura, dall'aria
di sfinge pensosa e triste, convenisse al suo carattere, potesse renderlo
felice. Per molti giorni, ora se ne rammentò, la figura della giovinetta sfinge
gli si era affacciata, nella immaginazione, con insistenza tormentosa. Mentre
seguiva Teresina, le due testoline differenti gli balenarono ancora in mente.
La domanda se avrebbe trovato l'una o l'altra fu per formarsi nel suo pensiero,
ma egli non la stimò conveniente e non se la permise. Ne lo distrasse anche
Teresina, parlandogli del desiderio inquieto col quale lo attendeva, fin dalla
mattina, il signor Marcello. Aveva, con pretesti, allontanato lei, allontanato
il domestico, allontanata pure la signorina, che tuttavia se n'era accorta, con
lo scopo di non essere veduto entrare nella camera preparata per l'ospite.
Prima era disceso in giardino a cogliere colle proprie mani delle rose. Le
aveva portate in quella camera di furto. Non che presumesse tener segrete
queste sue attenzioni; le persone di servizio dovevano pur entrare nella camera
prima dell'ospite, all'ultimo momento, per l'acqua fresca, per vedere se tutto
fosse in ordine. Soltanto non voleva che lo vedessero mentre vi entrava e vi
stava egli, certo perchè gli pareva esserne spiato nell'anima, mostrare il suo
sentimento intimo; e da questo abborriva.
Prima di raggiungere la villa, Teresina e Alberti incontrarono
Cioci, sciolto del suo carico, che desiderando, per fini poco reconditi,
ossequiare il forestiere, aveva preso quella via molto viziosa di salire a
Lago, invece di andarvi diritto attraverso la parte superiore del giardino.
«Ben, sior» diss'egli, sberrettandosi: «felice notte, salo».
Avuto quel che aspettava e ringraziato il munifico viaggiatore,
annunciò a Teresina che il suo padrone stava scendendo dietro a lui.
«Ecco!» esclamò la cameriera. «Me lo immaginavo!»
S'incontrarono a pochi passi dalla spianata dove sorge la villa.
Faceva scuro, il signor Marcello scendeva curvo, con passo malfermo. Massimo
gli salì rapido incontro, ne fu abbracciato strettamente, silenziosamente,
cominciò subito a scusarsi della intrusione accusandone don Aurelio, mentre il
vecchio ripeteva commosso:
«Lei non sa, Lei non sa, Lei non sa che gioia mi è di vederla e di
abbracciarla!» E se lo strinse al petto un'altra volta.
Dalla spianata entrarono, per la sala da pranzo, nel salone, il
signor Marcello appoggiandosi al braccio di Massimo. Egli volle che l'ospite
fosse subito accompagnato nella sua camera. Sarebbero stati insieme più tardi.
Massimo avrebbe preferito rimanere allora un poco perchè poi il signor Marcello
se n'andasse a letto; ma il signor Marcello non ne voleva sapere, e Teresina,
conoscendo il cuore di fanciullo del suo vecchio padrone, lo indovinò
impaziente che l'ospite vedesse cosa gli aveva preparato in camera, desideroso
di affrettargliene la impressione. Perciò unì il suo sommesso invito alle insistenze
del padrone, per modo che Massimo intese la opportunità di cedere.
Il signor Marcello gli disse, nel congedarlo, che lo avrebbe
atteso lì per prendere il caffè insieme.
Teresina accompagnò l'ospite proprio nel quartiere dove il povero
Andrea si era visto, sognando l'avvenire, con Lelia. Lo introdusse nella
cameretta che si apre, a tramontana, sulla terrazza. Accese la luce, vide il
lavoro del suo padrone, disse sottovoce «povero signore!», diede a Massimo, con
molte scuse, il consiglio di far capire al padrone che aveva veduto ma di non
parlare, e si ritirò.
Sul piano di marmo del cassettone una sola splendida rosa bianca
si piegava, dall'orlo di un alto e sottile calice di cristallo, sopra la
fotografia del povero Andrea. Sul tavolino da notte un piccolo fascio di
lettere, legato con un nastro nero. Massimo lo aperse curiosamente. Erano
lettere sue al povero Andrea. Aperse poi l'Imitazione, immaginando che fosse
pure un ricordo, e vi trovò scritto:
«Al caro Andrea, nel giorno della sua prima Comunione, Rachele
Alberti Vittuoni.»
Era il nome di sua madre, morta ella pure da parecchi anni. Vi
posò le labbra. Entravano per la finestra aperta, col vento della notte, la
voce grave del Posina, la voce sommessa della Riderella che fugge per il
giardino a pochi passi dalla villa; nessun altro suono. Nel senso di quel
silenzio, di quel riposo, della natura innocente, della maestà della notte, la
cameretta gli fu, con i suoi ricordi, una chiesa. Levò le labbra dallo scritto
pregando ancora e, spenta la luce, uscì. Sul corridoio lo aspettava Teresina.
Il padrone le pareva un poco sovreccitato. Premeva che si ritirasse presto. In
fatto il signor Marcello si era doluto dell'assenza di Lelia, non se ne dava
pace. Ma questo, la cameriera lo tacque.
Massimo non lo trovò più nel salone. Era in giardino sopra uno dei
sedili disposti a ponente della villa. Aspettava Massimo, lì, perchè l'incontro
avvenisse al buio. Massimo volle baciargli la mano. Egli non lo permise, lo
abbracciò, se lo fece sedere vicino, gli passò un braccio intorno al collo.
Stettero lungamente silenziosi, nel freddo alito della nera,
imminente Priaforà, il signor Marcello fissando, senza sguardo, l'ombra,
Massimo ascoltando le voci del Posina e della Riderella, che lo riconducevano
nella camera dei ricordi guardando, anch'egli senza attenzione, i lumi di
Arsiero, disseminati come uno sciame di lucciole per le tenebre, un po' in
basso e a destra, oltre il vallone del Posina, nel grembo scendente dal colle
di San Rocco e dalle balze del Caviogio acuto nel cielo. Dopo un tratto il
giovine accennò timidamente all'ora tarda. Il signor Marcello gli trasse il
capo impetuosamente a sè.
«No no no!» diss'egli. E gli fu addosso con una subita foga di
domande intorno a don Aurelio, intorno a lui stesso. Massimo dovette pure
raccontargli, il più brevemente che potè, come si fosse incontrato in Roma, da
studente di medicina, coll'attuale curato di Lago, come don Aurelio ed egli
avessero per comune amico un uomo di cui si era parlato molto, in bene e in
male, una specie di apostolo laico. Massimo supponeva che il signor Marcello ne
avesse udito qualche cosa da don Aurelio e si meravigliò che tanto il nome di
Piero Maironi quanto il nome di Benedetto gli fossero invece del tutto
sconosciuti. Massimo non credette opportuno di entrare in quel discorso che lo
avrebbe condotto per le lunghe, si limitò a dire come don Aurelio, non avendo
in Roma occupazione stabile, fosse stato accolto, per i buoni uffici di un
sacerdote, dal vescovo di Vicenza nella propria diocesi e destinato alla
curazia di Lago di Velo. Lo disse un uomo di Dio, tutto dato al proprio
ministero, tutto carità e amor divino, alieno da ogni disputa religiosa. Nelle
lodi il signor Marcello consentì con emozione così forte da soffocargli, quasi,
la voce. Era sopra tutto, lo si sentiva nei sospiri uniti alle parole, emozione
di desiderio che la Chiesa
potesse avere molti sacerdoti simili a don Aurelio.
La voce di Teresina nel buio:
«Signor padrone, guardi che il signor Alberti sarà stanco.»
«Andate, andate» le disse il signor Marcello, abbastanza
pacificamente. «Lo so, lo so, quel che volete. È tutto lo stesso, non mi fa
niente.»
«Gesù!» si gemette nel cuore la povera cameriera sbigottita: e non
osò insistere.
Massimo fu ora costretto a dire di sè, della sua renitenza a
esercitare la professione benchè avesse ormai compiuto e studi e pratica, delle
occupazioni che ne lo avevano distratto. Anche qui si figurò che don Aurelio
avesse parlato, che il signor Marcello sapesse delle sue conferenze, delle sue
pubblicazioni di carattere filosofico-religioso, delle aspre guerre, delle
contumelie che si era tirate addosso da diverse parti, della stanchezza di
spirito e del desiderio di pace che lo avevano condotto alle solitudini montane
di Velo d'Astico.
Il signor Marcello non sapeva e se ne mostrò assai turbato.
Strinse nuovamente a sè il capo del giovine.
«Sì sì» diss'egli, «stia qui e lasci andare la filosofia. Quei
lumicini là nel buio, ecco la filosofia. Chi va intorno la notte con un lume
così non vede più le stelle. Ah le stelle, le stelle!»
Massimo osservò sorridendo che quella sera, lumi o non lumi, non
si vedevano stelle.
«Oh io le vedo!» esclamò con fuoco il signor Marcello. «Ho visto
anche stasera una cara parola che vi è scritta per me! L'ho vista là, là, proprio là!»
Indicò le nubi grigie sopra il nero Torraro. La frase e il gesto
furono i soli segni di una lieve sovreccitazione mentale, che Massimo potesse
notare nel vecchio durante tutta la conversazione. Furono però tali che,
collegandoli col discorso della cameriera, se ne sgomentò. Si alzò
risolutamente, si confessò stanco e chiese licenza di ritirarsi.
«Non abbiamo preso il caffè» disse il signor Marcello.
Massimo non prendeva caffè, la sera. Il vecchio lo pregò di fargli
almeno compagnia mentre lo prendeva egli. Massimo tentava di resistere temendo
essere ancora tirato a discorrere, quando Teresina che stava in agguato nella
veranda aperta sulla fronte della villa, a due passi dai sedili, ne uscì fuori
e disse al padrone che gli aveva portato il caffè in camera. Prima ancora che
il padrone, sorpreso, protestasse, ella correva già verso la cucina per fare
della sua menzogna una specie di profezia. Vinse così la partita. Massimo salì
la scala di legno che mette dal salone, con due branche, al primo piano e il
signor Marcello si avviò alla sua camera del pian terreno, attigua allo studio,
volta alle immediate pendici della Priaforà.
III.
Tutta la casa
dormiva, oscurata da un pezzo, quando egli uscì di camera, alta figura curva,
spenzolando la lucerna fiorentina nella sinistra e tenendosi sul petto, nella
destra, un portafogli chiuso. Passò lentamente per lo studio e per la sala del
biliardo, entrò nel salone, levò la lucerna sul piano posato per isghembo quasi
sotto una branca della scala uscendogli allora dall'ombra il rugoso volto
soffuso di dolcezza e di beatitudine. Posò sul leggio il portafogli e lo aperse
pian piano, con mani tremanti. Apparve un ritratto, il ritratto di suo figlio.
Vi si affisò lungamente. Anche le labbra gli tremavano; gli occhi erano pieni di
lagrime. La lucernina di ottone, a lui più cara delle eleganti lampade che
pendevano dal soffitto, parve contenta di mostrargli il bel viso del
giovinetto, spirante in quel momento una dolce parola, una parola nuova,
misteriosa. Il signor Marcello riprese il portafogli, baciò il ritratto in
fronte, lungamente, lo ripose adagio adagio, con riverenza, sul leggio, calò
alla tastiera le grandi mani scarne, cominciò a suonare a faccia levata e a
occhi chiusi.
Non era un forte pianista ma possedeva un'anima di musica. La sua
profonda fede religiosa, i suoi affetti, il suo caldo senso di ogni bellezza di
arte e di natura, tendevano alla espressione musicale. Venerava Beethoven non
meno di Dante e, quasi, di San Giovanni Apostolo; Haydn, Mozart e Bach non meno
di Giambellino e, quasi, di San Marco, di San Matteo e di San Luca. E, come nel
Vangelo, così leggeva ogni giorno qualche pagina dei quattro evangelisti della
musica. Spesso la sera, nell'ora dei ricordi e del fantasticare, si
abbandonava, sul piano, all'estro. Trovando accenti commossi, commovendosi
della sua commozione stessa, suonava, suonava, tutto nello sforzo di adeguare
la parola musicale al proprio senso interno, dimenticava le cose presenti, il
passar del tempo. A faccia levata, a occhi chiusi, egli adesso tentava la
tastiera con le grandi mani scarne, come il cieco tenta l'aria. Cercava
l'ultimo canto del Pergolese:
Quando corpus morietur
Fac ut animae donetur
Paradisi gloria.
Non seppe trovarlo, tentò affannosamente la ricerca di un simile
cascar di suoni, più e più gravi, nel profondo, che dicesse uno sfasciarsi
lento delle fibre mortali, uno stanco tramontar di giornata; cercò un risalire
dei suoni, incalzante, ansante, delirante, verso visioni di gioia. Lasciò
allora le tracce del Pergolese, effuse in musica l'anima piena ed ebbra delle
parole
Paradisi gloria
colandogli
per le gote lagrime silenziose. Egli s'infondeva col suo Andrea, col suo caro,
col suo amore, dentro un altro infinito amore, tutto luce, tutto musica, forse;
e la sua musica terrestre fremeva di desiderio verso la musica divina, come il
getto d'acqua che fiotta spumante al vertice nella brama impotente dell'altezza
originaria. Poi lo stringevano altri subiti ricordi dei suoi peccati, delle
debolezze della sua carne, balzanti su, tutti insieme, dalle ombre della
memoria con una vivezza paurosa, come nemici dimenticati che gli corressero
sopra in folla da un agguato, gridando ciascuno il proprio nome sinistro. La
gloria del Paradiso, l'incontro col suo morto diletto, per quanto fosse forte
la sua fede in Dio, per quanto salda fosse la sua previsione di una morte
vicina, erano realtà senza forme distinte, nuclei luminosi nascosti nei vapori
della propria luce. Gli era facile pensarne e parlarne in musica. Non fu così
per i ricordi mordenti del peccato. Le mani gli piegarono, pendettero senza
moto, aggrappate alla tastiera muta; la testa gli si chinò sul petto.
Per brevi momenti. Nell'umiltà sua, ignara dell'orgoglioso sdegno
che rende tanto amare le cadute morali, gli era facile l'abbandono alla divina
pietà. Rialzò il viso, rialzò le mani, trasfuse nel piano la preghiera
dell'anima, un Miserere pieno di passione, sì, ma puranco di soavità,
pieno del senso di un lavacro largo che fluisse sulle colpe, pieno di
gratitudine, quasi, e di letizia; come se il penitente si compiacesse della
propria necessità che il Padre Celeste fosse a lui più amoroso e pio di un
padre umano. Le mani svolgevano una melodia di dolore e di amore, nata da
inconsci ricordi belliniani:
Vieni, dicea, concedi
Ch'io mi prostri ai tuoi piedi.
Mai, certo in vita sua, Marcello non aveva costretto il suo piano
a cantare così: Lo sentiva e ne godeva, pur non fermando in questo il pensiero;
e alla sua commozione si confondeva un'ombra di tenerezza per il vecchio
strumento sfiatato, per il confidente dei suoi sogni, disprezzato da Lelia,
prossimo a qualche miserevole fine.
Suonava, suonava, nè gli veniva in mente che altri lo ascoltasse.
Teresina, che per quella notte si era prudentemente preparato il letto in una
camera a terreno, udito il piano, corse fuori a spiare, vide il padrone, salì
tremante, smarrita, ad avvertire Lelia che dormiva al primo piano, verso
levante, si consultò con lei. Era in sè, il padrone? O cominciava un processo
mentale morboso? Non sarebbe opportuno di scendere, di persuaderlo a coricarsi?
Chi dovrebbe scendere? Lei o la signorina? Aiutò Lelia a vestirsi in fretta,
ripetendo sottovoce: Gesù, Gesù! Lelia non disse niente, risoluta di vedere e
di udire, anzi tutto. Scivolarono ambedue, pian piano, in punta di piedi, nella
galleria ove montano dal salone, congiungendosi pochi gradini più sotto, le due
branche della scala di legno. Dalla galleria si guarda giù nel salone per
l'apertura della scala e anche fra le colonnette che legano, ai due lati di quell'apertura,
un parapetto al soffitto. Ma neppure sporgendo il capo fra colonnetta e
colonnetta era possibile vedere il piano. Le due donne, poichè il signor
Marcello era un po' sordastro, osarono calare per la scala, prendere la branca
di destra fino al punto in cui videro bene il dorso del suonatore, curvo nel
fioco lume della lucerna posata sul coperchio del piano. Anche quel dorso curvo
e quel gran capo, seguendo l'onda della musica, parevano penetrati, in qualche
oscuro modo, di passione.
«Oh Dio, signorina, io scendo» mormorò la cameriera. Lelia le
afferrò un braccio, la trattenne con impeto, aggrottando le ciglia. Teresina la
guardò, attonita; le vide accostare l'indice alle labbra. Non potè intendere
quanto sicuramente la signorina, musicista squisita, sentisse in quelle note
una mente accesa di estro e non torbida di delirio. Intese solo che non doveva
muoversi e che non era creduta capace di capirne il perchè.
Marcello pose fine alla sua improvvisazione, mistico preludio di
un futuro dramma, con accordi gravi. Chiuse il portafogli e, incrociate le
braccia, vi posò la fronte su. La cameriera trasalì. «Gesù Signore» diss'ella,
facendo l'atto di scendere. Lelia la trattenne ancora, le sussurrò «vado io» e
discese.
Discese lentamente colla mano alla ringhiera, facendo
scricchiolare gli scalini di legno, fermo l'occhio a Marcello. Non aveva
sospetti paurosi, vedeva nell'attitudine di lui la emozione vibrata prima nella
sua musica, attribuiva questa emozione all'incontro coll'amico del povero
Andrea. Scendeva per indurlo a coricarsi senza mettergli spavento, come forse
gliel'avrebbe messo Teresina. Non era giunta a metà della scala che Marcello la
udì, alzò il capo e chiese bruscamente:
«Chi è?»
«Io, papà» diss'ella, e scese leggera, correndo, gli fu in un momento
a fianco.
«Tu? Qui? Non sei a letto, tu?»
Marcello pareva sorpreso ma contento.
Lelia sorrise.
«Eh!» rispose «non pare!»
E soggiunse con certo delizioso accento che aveva imparato in
collegio da una ragazza di Roma, per certe speciali parole:
«Ci tiene svegliati tutti!»
Le sovvenne allora che nel primo tempo della sua dimora in casa
Trento le era avvenuto di dire al signor Marcello le stesse parole, non sapeva
più a quale proposito, collo stesso accento esprimente una necessità cui è
forza piegare. Il signor Marcello se n'era divertito, ma poi, avendogli ella
detto distrattamente che quella inflessione di voce piaceva molto al povero
Andrea, si era oscurato in silenzio. Adesso, appena pronunciate le parole «ci
tiene svegliati tutti!» le risalì alla memoria quel silenzio scuro, credette
leggere in viso al signor Marcello ch'egli pure ricordasse e abbassò gli occhi,
confusa. Marcello la guardò fiso, teneramente, posò le mani sulla tastiera,
accennò, sempre guardando lei, la melodia di Schumann che il povero Andrea era
solito canterellare, che Lelia gli suonava qualche volta all'oscuro, senza
parlarne nè prima nè poi:
Almen ch'io mora sognando
Che stretta al suo petto sto...
Lelia trasalì. Le parve che il signor Marcello le dicesse colle
note dolcissime: parlami pure di lui. Egli tolse gli occhi da lei, li alzò come
se cercasse le note nella memoria, mentre le grandi mani ossute dicevano con
subita passione:
In estasi spasimando
Contenta allor morrò.
Ella ne trepidò, gli posò dolcemente una mano sulla spalla,
mormorò piano piano:
«Basta, papà! Lei si commove troppo. È tardi. Vada a letto.»
Marcello smise di suonare, prese la mano che si veniva ritraendo
dalla sua spalla, la tenne affettuosamente fra le proprie, gelate.
«Sto bene, sai, Leila» diss'egli. «Sto tanto bene.»
Negli ultimi due mesi della sua vita, dopo un piccolo litigio con
Lelia, il povero Andrea l'aveva chiamata quasi sempre «Leila». Per Marcello,
che lo aveva saputo dalla sua povera moglie, dire «Leila» era quasi un dire
«Andrea», quasi un pronunciare un nome ch'egli non sapeva udire senza soffrirne
come di una profanazione, il nome che si diceva nel cuore sempre, colle labbra
soltanto nel segreto della sua camera, quando nessuno poteva, non che udirlo,
vederlo.
«Leila, sì, Leila» soggiunse, sorridendo dello smarrimento di lei
che si domandava cos'avvenisse in quella mente di cui si veniva scoprendo il
più chiuso profondo.
«Sì, papà» diss'ella. «Ma ora non si stanchi più, si ritiri,
riposi.»
Non sapeva trovare parole adatte a persuaderlo, temeva di parere
indifferente alla sua tenerezza, temeva di parere sgomentata dalle sue parole
nuove. E quella sera sentiva uno strano bisogno di stringersi spiritualmente al
padre di Andrea come a un difensore, a un rifugio. Egli si alzò dal piano ma
non accennò a ritirarsi, non prese la lucerna. Invitò Lelia, corrugando la
fronte come soleva per ogni comunicazione grave, a uscire con lui sul
terrazzino che corre lungo la fronte del salone. Lelia non osò resistere, lo
seguì, palpitante. Certo il signor Marcello voleva parlare del povero Andrea. E
Teresina, che stava lassù in vedetta, che poteva scendere male a proposito!
Malgrado la poca speranza di esser veduta, Lelia si voltò a gittarle un gran
gesto rapido, un silenzioso «via!» e raggiunse Marcello alla balaustrata del
terrazzino.
«Piove» diss'ella, tentando ancora sottrarsi.
Il nebbione fasciava le scogliere del Barco e del Caviogio, un
venticello umido tirava da Val di Posina; ma non pioveva.
«No» fece Marcello, «vieni.»
Voleva infatti parlarle poichè ell'era discesa, quasi
provvidenzialmente, alla sua musica; ma non trovava la via di cominciare.
«Se mai» disse alfine «tu desiderassi disfare quelle scogliere
artificiali, che ti dispiacciono, a fianco del ponte e lungo la Riderella, disfà pure
senza scrupoli. Forse le avrei disfatte anch'io, ma, dopo... non mi sono più
curato di niente.»
Anche la paroletta «dopo», tanto piena di sventura e di anni
amari, fu pronunciata placidamente.
Lelia comprese lo scopo intimo del discorso, n'ebbe un brivido,
esclamò:
«Io?»
E non soggiunse altro per non provocare parole che non desiderava
udire. Questo sospetto che il signor Marcello la volesse sua erede, le stava
confitto nella mente da molto tempo, come uno spino avvelenato. Sapeva che i
domestici, i dipendenti, il paese, tutti n'erano persuasi, perchè parenti
stretti del signor Marcello non si conoscevano ed ella era considerata come una
sua figliuola di adozione, benchè non fossero intervenuti nè potessero
intervenire atti legali. Ora ella era ferma di non volere le sostanze, non
grandi ma ragguardevoli, di casa Trento. Se suo padre l'avesse venduta, non si
venderebbe lei! Aveva inteso donarsi ai genitori di Andrea in memoria di lui.
Averne gratitudine, sì; altri compensi, no. Possibile che il signor Marcello
non avesse qualche parente lontano? Egli era molto benefico. Se non aveva
parenti, poteva lasciare il suo ai poveri. Le piaceva giustificare a se stessa
il proprio sentimento con quella prima ragione; in fatto le faceva orrore anche
l'idea di venire giudicata un'astuta lusingatrice, una cacciatrice di eredità.
Altro motivo di temerla, questa eredità: se alla morte del signor Marcello si
trovasse un testamento a suo favore, se fosse costretta a un rifiuto, quale
disgustosa lotta con suo padre! Egli simulava miseria con lei; le scriveva
spesso lettere ignobili, chiedendo denaro. Ne aveva ricevuta una quella sera
stessa. Lo vedeva già piombare, se il signor Marcello morisse, alla Montanina,
infettarla colla sua presenza, aggrapparvisi. Confidava nella propria energia,
non aveva paura di suo padre; ma ribrezzo sì.
Tutto questo sentì e pensò esclamando «io?». Marcello le prese una
mano, gliela strinse, con intenzione che le dita parlassero.
«Sì, cara» diss'egli, tranquillo. «Tu.»
Gli rispose un sussurro, un alito lieve lieve:
«No, papà.»
Marcello sorrise, ingannandosi sulla qualità di quel diniego.
«Sono vecchio» diss'egli «e non tanto robusto, credo. Potrei
vivere degli anni, ma il Signore potrebbe anche chiamarmi presto. Ti pare
proprio che mi debba rincrescere di partire presto, colla speranza che ho?»
Lelia, per tutta risposta, si chinò a baciar la mano che stringeva
sempre la sua.
«Dunque!» proseguì Marcello. «È naturale che si parli insieme di
certe cose. La Montanina
gli è stata cara e io ho fatto tanto perchè gli fosse cara! Sarà cara, spero,
anche a te. Volevo dirti delle scogliere. E volevo anche dirti che se ti si
offre occasione di comperare i castagni oltre la strada, devi farlo; perchè lo
potrai fare, largamente.»
Lo interruppe un appassionato gemito:
«No, papà, no, papà, non mi parli di questo!»
Marcello tacque ed ella sentì il bisogno di chiarirgli il suo
inganno:
«Non pensi a me per Sua erede! Non posso, io, essere Sua erede!»
Marcello, offeso, si turbò.
«Perchè?» diss'egli, severo.
«No, caro papà, non posso, non posso! Non parliamo più di queste
cose! Si ritiri, vada a riposare!»
«Ma perchè?» replicò Marcello. «Dimmi perchè!»
Lelia gli prese il braccio, lo supplicò di non parlarne più,
almeno quella sera.
«Ma bisogna che tu ti spieghi!» esclamò egli. Il cruccio gli saliva,
più e più scuro, nella faccia sepolcrale.
Allora Teresina, che spiava tuttavia dall'alto, udendo il padrone
alzar la voce, accese la luce nella galleria dove stava, chiamò la signorina,
disse di averla cercata in camera inutilmente. Le occorrevano certe chiavi per
l'indomani mattina, per il caffè del forestiere. Lelia si congedò timidamente,
pian piano: «papà... buona sera...» come supplicando di essere lasciata
partire. Il signor Marcello non parlò, mosse lento, curvo, verso il piano,
prese la lucerna, se ne andò spenzolandola, senza saluti.
Chiuso dietro a sè l'uscio della sua camera, posata la lucerna sul
tavolino da notte, si svestì adagio, pieno di malcontento come uno che
avviandosi stanco, assonnato, al letto del suo riposo, lo veda tanto sossopra
da dovere spender fatica e tempo a rifarlo. I muscoli della faccia sepolcrale
si contrassero in un afflusso di pensiero iroso e duro. Dubitava di aver letto
nel cuore di Lelia le ragioni della ripulsa che l'offendeva. Lelia non voleva
essere sua erede perchè non si sentiva la forza di tener lontani i suoi
genitori e capiva che la loro presenza alla Montanina sarebbe stata una offesa
mortale alla memoria di lui. Gli bastava di pensare a quei due per intorbidarsi
nell'anima e nel viso. La fantasia glieli mostrò un momento trionfanti,
spadroneggianti nella sua casa. Oh questo no, mai. Benedetta ragazza che non
aveva saputo aspettare! Era bene a quel punto lì ch'egli voleva condurre il
discorso. Si era stillato il cervello per trovare un modo decente d'impedire,
con una disposizione testamentaria, che il padre e la madre della sua erede
mettessero piede alla Montanina, non lo aveva trovato. Conosceva Lelia. Lelia
non avrebbe accettato una clausola in questo senso, un obbligo espresso,
pubblico; molto meno, un obbligo sancito da una penale. Avrebbe rifiutata
l'eredità. Non c'era che parlargliene prima, ottenere una promessa. Discorso
difficile, ma insomma quello appunto cui intendeva venire. Ripigliare la
conversazione l'indomani: altro non gli restava.
Come fu a letto, incrociate le mani dietro la nuca, appoggiato il
capo alla spalliera, pensò: e se Lelia avesse in mente di prender marito, se
rifiutasse per questo? Era un caso previsto. Ne avevano discusso, egli e la sua
povera moglie.
La moglie, persona pratica, prevedeva che la fanciulla, piacente e
intelligente, sarebbe stata ricercata e che, un giorno o l'altro, avrebbe amato
ancora. Secondo lei, Marcello avrebbe dovuto limitarsi ad assegnarle una
rendita fino al giorno in cui prendesse marito. Marcello non se n'era persuaso.
Si compiacque, da poeta, della bellezza ideale di un sacrificio al quale
associava l'anima del figliuol suo, sciolta da legami terreni, amorosa tuttavia
certo, ma di affetti sovrumani, puri di egoismo, non d'altro desiderosi e paghi
che di saper felici le creature amate. Volle che Lelia avesse la ricchezza
offertale dal povero Andrea. Gli era dolce d'immaginarla fedele ad Andrea;
desiderò che, anche cedendo a un altro amore, avesse a benedire la memoria del
primo, la desiderò felice e non le prescrisse, nell'istituirla erede,
condizione alcuna. Gli conveniva ora di parlare, di farle conoscere il suo
sentimento?
Sospirò all'idea che se la morte fosse venuta quella notte, la sua
casa sarebbe caduta nelle mani del sior Momi Camin, il padre di Lelia, oppure,
ove Lelia non accettasse l'eredità, nelle mani di un suo giovine cugino in
terzo grado, rovinatosi col giuoco e colle donne. Il pensiero che le camere di
sua moglie e di suo figlio fossero un giorno abitate così, gli fu come una
punta, nel cuore, di dolor sordo. Pensa e pensa, questa stessa molesta
inquietudine, gli fece comprendere ch'era più attaccato alla vita, alle cose
della Terra, di quanto avesse creduto poche ore prima. Se ne rimproverò, meditò
le parole che il suo avo, edificatore della Montanina, scrisse sulla meridiana
della villa: «Terrestres horae, fugiens umbra». Fece proposito di andarsi a
confessare, l'indomani mattina, a Lago di Velo, e, preso il suo caro piccolo
Kempis che si teneva sempre sul tavolino da notte, vi lesse con intensa
compunzione il capitolo cinquantesimo secondo del Libro Terzo. Nel prendere lo
spegnitoio pendente da una catenella della lucerna, pensò che suo padre era
stato colto dalla morte prima di spegnere e rimase un momento colla mano
sospesa in aria, senza saper perchè. Sorrise di se stesso, spense, guardò un
poco nel chiaror fosco della grande finestra il monte imminente, così pieno di
quella indifferenza che riposa, si distese sotto le coltri e aspettò il sonno
colle braccia incrociate sul petto, come un bambino.
IV
Rientrato in
camera, Massimo disfece buona parte delle sue valigie, mentre, nel primo
malcontento di non poter venire ospitato da don Aurelio, si era proposto di
levarne il puro necessario per la notte. Ora gli rimordeva di quel malumore egoistico,
tanto lo aveva commosso l'affetto del signor Marcello, il gentile affetto
presente anche lì, nella cameretta stata cara al povero Andrea, nei mesti
ricordi del passato, nella rosa bianca, disposta a piegare sopra il reciso
fiore di quel passato la sua morente bellezza. Spense la luce, si affacciò alla
finestra, e, appoggiati i gomiti al davanzale, guardò le nubi dove il signor
Marcello aveva letto parole di stelle. Sotto quelle nubi il sopracciglio,
appena curvo, del Torraro tagliava lo sfondo aperto fra i due grandi profili
neri della Priaforà e del Caviogio, discendenti con maestà l'uno incontro
all'altro, simili a manti di giganteschi sovrani. Era una scena di pace
pensosa, rispondente alla sete dell'anima sua.
Oh sì, che gran ristoro aver lasciato Milano almeno per qualche
settimana, aver lasciato il tanfo e la viltà delle plebi libere pensatrici, che
lo vituperavano come un debole perchè professava fedeltà militare alle leggi
della Chiesa, aver lasciato il tanfo e la viltà delle plebi farisee, che lo
vituperavano come un eretico perchè pensava, parlava, scriveva da uomo del suo
tempo! Che gran ristoro aver lasciato una società oziosa che pretendeva
imporgli una parte qualsiasi nella sua eterna commedia, che gli faceva sentire,
ora con sorrisi, ora con lodi sarcastiche, ora con noncuranze, il proprio
disprezzo per un giovine schivo del piacere da lei discretamente offerto e
protetto come lo scopo, non sempre confessabile ma unico, in fatto, della vita!
Oh dimenticare, almeno per qualche giorno, le lotte del pensiero, faticose,
ingloriose, combattute spesso col tragico sforzo di nascondere le eclissi della
speranza e anche, non tanto di rado, quelle della fede! Gli si riaccese
nell'anima la vampa di una tentazione soffocata più volte, giammai spenta: la
tentazione di ritrarsi dal campo di azione religiosa dov'era entrato col suo
morto Maestro di Roma, dove si era spinto alquanto più avanti, insieme ad
altri, di quel Maestro, dove non aveva riportato che ferite, disinganni,
umiliazioni per servire una causa forse perduta fin dal principio, una
religione condannata forse, fatalmente, a perire; per servirla contro farisei e
contro liberi pensatori. Perchè non lasciarli a sbrigarsela fra loro, perchè
non vivere per tanta bellezza ch'è nel mondo e nella vita, per l'amore e per la
gioia, per il piacere squisito, armonico nei suoi elementi di intelletto, di
cuore e di senso?
Erano una forma di sfogo amaro, questi pensieri; non una
tentazione vera e propria. L'attitudine pubblicamente presa nelle questioni filosofico-religiose
con saggi di riviste, conferenze, articoli di polemica, gli aveva composto una
figura morale che, se gli era sostegno e decoro, anche gli era carcere, in
certi momenti. Lo sapeva e, pensandolo, si alzava già dal davanzale della
finestra per rompere il corso delle immaginazioni vane, quando udì voci dalla
strada che, sbucando da un folto di castagni, scende lungo la rete di cinta
della Montanina. Gli parve distinguere la voce di don Aurelio e una voce di
donna. I due parlavano forte a un terzo, entrato nel recinto. Pareva che gli
dessero degli ordini. Infatti un individuo comparve sul ponte della Riderella.
Nei lievi chiarori stellari che ora rompevano le nuvole Massimo credette
discernere, oltre il ponte, due figure ferme, una nera e l'altra bianca.
Quell'individuo avanzò dal ponte, si arrestò, perplesso, a guardare la villa,
ne fece il giro, s'indugiò un poco dalla parte della cucina, ricomparve; si
allontanò verso il ponte e Massimo lo intese dir forte che dormivano tutti.
Allora i due si ritirarono verso il cancello. Poi Massimo credette vedere sulla
strada, fra il gruppo di betulle che fiancheggia il cancello e il gruppo, più
in basso; di pioppi, la figura bianca coll'individuo stesso che aveva fatto il
giro della villa.
Don Aurelio, se era lui, doveva essere risalito verso Lago. Il
giovine suppose che la signora fosse una tale Vayla di Brea, della quale don
Aurelio gli parlava nelle sue lettere come di una donna singolare per ingegno e
nobiltà di animo. Tutto ritornò nel silenzio.
Ecco, dall'interno della villa, la voce di un piano; almeno
pareva. Massimo aperse cautamente l'uscio, stette in ascolto. Sì, un piano, un
cattivo strumento. Chi suonava? Il signor Marcello no; il signor Marcello era
andato a letto. Il povero Andrea gli aveva parlato con ammirazione del talento
pianistico della sua Lelia. Gli parve di conoscere il pezzo lamentoso e
appassionato; ma poi vi si smarrì. Un momento era lo Stabat del
Pergolese, un momento era altra cosa. Uscì pian piano nel corridoio, per udir
meglio. Il suono veniva dal basso e da sinistra, certo dal salone, dove Massimo
aveva veduto un piano. Che strano suonare, che potenza espressiva di tocco, che
passione e che disordine!
Un'improvvisazione, senza dubbio. Quale anima di fuoco,
l'improvvisatrice, se proprio fosse la signorina Lelia! Massimo si rivide in
mente la piccola testa enigmatica dai capelli scomposti, dagli occhi raccolti
in basso. Quella musica non diceva un'anima chiusa nel dolore, un'anima che
nulla più attendesse dalla vita; diceva dolore, sì, ma sete, anche, di amore e
di gioia. Una sosta della musica; passi e bisbigli vicini al corridoio dov'era
Massimo, che si ritirò fino al suo uscio; musica daccapo. Accenti gravi e soavi
di lamento, stavolta, e di preghiera. E passione, quindi, ancora passione
tenera, ardente. Ah, Norma!
Vieni, dicea, concedi
C'io mi prostri ai piedi...
Dio, pareva una confessione, questa musica! Perchè quello che
seguì non era più Norma, era fantasia. Dunque la suonatrice aveva voluto
esprimere con le note divine un sentimento suo proprio. Ma come, ma perchè
questo sfogo musicale nel cuore della notte? Ripensò il bel viso di Sfinge, le
palpebre calate come veli sopra un mistero. Ma era veramente lei, la
suonatrice? Da un lato gli pareva troppo strano che fosse lei, da un altro lato
la qualità della musica e l'ora rispondevano appunto alla stranezza del piccolo
viso. E se non era lei, chi poteva essere? Forse una sua damigella di
compagnia, di cui Massimo ignorava la esistenza. O un ospite che non si era
lasciato vedere. Oh ma era lei, era una creatura dolorosamente avida di amare
ancora e di essere amata, che amava già, forse.
La musica tacque ed egli si ritirò in camera, chiuse l'uscio,
ritornò alla finestra, immaginò quasi automaticamente, un amore di fuoco,
l'oblio del mondo fra quel tacito dramma di montagne atteggiate quasi a
fronteggiarsi con passione e sfida. Si scosse, mise un sospiro, chiuse la
finestra, si rimproverò il vano fantasticare. Guardò lungamente la fotografia
di Andrea. Era bello e gaio nel volto, il povero giovinetto, come un raggio di
sole. E quanto gli aveva voluto bene! Sentì un dolente desiderio, senza sapere
perchè, di giunger le mani e di piegar il viso davanti a quella fronte serena.
Coricatosi, si figurò di non poter dormire, causa la musica. Invece il sonno lo
prese abbastanza presto. Chi non chiuse occhio per tutta la notte fu Lelia.
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