Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Antonio Fogazzaro
Il santo

IntraText CT - Lettura del testo

      • 7. Nel turbine del mondo.
        • -3-
Precedente - Successivo

Clicca qui per attivare i link alle concordanze

-3-

 

La camera, al quarto piano, era appena decente. Un letto di ferro, un tavolino da notte, uno scrittoio con pochi libri logori e sfasciati, un cassettone di abete, un lavamani di ferro, qualche sedia impagliata, n’erano tutto il mobiglio. Un abito grigio pendeva da un chiodo, un cappello nero a cencio da un altro. Un baglior frequente di lampi entrava dalla finestra aperta, entravano soffî della buia notte burrascosa, facevano oscillare la fiammella della lampada a petrolio che ardeva sul tavolino da notte, oscillare il lume e le ombre sulle lenzuola non tanto bianche, su due mani scarne, sur un fascio di rose sciolto fra le due mani, sulla camicia di flanella dell’uomo infermo che si era tratto su a sedere, sul suo viso rugoso, magro, grigiastro di barba d’un mese. Dall’altra parte del letto povero, nella penombra, stava Benedetto, in piedi. L’uomo infermo guardava i fiori e taceva. Le sue mani, anche le sue labbra, tremavano.

Egli era stato frate. A trent’anni aveva gettato la cocolla e preso moglie. Uomo di poco ingegno e di pochi studî, era vissuto miseramente colla moglie e con due figliuole, facendo lo scrivano. La moglie era morta, le figliuole si erano date alla mala vita. Si spegneva lentamente anche lui, adesso, in quel quarto piano di via della Marmorata, presso all’angolo di via Manuzio, consunto dalla miseria, dalla tabe, dall’animo amaro.

Un singhiozzo irrefrenabile gli ruppe dal petto. Allargò le braccia, raccolse e strinse a sé il capo di Benedetto e subito fece atto di respingerlo, si coperse il viso colle mani.

«Non son degno, non son degno!» diss’egli.

Ma Benedetto gli abbracciò alla sua volta il capo, glielo baciò, rispose:

«Neppur io son degno di questa grazia che mi fa il Signore.»

«Quale grazia?» chiese l’infermo.

«Che Lei pianga con me!»

Così dicendo, Benedetto si levò dall’abbraccio; e durava a fissare affettuosamente il vecchio. Questi lo guardò attonito, come per dire: «voi sapete?» Egli accennò del capo lievemente, silenziosamente, di sì.

Colui non sospettava che il suo passato fosse conosciuto. Abitava lì da tre anni. Una vicina più vecchia di lui, una povera gobbina caritatevole e pia, gli rendeva dei servigi, lo assisteva nelle sue infermità, trovava modo di soccorrerlo con le due lire giornaliere di pensione ch’erano tutta la sua sostanza. Aveva saputo dai portinai ch’egli era un frate sfratato, lo vedeva tanto triste, tanto umile, tanto riconoscente, pregava sera e mattina la Madonna e tutti i Santi del Paradiso che le facessero la grazia di aiutarla presso Gesù che gli perdonasse e lo facesse ritornare in grembo alla Chiesa. Raccontava le sue pene e le sue speranze ad altre vecchiette pie, diceva:

«Non oso pregarlo io, Gesù; quel disgraziato gliel’ha fatta troppo grossa. Ci vuole anche un pezzo grosso che preghi.»

Quel giorno il vecchio le era andato dicendo più volte che sarebbe stato felice di avere delle rose. Allora la gobbina aveva pensato:

«C’è l’uomo santo di cui tutti parlano, che fa il giardiniere. Io vado, gli racconto la cosa, gli dico che le rose gliele porti lui e chi sa cosa ne può venire!»

Aveva pensato così e subito si era detto:

«Questo pensiero, se non mi viene dalla Madonna, mi viene di sicuro da Sant’Antonio!»

Allora il semplice suo cuore puro aveva dato un’ondata di dolcezza e di letizia. Senza por tempo in mezzo ella era andata a villa Mayda, alla elegante villa pompeiana biancheggiante sull’Aventino fra belle palme, quasi in faccia alla finestra del vecchio ex-frate. Benedetto stava per coricarsi in obbedienza al professore che gli aveva trovato la febbre, la piccola frodolenta febbre che di tempo in tempo lo rodeva da qualche settimana senz’altre sofferenze. Udito di che si trattava, era venuto subito colle rose.

 

 

Il vecchio si coperse ancora il viso, vergognando. Poi, senza più guardare Benedetto, parlò delle rose, spiegò il perché del suo desiderio. Era figlio di un giardiniere, avrebbe voluto fare il giardiniere anche lui ma gli piaceva di frequentare le chiese e i suoi trastulli erano tutti di cose sacre: altarini, candelabri, busti di vescovi mitrati. I padroni, gente religiosissima, avevano lasciato intendere ai suoi genitori che se gli si fosse manifestata la vocazione ecclesiastica, lo avrebbero fatto educare a proprie spese; e i genitori lo avevano destinato senz’altro a quella via. Egli si era accorto ben presto di non avere forze bastanti a tener le promesse sacerdotali; ma neppure gli bastò l’animo di prendere una risoluzione che avrebbe afflitto i suoi mortalmente. Invece si figurò che se uscisse del tutto dal mondo potrebbe forse andar salvo, e seguendo imprudenti consigli entrò là ond’ebbe poi a venir fuori male, si fece di quella frateria della quale soleva dire più tardi, questo non lo raccontò, scherzando copertamente cogli amici: «quando stavo al reggimento.» Ragazzo, aveva amato i fiori; dall’entrata nel Seminario in poi non ci aveva pensato più, mai più, per quarant’anni. La notte prima della visita di Benedetto aveva sognato un gran rosaio del giardino dov’era trascorsa la sua fanciullezza. Le bianche rose piegavano tutte a lui, lo guardavano, nel mondo dei sogni, come curiose anime pie un pellegrino nel mondo delle ombre. Gli dicevano: «dove vai, dove vai, povero amico, perché non ritorni a noi?» Destatosi, aveva sentito un desiderio di rose, tenero, pungente fino alle lagrime. E quante rose adesso sul suo letto, per la bontà di una persona santa, quante belle, odoranti rose! Tacque e fissava Benedetto a bocca semiaperta, lucenti gli occhi di una domanda dolorosa: tu sai, tu comprendi; cosa pensi di me? Pensi che vi sia speranza di perdono?

Benedetto, curvo sull’ammalato, prese a parlargli accarezzandolo. La vena delle parole soavi fluiva fluiva con un suono vario di tenerezza ora lieta ora dolente. Ora il vecchio ne pareva beato, ora usciva in domande affannose; subito allora la fluida vena soave gli ristorava beatitudine in viso. Intanto la gobbina andava e veniva col rosario in mano dalla sua camera all’uscio del vicino, divisa fra il desiderio di precipitare le avemarie in quel momento decisivo e il desiderio di udire se là dentro parlassero, cosa dicessero.

Ma giù nella strada si era venuta raccogliendo, malgrado il cattivo tempo, della gente che aspettava il Santo di Jenne. Una merciaia lo aveva veduto entrare colle rose in mano, accompagnato dalla gobbina. In un batter d’occhio si erano aggruppate davanti alla porta forse cinquanta persone, donne la maggior parte, quali per vederlo, quali per avere un sua parola. Aspettavano pazientemente, parlando piano, come se fossero in chiesa, di Benedetto, dei miracoli che faceva, delle grazie che avrebbero implorate da lui. Sopraggiunse un ciclista, scese dalla bicicletta, domandò il perché di quell’assembramento, si fece informare appuntino del luogo dove stava il Santo di Jenne e risalito in macchina ripartì di gran corsa. Poco dopo, una botte seguita dal ciclista di prima venne a fermarsi davanti alla porta. Ne discese un signore che attraversò l’assembramento ed entrò in casa. Il ciclista rimase presso la botte. L’altro parlò col portinaio, si fece accompagnare da lui fino all’uscio dove la gobbina stava col suo rosario in mano, palpitante. Bussò malgrado le tacite giaculatorie di lei che implorava la Madonna di allontanare quell’importuno. Benedetto venne ad aprire.

«Scusi» disse colui, cortesemente. «Lei è il signor Pietro Maironi?»

«Non porto più questo nome» rispose Benedetto, tranquillo «ma l’ho portato.»

«Mi rincresce d’incomodarla. Le sarei grato se si compiacesse di venire con me. Le dirò poi dove.»

L’infermo udì queste parole dello sconosciuto e gemette:

«No, sant’uomo, non andate via per amor di Dio!»

Benedetto rispose:

«Favorisca dirmi il Suo nome e perché dovrei venire con Lei.»

L’altro parve imbarazzato.

«Ecco» disse. «Sono un delegato di P. S.»

L’infermo esclamò: «Gesummaria!» e la gobbina, esterrefatta, lasciò cadere il rosario, guardò Benedetto che non poté trattenere un atto di sorpresa.

Il delegato si affrettò a soggiungere, sorridendo, che la sua visita non aveva un significato troppo pauroso, ch’egli non era venuto ad arrestare nessuno, che non aveva a comunicare ordini, ma solamente un invito.

Siccome gl’inviti della Questura hanno un carattere speciale, Benedetto non pensò a scusarsi, domandò di restar solo con l’infermo e con la donna per cinque minuti, sussurrò qualche cosa all’orecchio del primo che parve assentire con lagrime nella voce, prese la gobbina a parte, le disse che l’infermo era disposto a ricevere un sacerdote, ch’egli ora non sapeva quando sarebbe stato libero di condurgliene uno egli stesso. La povera piccola creatura tremava tutta fra lo sgomento e la gioia, non sapeva dire che «Gesù mio! Madonna mia!» Benedetto la rincorò, promise di ritornare appena lo potesse e, preso congedo, discese le scale col delegato.

Nella via il gruppo di gente si era fatto più grosso e rumoreggiava, stringeva minacciosamente il ciclista rimasto presso la botte, ch’era stato riconosciuto per una guardia di P. S. e non voleva dire perché fosse prima venuto a informarsi e poi ritornato con l’altro individuo. Si voleva forzare il fiaccheraio ad andarsene, si parlava di staccare il cavallo. Quando apparve il delegato con Benedetto, gli si fecero tutti addosso gridando: – Via, birro! – Via! – Abbasso! – Lasciate quell’uomo! Badate ai ladri, per Dio! Voi pigliate i servi di Dio e lasciate i ladri! – Via! – Abbasso! – Benedetto si fece avanti, accennò, a due mani, di tacere, pregò e ripregò che se n’andassero in pace poiché nessuno gli voleva far male, egli non era arrestato, se n’andava con quel signore di sua libera volontà. Nello stesso momento scrosciò un tuono in cielo, un impeto di acquazzone sul marciapiede. La folla balenò, si disperse rapidamente. Il delegato diede un ordine al ciclista e salì nella botte con Benedetto.

Partirono verso il Tevere, fra i tuoni, i lampi e la pioggia furiosa. Benedetto domandò al delegato, molto quietamente, che si volesse da lui alla Questura. Il delegato rispose che non si trattava di Questura. Chi voleva parlare al signor Maironi era un pezzo più grosso del questore.

«Non so se avrei dovuto dirlo» soggiunse «ma già glielo dirà lui.»

E raccontò che lo aveva cercato inutilmente a villa Mayda, disse quanto gli sarebbe seccato di non trovarlo presto. Benedetto si provò a domandargli se sapesse la cagione della chiamata. Realmente il delegato non la sapeva, ma finse un silenzio diplomatico, si rannicchiò nel suo angolo come per salvarsi dalle folate di pioggia. Un lampo mostrò a Benedetto il fiume giallastro, i neri barconi di Ripagrande; un altro il tempio di Vesta. Poi non si raccapezzò più affatto, gli parve di attraversare una sconosciuta necropoli, un dedalo di vie funeree dove ardessero lampade sepolcrali. Finalmente la carrozzella entrò con fracasso in un atrio, si fermò al piede di uno scalone scuro, fiancheggiato di colonne. Benedetto lo salì col delegato fino al secondo ripiano sul quale si aprivano due porte. Quella di sinistra era chiusa, quella di destra guardava sullo scalone per un occhio ovale lucente. Il delegato la spinse, entrò con Benedetto in un bugigattolo, in una specie di anticamera. Un usciere che dormicchiava si alzò stentatamente. Il delegato lasciò Benedetto e passò in un’altra stanza. Allora l’usciere si chinò come per raccogliere qualche cosa e disse a Benedetto porgendogli una lettera chiusa:

«Guardi che Le è caduta una carta.»

Perché Benedetto si meravigliava, insistette:

«Lei è bene quello del Testaccio? Veda che sarà Sua, faccia presto!»

Faccia presto? Benedetto guardò l’uomo che si era rimesso a sedere. Quegli lo guardò alla su volta e confermò il suo consiglio con uno scatto secco del capo che significava: tu sospetti che ci sia sotto qualche cosa e realmente c’è.

Benedetto guardò la busta. Vi si leggeva questo indirizzo:

 

«Al garzone giardiniere di villa Mayda»

 

E sotto, a caratteri più grandi:

 

                                   «SUBITO»

 

La scrittura era femminile ma Benedetto non la riconobbe. Aperse e lesse:

«Sappia che il Direttore generale della Pubblica Sicurezza farà il possibile per indurla a lasciare volontariamente Roma. Rifiuti. Quello che segue lo potrà leggere a Suo agio.»

Benedetto ripose frettolosamente la lettera. Ma poiché nessuno compariva e tutto pareva dormire intorno a lui, la cavò, riprese a leggerla. Seguiva così:

«In Vaticano si è poco contenti, dopo le sue visite, del Santo Padre, il quale, fra l’altre cose, ha richiamato a sé l’affare Selva dalla Congregazione dell’Indice. Ella non può immaginare gl’intrighi che si tramano contro di Lei, le calunnie che si fanno arrivare anche ai Suoi amici, tutto per lo scopo di allontanarla da Roma, di impedire ch’Ella veda più il Pontefice. Si è ottenuto che il Governo aiuti la congiura promettendogli in compenso di non mandare ad effetto certa nomina di persona molto sgradita al Quirinale, per la sede arcivescovile di Torino. Non ceda, non abbandoni il Santo Padre e la Sua missione. La minaccia per l’affare di Jenne non è seria, sarebbe impossibile di procedere contro di Lei e lo sanno. Chi non Le può scrivere ha saputo tutto questo, lo ha fatto scrivere a me, lo farà pervenire a Lei.

                                                                                                          NOEMI D’ARXEL.

 

Benedetto guardò involontariamente l’usciere, quasi dubitando ch’egli conoscesse il senso di quella lettera passata per le sue mani. Ma l’usciere dormicchiava da capo e non si scosse che al ricomparire del delegato, il quale gli ordinò di accompagnare Benedetto dal signor commendatore.

Benedetto fu introdotto in una stanza spaziosa, tutta buia fuorché nell’angolo dove un signore sui cinquant’anni stava leggendo la Tribuna nel chiarore di una lampada elettrica, vivo sul suo cranio calvo, sul giornale, sul tavolo coperto di carte. Sopra di lui, nella penombra, si intravvedeva un grande ritratto del Re.

Egli non levò dal giornale il capo grave di conscio potere. Lo levò quando gli piacque e guardò con occhi noncuranti l’atomo di popolo che aveva davanti a sé.

«Prenda una sedia» diss’egli, gelido.

Benedetto ubbidì.

«Lei è il signor Pietro Maironi?»

«Sì signore.»

«Mi rincresce di averla incomodata ma era necessario.»

Sotto le parole cortesi del signor commendatore si sentiva un fondo di durezza e di sarcasmo.

«A proposito» diss’egli. «Perché non si fa chiamare col Suo nome, Lei?»

Alla improvvisa domanda Benedetto non rispose immediatamente.

«Bene bene» ripigliò colui. «Questo adesso importa poco. Qui non siamo in Tribunale. Io penso che se si vuole fare il bene si deve farlo col proprio nome. Ma io non vado in chiesa, ho idee diverse dalle Sue. Non importa, dico. Lei sa chi sono io? Il delegato gliel’ha detto?»

«No signore.»

«Bene, sono un funzionario dello Stato che s’interessa un poco della sicurezza pubblica e che ha un certo potere; sì, un certo potere. Ora io voglio dimostrarle che ho interesse anche per Lei. Lei, mi dispiace il dirlo, è in una situazione critica, mio caro signor Maironi o signor Benedetto, a Sua scelta. È pervenuta all’Autorità giudiziaria un’accusa contro di Lei, veramente grave; e io vedo molto in pericolo non soltanto la Sua fama di santità ma pure la Sua libertà personale e quindi la Sua predicazione almeno per qualche anno.»

Una fiamma salì al viso di Benedetto, i suoi occhi scintillarono.

«Lasci la santità e la fama» diss’egli.

L’augusto funzionario dello Stato riprese senza scomporsi:

«Lei si sente ferito. Badi, sa, che la Sua fama di santità corre altri pericoli. Altre cose si dicono di Lei che non hanno a che fare, per questo stia tranquillo, col codice penale ma che non si accordano molto colla morale cattolica; e Le assicuro che sono abbastanza credute. Dico per dire; son cose che non mi riguardano affatto. Del resto la santità non è mai reale, è sempre, più o meno, una idealizzazione che lo specchio fa della immagine. Se c’è una santità è quella dello specchio, è quella della gente che crede ai Santi. Io non ci credo. Ma veniamo al serio. Le ho dovuto dire delle cose sgradevoli, La ho anche ferita; ora medicherò. Io non sono credente ma però apprezzo il principio religioso come elemento di ordine pubblico, e questo è poi il sentimento dei miei superiori, è il sentimento del Governo. Perciò il Governo non può aver piacere che si faccia un processo scandaloso a qualcuno che presso il popolo passa per santo; un processo che potrebbe poi anche provocare dei disordini. Ma c’è di più! Noi sappiamo che Lei è persona gradita al Papa il quale La vede spesso. Ora in alto non si ha nessuna voglia di recare dispiaceri personali al Papa. Si ha dunque la buona intenzione di evitargli questo, se possibile. E sarà possibile a una condizione. Qui in Roma Lei ha dei nemici attivi, non di parte nostra, sa! non di parte liberale!, che si preparano a rovinarla interamente; nella riputazione e in tutto. Se vuole che Le apra il mio pensiero, il mio pensiero è questo: dal punto di vista cattolico hanno ragione. Io modifico un poco, per mio uso e per loro uso, il motto famoso dei Gesuiti: «aut sint ut sunt» dico io «aut non erunt.» Mi riferiscono che Lei è un cattolico largo. Ciò significa semplicemente che lei non è cattolico. Tiriamo via. I Suoi nemici L’hanno denunciata al Procuratore del Re. Per verità noi dovremmo far arrestare dai carabinieri il signor Pietro Maironi condannato in contumacia dalla Corte d’Assise di Brescia per mancato servizio di giurato; ma questa è una bazzecola. Lei si figura di avere guarito della gente a Jenne ed è accusato non solamente di esercizio illegale della medicina ma persino di aver avvelenato un paziente, niente meno! Ora noi abbiamo i mezzi di salvarla. Noi faremo in modo che la denuncia si ponga a dormire. Ma se Lei resta in Roma i Suoi nemici di Roma faranno un rumore così grande che non ci potremo fingere sordi. Bisogna che Lei se ne vada lontano; e subito! Meglio se va fuori d’Italia. Vada in Francia, dove c’è carestia di santità. O almeno… non ci ha una casa, Lei, sul lago di Lugano? Adesso vi sono delle suore, vero? Suore e Santi stanno benissimo insieme. Vada colle suore e lasci passare la burrasca.»

Il commendatore parlava serio serio, lento lento, coprendo lo scherno di flemma più insolente.

Benedetto si alzò in piedi, risoluto e severo.

«Io stavo» rispose «presso un infermo che aveva bisogno della medicina illegale mia. Mi si poteva lasciare al mio posto. Lei e il Governo sono i peggiori miei nemici se mi offrono di fuggire la giustizia. Lei faccia il Suo dovere di mandare i carabinieri ad arrestarmi per il mancato servizio di giurato. Io proverò poi che non potei ricevere la citazione. Il signor procuratore del Re faccia il dovere Suo di procedere contro di me per la denuncia di Jenne; mi si troverà sempre a villa Mayda. Lo dica ai Suoi superiori. Dica loro che non mi moverò da Roma, che temo un Giudice solo e ch’essi pure lo temano nel loro doppio cuore, perché Egli sarà più terribile al doppio cuore che alla violenza sincera!»

Il commendatore, impreparato a quel colpo, livido di veleno impotente, prorompeva già in parole di collera quando si udì il rumor sordo di una carrozza ch’entrava nell’atrio. Levò allora lo sguardo da Benedetto, stette in ascolto. Benedetto afferrò la spalliera della sua seggiola per levarsi quell’impaccio a voltar le spalle. L’altro si scosse, riacceso negli occhi dall’ira un momento sopita; gettò il giornale che aveva sempre tenuto in mano, batté il pugno sul tavolo, esclamando:

«Che fa? Non si muova!»

I due uomini si fissarono per alcuni secondi in silenzio, uno con autorità maestosa, l’altro bieco. Poi questi riprese, veemente:

«Debbo farla arrestare qui?»

Benedetto durò a fissarlo in silenzio. Quindi rispose:

«Aspetto. Faccia.»

Un usciere, che aveva bussato più volte inutilmente, comparve sulla soglia, s’inchinò al commendatore senza dir parola. Il commendatore disse subito «vengo» e alzatosi frettolosamente uscì con una faccia strana dove la collera spariva e spuntava l’ossequio.

L’usciere rientrò immediatamente, disse a Benedetto che aspettasse.

Passò un quarto d’ora. Benedetto, tutto fremente, con il cuore in tumulto e la testa in fiamme, eccitato e spossato dalla febbre, era ricaduto sulla sua seggiola, turbinandogli dentro alla rinfusa i più diversi pensieri. – Dio gli perdoni a quest’uomo! – A tutti! – Che gioia se il Pontefice non permette la condanna di Selva! – La persona che non mi può scrivere, come sa? – E adesso perché mi fanno aspettare? – Cosa vogliono ancora da me? – Oh, con questa febbre, se non avessi a esser più padrone dei miei pensieri, delle mie parole! – Che terrore! – Dio, Dio, non lo permettete! – Ma che orride viltà sono nel mondo, che vergogna di fornicazioni occulte fra questa gente della Chiesa e dello Stato che si odia, che si disprezza! Come, come lo permetti, Signore? – Nessuno viene ancora! – La febbre! – Dio, Dio, fa che io resti padrone dei miei pensieri, delle mie parole. Dio Verità, il tuo servo è in potere de’ suoi nemici congiurati, fa ch’egli Ti glorifichi anche nel fuoco ardente! – Quelle due persone pensano a me, adesso. Io non devo pensare a loro! – Esse non dormono, pensano a me. – Non sono ingrato, non sono ingrato, ma non devo pensare a loro! – Penserò a te, vecchio santo del Vaticano, che dormi e non sai! – Ah quella scaletta non la farò più, quel dolce viso pieno di Spirito Santo non lo vedrò più! – Però, Dio sia lodato, non lo avrò visto invano. – Ma cosa faccio qui? – Perché non me ne vado? – Potrò poi andare? – Questa febbre!

Si alzò, cercò di legger l’ora sur un occhio tondo di orologio biancheggiante nell’ombra. Mancavano cinque minuti alle undici. Fuori, il temporale continuava. La potenza degli elementi furibondi e la potenza del tempo che spingeva la piccola sfera sul quadrante, parevano amiche a Benedetto nel loro prevalere indifferente sulla potenza umana che aveva sede dov’egli era e lo teneva in sua balìa. Ma la febbre, la crescente febbre! Ardeva di sete. Se almeno avesse potuto aprire una finestra, tendere la bocca all’acqua del cielo!

Un tocco di campanello elettrico, passi affrettati nell’anticamera, finalmente. Ecco il commendatore, in soprabito e cappello. Chiude l’uscio dietro a sé, raccoglie delle carte sul suo tavolo, dice a Benedetto con piglio sprezzante:

«Stia attento. Lei ha tre giorni per lasciare Roma. Ha capito?»

Non cura di aspettare risposta, preme un bottone. Entrato l’usciere, gli ordina:

«Accompagnate!»

Giunto colla sua guida sullo scalone, Benedetto, credendosi oramai libero di scendere, le chiese un po’ d’acqua.

«Acqua?» rispose l’usciere. «Non posso andarne a prendere, adesso. Sua Eccellenza aspetta. Favorisca qui.»

Lo fece entrare, con sua meraviglia, nell’ascensore.

«Anzi le Loro Eccellenze» diss’egli; e mentre l’ascensore saliva al secondo piano, venne guardando Benedetto come si guarda qualcuno cui è fatto un grande onore e che non pare meritarlo. Giunti al secondo piano, i due attraversarono una grandissima sala semioscura. Da questa sala Benedetto venne fatto passare in una stanza illuminata così riccamente ch’egli ne provò fastidio e sofferenza, ne rimase quasi acciecato.

Due uomini, seduti ai due angoli di un largo canapè, ve lo attendevano in attitudine diversa; il più giovine con le mani in tasca, una gamba a cavalcioni dell’altra, il capo rovesciato sulla spalliera; il più vecchio col busto piegato in avanti e le mani occupate in un continuo blando maneggio alterno della barba grigia. Il primo aveva una guardatura sarcastica; il secondo l’aveva scrutatrice, malinconica, buona. Questi, evidentemente il più autorevole dei due, invitò Benedetto a sedere sur una poltrona di fronte a lui.

«Non creda, sa, caro signor Maironi» diss’egli con voce armoniosa e sonora ma rispondente in qualche modo alla malinconia dello sguardo, «non creda che noi siamo qui due artigli potenti dello Stato. Noi siamo qui in questo momento due individui di una specie rara, due uomini politici geniali che conoscono bene il loro mestiere e che lo disprezzano meglio. Siamo due grandi idealisti che sanno mentire idealmente bene colla gente che altro non merita e sanno adorare la Verità; due democratici, ma però adoratori di quella Verità recondita che non è stata mai toccata dalle mani sudicie del vecchio Demos.»

Detto così, l’uomo dalla barba grigia fluente riprese a farvi scorrere su le due mani a vicenda e strinse gli occhi scintillanti di un sorriso acuto, pago delle proprie parole, cercando la sorpresa sul viso di Benedetto.

«Siamo poi anche credenti» riprese.

Allora l’altro personaggio alzò, senza levar il capo dalla spalliera, le mani distese e disse quasi solennemente:

«Piano.»

«Lascia, caro amico» ripigliò il primo senza volgersi all’amico. «Siamo ambedue credenti, però in modo diverso. Io credo in Dio con tutte le mie forze che sono molte e lo avrò sempre meco. Tu credi in Dio con tutte le tue debolezze che sono poche e non lo avrai che al tuo letto di morte.»

Altro sorriso acuto e pago, altra pausa. L’amico scosse il capo alzando le sopracciglia come per una udita corbelleria che meritasse pietà e non risposta.

«Io poi» continuò la voce sonora e armoniosa «sono anche cristiano. Non cattolico ma cristiano. Anzi, come cristiano, sono anticattolico. Il mio cuore è cristiano e il mio cervello è protestante. Io vedo con gioia nel cattolicismo i segni, non dico della decrepitezza ma della putrefazione. La carità si va disfacendo nei cuori più schiettamente cattolici in una melma oscura tutta vermi di odio. Vedo il Cattolicismo fendersi da ogni parte e vedo spuntare per le fessure la vecchia idolatria cui si è sovrapposto. Le poche energie giovani, sane, vitali, che vi si manifestano, tendono tutte a separarsene. So che Lei è appunto un cattolico radicale, ch’è amico di un uomo veramente sano e forte che si dice cattolico ma ch’è giudicato eretico, però, dai cattolici puri; e lo è certamente. Mi hanno detto che Lei è scolare di questo nobile eretico, che fa una propaganda riformatrice e che in pari tempo cerca di agire sul Pontefice. Ora un grande riformatore lo aspetto anch’io ma dev’essere un antipapa; non un antipapa nel piccolo senso storico; un antipapa nel grande senso luterano della parola. «Curiosità ci punge di sapere» come Lei creda possibile ringiovanire questo povero vecchione di Papato che noi laici precediamo non soltanto nella conquista della civiltà ma nella scienza di Dio, anche, e persino nella scienza di Cristo; che ci anfana dietro a grande distanza e ogni tanto si pianta sulla via, restio come una bestia che fiuta il macello, e poi, quando è tirato ben forte, fa un salto avanti per tornarsi a piantare fermo fino a un altro strappo di fune. Ci dica il Suo concetto di una riforma cattolica. Sentiamo.»

Benedetto rimase silenzioso.

«Parli» riprese il nume ignoto che pareva imperare in quel luogo. «Il mio amico non è Erode né io sono Pilato. Noi potremmo forse diventare due apostoli della Sua idea.»

L’amico stese ancora le due mani aperte, senza levar il capo dalla spalliera, disse ancora, però pigiando più forte sulla prima sillaba:

«Piano.»

Benedetto tacque.

«Mi pare, caro mio» disse l’amico voltando il capo, senz’alzarlo, verso il collega «che questo sarà il primo fiasco della tua eloquenza. Qui il modello del nihil respondit è preso molto sul serio.»

Benedetto trasalì, atterrito dal richiamo al Divino Maestro, dal dubbio di parerne un imitatore superbo. Cessò in quel momento di sentire il suo male, la febbre, la sete, la gravezza del capo.

«Oh no» esclamò «adesso io rispondo! Lei dice che non è Pilato. Il vero è invece che io sono l’ultimo dei servi di Cristo perché gli sono stato infedele e che Lei mi ripete proprio la domanda di Pilato: – Quid est veritas? Ora Lei non è disposto a ricevere la verità, come non vi era disposto Pilato.»

«Oh!» esclamò il suo interlocutore. «E perché?»

L’amico rise rumorosamente.

«Perché» rispose Benedetto «chi opera tenebre, le tenebre lo avvolgono e la luce non gli può arrivare. Lei opera tenebre. È facile di comprenderlo, Lei è il signor ministro dell’Interno, La conosco di fama. Lei non è nato per operare tenebre, vi è stata molta luce in certe opere Sue, vi è molta luce nella Sua anima, molta luce di verità e di bontà; ma in questo momento Lei opera tenebre. Io sono questa notte qui perché Lei ha pattuito un mercato non confessabile. Lei dice di adorare la Verità, domanda a un fratello se possiede la Verità e tace che lo ha già venduto!»

Mentre Benedetto parlava, l’amico del ministro, Eccellenza egli pure ma in sottordine, alzò finalmente il capo dalla spalliera del canapè. Parve che incominciasse soltanto allora a stimar degno di attenzione l’uomo e quello che diceva. Parve anche divertirsi della lezione toccata al principale del quale ammirava l’ingegno grandissimo ma derideva in cuor suo le velleità idealistiche. Il principale rimase, sulle prime, sbalordito; poi scattò in piedi, gridando come un ossesso:

«Siete un mentitore! Siete un insolente! Non meritate la mia bontà! Non vi ho venduto, non valete niente, vi regalerò! Andate! Andate via!»

Cercò il bottone del campanello elettrico e non trovandolo nella cecità della collera, gridò:

«Usciere! Usciere!»

Il sottosegretario di Stato, avvezzo a queste scenate ch’eran poi sempre fuochi di paglia perché il ministro aveva un cuore d’oro, se la rideva, in principio sotto i baffi. Ma quando lo udì chiamar l’usciere a quel modo, conoscendo bene le indiscrezioni degli uscieri e pensando i pettegolezzi pericolosi che potevano nascere di questo incidente, il ridicolo che ne sarebbe schizzato anche sopra di lui, trattenne risolutamente il ministro imponendogli, quasi, di chetarsi, e disse brusco a Benedetto:

«Lei se ne vada.»

Il ministro si diede a camminare per la sala, muto, a capo basso, a passi frettolosi e brevi, male vincendo in sé il bambino che avrebbe voluto battere i piedi sul posto.

Benedetto non ubbidì. Ritto e severo, radiante invisibili raggi di uno spirito dominatore, che tennero a distanza il sottosegretario di Stato, egli costrinse l’altro con questo potere magnetico a voltarsi verso di lui, a fermarsi, a guardarlo in faccia.

«Signor ministro» diss’egli «io sto per uscire non solo da questo palazzo ma credo anche, fra non molto, da questo mondo. Non La rivedrò più, mi ascolti un’ultima volta. Ella non è ora disposto alla Verità, però la Verità è alle Sue porte, e verrà l’ora, e non è lontana perché la Sua vita discende, che si farà notte sopra di Lei, sopra i Suoi poteri, i Suoi onori, le Sue ambizioni. Allora Ella udrà la Verità chiamare nella notte. Potrà rispondere – parti – e non la incontrerà più mai. Potrà rispondere – entra – e la vedrà comparire velata, spirante dolcezza dal velo. Ella non sa ora come risponderà, né io lo so, né alcuno al mondo. Si prepari colle opere buone a risponder bene. Qualunque sieno gli errori Suoi, vi è religiosità nel Suo spirito. Iddio Le ha dato molto potere nel mondo; lo adoperi per il Bene. Lei ch’è nato cattolico dice di essere protestante. Forse Lei non conosce abbastanza il Cattolicismo per comprendere che il Protestantesimo si sfascia sopra il Cristo morto e che il Cattolicismo evolve per virtù del Cristo vivente. Ma io parlo adesso all’uomo di Stato, non certo per domandargli di proteggere la Chiesa cattolica che sarebbe una sventura, ma per dirgli che se lo Stato non ha ad essere né cattolico né protestante, non gli è però lecito d’ignorare Iddio e voi osate negarlo in più di una scuola vostra, di quelle che chiamate alte, in nome della libertà della scienza che voi confondete colla libertà del pensiero e della parola perché il pensiero e la parola sono liberi di negare Iddio ma la negazione di Dio non ha né può avere carattere di scienza e voi solo la scienza dovete insegnare. Voi conoscete bene la piccola politica che vi fa transigere in segreto con la vostra coscienza per avere celatamente un favore dal Vaticano, nel quale non credete; ma voi conoscete male la grande politica di mantenere l’autorità di Chi è il principio eterno di ogni giustizia. Voi lavorate a distruggerla ben peggio che con i professori atei; in fondo i professori atei hanno un piccolo potere; voi uomini politici che dite spesso di credere in Dio, voi ne distruggete l’autorità molto più che quei professori, con i mali esempî del vostro ateismo pratico. Voi che vi figurate di credere nel Dio di Cristo, siete in realtà profeti e sacerdoti degli dei falsi. Voi li servite come li servivano i principi idolatri ebrei, nei luoghi alti, in cospetto del popolo. Voi servite nei luoghi alti gli dei di tutte le cupidigie terrestri.»

«Bravo!» interruppe il ministro, conosciuto per la sua morigeratezza, per le virtù famigliari, per la noncuranza del danaro. «Mi divertite!»

E soggiunse, vôlto all’amico:

«Proprio non valeva la pena.»

«M’intenda bene!» riprese Benedetto. «Sì, anche Lei è uno di questi sacerdoti. Parlo io forse di gaudenti comuni? Parlo di Lei e di altri come Lei che si credono gente onesta perché non cacciano le mani nel danaro dello Stato, che si credono gente morale perché non si danno ai piaceri dei sensi. Vi dirò due cose. Intanto, voi adorate piaceri più perversi. Voi fate di voi stessi i vostri falsi dei, voi adorate il piacere di contemplarvi nel vostro potere, nei vostri onori, nell’ammirazione della gente. Ai vostri dei voi sacrificate colpevolmente molte vittime umane e la integrità del vostro stesso carattere. Fra voi vi è il patto che ciascuno rispetti il falso dio del collega e ne aiuti il culto. I più puri di voi sono colpevoli almeno di questa complicità. Voi torcete lo sguardo da torbide congiure d’interessi vili, da non confessabili intrighi di sêtte che strisciano nell’ombra e li lasciate passare in silenzio. Voi vi credete incorrotti e corrompete! Voi distribuite regolarmente denaro pubblico a gente che vi vende la parola e l’onestà della coscienza. Voi disprezzate e nutrite questa infamia sotto di voi. È più empio comperare voti e lodi che venderne! I più corrotti siete voi! Secondo peccato, voi considerate il mentire una necessità della vostra condizione, voi mentite come bere acqua, mentite al popolo, mentite al Parlamento, mentite al Principe, mentite agli avversarî, mentite agli amici. Lo so, qualcuno di voi personalmente non pratica l’abituale mentire, solamente lo tollera nei colleghi, molti di voi prendono con ripugnanza quest’abito nell’entrare dove si governa, come entrando in una miniera si prende talvolta una veste sudicia che difende la nostra; e all’uscire lo depongono con gioia. Ma costoro che sono i migliori, si diranno essi buoni e fedeli servi della Verità? Voi credete in Dio e forse al vostro letto di morte pensate di avere maggiormente offeso Iddio come uomini politici con azioni di violenza contro la Chiesa nel nome dello Stato. No, non saranno state queste le vostre maggiori offese. Se vengono in Parlamento e dal Parlamento al Governo uomini che professino come filosofi di non conoscere Dio ma che insorgano nel nome della Verità contro quest’arbitraria tirannia della Menzogna, meglio serviranno Dio e saranno più grati a Dio di voi che credete in esso come in un idolo e non come nello Spirito di Verità, di voi che osate parlare di putrefazioni del Cattolicismo, puzzolenti di falsità come siete. Sì, puzzolenti! Voi fate tanto impura l’aria delle altezze, a rovescio di quello che sarebbe naturale, da rendere ben difficile di respirarla. Voi avete un cuore religioso, signor ministro; non rispondetemi che in questo palazzo non si può servire Iddio…»

«Sa Lei…» esclamò con ira il ministro incrociando le braccia sul petto. Il sottosegretario di Stato stese graziosamente una mano verso di lui per arrestarne la parola sdegnosa.

«Piano piano piano» diss’egli. «Permetti? Perché mi ci diverto.»

Il sottosegretario di Stato, piccolo, rotondetto, rispettoso della propria sottosegretarietà, simile a un uovo in possesso cosciente di un sacro pulcino, ben minore uomo del ministro e ben diverso da lui, non aveva affatto le curiosità intellettuali del Superiore e non era venuto che per compiacere al Superiore. Il Superiore, luminosa intelligenza, soleva fermare il proprio lume ora sull’una ora sull’altra delle persone che gli giravano attorno e crederli allora lucenti per loro virtù come forse penserà il sole degli astri che gli fanno la corte. Il sottosegretario di Stato rifletteva luce al ministro e il ministro rifletteva ammirazione al sottosegretario di Stato. Il ministro lo aveva desiderato a quel colloquio non comprendendo affatto che il piccolo Mercurio del suo sistema planetario, avendo risoluto da giovine di sciogliersi dal soprannaturale che gl’impediva i movimenti più spontanei della sua natura egoistica, si era preso per il soprannaturale dell’odio che gl’infermi concepiscono talvolta per la persona della quale sanno che ha fatto delle infermità loro un pronostico triste. Come questi infelici vogliono persuadersi che il profeta non merita fede e più la sua profezia si viene avverando, più s’irritano, più si struggono di abbattere quell’autorità minacciosa; così colui, più sentiva declinargli il vigor giovanile e perder credito i dogmi materialistici e folgorargli nel cuore di quando in quando certe apprensioni lancinanti di una verità formidabile che poi venivano lentamente meno, più s’inveleniva nell’odio coperto d’ironica noncuranza.

«Senta un po’, caro Lei» diss’egli a Benedetto dopo essersi fatto largo nella conversazione con quella parola e quel gesto. «Lei parla molto di dei falsi e di dei veri. Io non so se il Suo sia falso o vero. Sarà vero ma è certamente irragionevole. Un Dio che ha creato il mondo come gli è piaciuto, in modo che deve andare come va, e poi viene a dirci che dobbiamo farlo andare in un modo diverso, eh senta, via! non è un Dio ragionevole! Lei si è permesso di vuotare un sacco di contumelie, un sacco di accuse agli uomini politici, che sono calunnie, specialmente se le vuole applicare a quel signore lì e a me; ma io Le concedo che la politica, per forza, non è mestiere da Santi. Chi ha fatto il mondo non ha voluto che lo sia! Se la sbrighi con lui. Ebbene, bisogna pure che qualcuno lo faccia, quel mestiere lì. Adesso lo facciamo noi che se non siamo Santi, almeno Lei vede quanto pazientemente trattiamo con i Santi. E senta.»

Il sottosegretario guardò l’orologio.

«Si fa tardi» diss’egli «e nelle vie di Roma, a ora tarda, la santità corre qualche pericolo. È meglio che Lei se ne vada.»

Stese la mano al campanello elettrico per chiamare l’usciere.

«Signor ministro!» esclamò Benedetto con tal vigore di accento che il sottosegretario rimase immobile a braccio steso come colto da un colpo di gelo. «Lei teme per lo Stato, per la monarchia, per la libertà, i socialisti e gli anarchici; tema molto più i Suoi colleghi schernitori di Dio, perché i socialisti e gli anarchici sono febbre, gli schernitori di Dio sono cancrena! – Quanto a Lei» soggiunse vôlto al sottosegretario «Lei deride Uno che tace. Tema il suo silenzio!»

Senza che né l’uno né l’altro dei due potenti dicesse una parola, facesse un gesto, Benedetto uscì della sala.

 

 

Egli discese lo scalone vibrando tutto nel contraccolpo delle parole che gli erano scoppiate dal cuore e nel fuoco febbrile del sangue. Le gambe gli tremavano, gli mancavano sotto. Fu costretto due o tre volte di afferrarsi al parapetto e di sostare. Giunto all’ultima colonna, vi premette la fronte pulsante, cercando frescura. Se ne staccò subito, sentì ripugnanza della stessa pietra di quel palazzo come se fosse infetta di tradimento, complice del commercio vile che vi si era fatto, atrocemente vile, fra ministri di Cristo e ministri della Patria. Sedette sul penultimo gradino, non potendone più, senza guardare ai fanali accesi della carrozza che aspettava lì a due passi, senza dubbio la carrozza del ministro; non curando esser veduto. Respirò un poco, lo sdegno gli si venne quietando un poco, quietando in dolore, in desiderio di piangere sulle tristi cecità del mondo. E cominciò anche a sentirsi solo, amaramente solo. Unica lei, la donna del suo passato errore, aveva vegliato, aveva scoperto, aveva agito. Solo per lei gli era stato dato di far fronte al ministro sapendo quale linguaggio fosse da tenergli. Gli altri amici suoi, gli amici devoti alle sue idee religiose, avevano dormito e dormivano. Gli piacque l’acre pensiero che non si curassero più di lui. Gli piacque di abbandonarsi almeno una volta alla pietà della propria sorte, di gustarla, almeno una volta, sino al fondo, di figurarsi la propria sorte anche più dolorosa e amara che non fosse. Tutti erano contro di lui, si accordavano contro di lui, tutti! Solo, solo, solo. E i suoi sostegni interni eran proprio buoni? Eran proprio sicuri? Quell’uomo là in alto, quel ministro di tanto ingegno, di tanto sapere, di tanta bontà personale, se avesse ragione? Se il Cattolicismo fosse veramente insanabile? Oh, ecco, anche il Signore, il Signore da lui servito, il Signore che lo colpiva nel corpo, che lo metteva in potere dei suoi nemici, adesso lo abbandonava nell’anima. Angoscia, mortale angoscia! Desiderò morire lì, aver pace.

Le voci, in alto, del ministro e del sottosegretario che discendono. Benedetto si sforzò di alzarsi, si trascinò nella via, vide a sinistra, pochi passi oltre il portone, un’altra carrozza ferma. Un domestico in livrea stava sul marciapiede discorrendo col cocchiere. Al comparire di Benedetto il domestico gli si fece premurosamente incontro. Benedetto riconobbe alla luce del gas il romano antico di villa Diedo, il cameriere dei Dessalle. Gli balenò nel cervello torbido che Jeanne fosse ad aspettarlo in carrozza, diede un passo indietro.

«No» diss’egli.

Intanto la carrozza era venuta avanti. Benedetto immaginò di vedere Jeanne, esser fatto salire con lei, di non avere forza sufficiente a impedirlo. Preso da vertigine, retrocesse ancora e sarebbe caduto se il domestico non lo avesse raccolto nelle sue braccia. Si trovò in carrozza senza saper come, con un fastidioso lume vivo incontro e un forte ronzio negli orecchi. A poco a poco si raccapezzò. Era solo, una lampadina ad acetilene gli luceva in faccia. Lo sportello alla sua destra era aperto e il domestico gli parlava. Che diceva? Dove andare? A villa Mayda? Sì certo, a villa Mayda. Non si poteva spegnere quel lume? Il domestico spense e parlò ancora, di una carta. Quale carta? Una carta che la signora aveva fatto mettere nel taschino interno del coupé, coll’ordine di consegnarla al signore. Benedetto non capiva, non vedeva. Il domestico prese la carta e gliela pose in tasca. Poi domandò, per ordine dei signori, stavolta disse così, come il signore stesse di salute. Se lo avesse veduto morto, il rigido uomo avrebbe ugualmente eseguito l’ordine. Benedetto pregò, per tutta risposta, che gli fosse portata un po’ d’acqua; bevette avidamente quella che il domestico gli recò da un caffè vicino, ne provò alquanto ristoro. Riprendendo la tazza vuota, il domestico credette bene di compiere la sua missione:

«La signora mi ha ordinato di dirle, se Lei domanda, che i signori hanno mandato la carrozza perché sanno che Lei non sta bene e hanno pensato che qui, a quest’ora, non ne troverebbe.»

 

 

Il coupé aveva molle eccellenti e le gomme alle ruote. Che riposo era per Benedetto di correre silenziosamente così, solo dentro un’oscura carrozza soffice, nel cuore della notte! Di quando in quando apparivano a destra e a sinistra sfondi di vie lucenti e allora era per lui una sofferenza, come se quelle lunghe file di lumi fossero nemiche. Tornava subito l’ombra delle vie strette, la fuga, sui marciapiedi e sulle case, della luce trabalzante dai fanali del coupé. Il cocchiere mise il cavallo al passo e Benedetto guardò fuori, nel buio. Gli parve che incominciasse la salita dell’Aventino.

Si sentiva meglio; la febbre, inasprita dai travagli fisici e morali di quella notte di battaglia, declinava rapidamente. Avvertì allora, per la prima volta, il sottilissimo profumo del coupé, il solito profumo usato da Jeanne, e lo morse la memoria viva del ritorno da Praglia con lei, del momento in cui, lasciata lei al piede della salita di villa Diedo, si era allontanato solo nella victoria profumata e tepida di lei; solo, ebbro del suo segreto di amore. Atterrito dalla vivezza dei ricordi, si strinse le braccia al petto, si sforzò di ritrarsi dai sensi e dalla memoria nel centro di sé, ansava a bocca semiaperta non riuscendo a spinger la immagine fuori dalla sua visione interna. E altre gliene lampeggiavano nel cuore senza vincere la sua volontà resistente ma facendola fremere come una corda tesa. Era l’idea che soltanto lei, Jeanne, lo amasse davvero, che soltanto lei soffrisse del suo soffrire. Era la voce di lei che si doleva di non essere riamata, la voce di lei che lo pregava di amore con una cantilena di Saint-Saëns, tanto dolce, tanto triste, nota ad ambedue, della quale egli le aveva detto a villa Diedo che nulla saprebbe ricusare a chi pregasse così. Era l’idea di fuggir lontano, ben lontano e per sempre, da Roma pagana e farisea. Era una visione di pace, di colloquî purissimi con la donna ch’egli conquisterebbe finalmente alla fede. Era un desiderio ardente di dire al Signore: troppo tristo è il mondo, concedi che ti adori così. Era il pensiero che in tutto ciò non vi fosse colpa, che non fosse colpa l’abbandono della sua missione a fronte di tanti nemici. Era il dubbio di non avere realmente missione alcuna, di aver ceduto a suggestioni d’inganno, di aver creduto a realtà di fantasmi, di essere stato illuso da parvenze del caso. Erano le fisionomie spirituali e morali dei suoi amici e seguaci, fatte difformi agli occhi suoi come da uno specchio convesso; era la scorata certezza che ogni speranza posta in essi gli fallirebbe. Era da capo la cantilena tenera e triste, con un senso non più di preghiera ma di pietà, di una pietà circonfusa alla sua lotta amara, dell’accorata pietà di qualche spirito ignoto che pure soffrisse e si dolesse di Dio ma umilmente, dolcemente, e parlasse per tutto che ama e soffre nel mondo.

La carrozza si fermò a un crocicchio e il domestico scese dal serpe, si affacciò allo sportello. Pareva che tanto egli quanto il cocchiere non avessero un’idea chiara del posto di questa villa Mayda. A destra scendeva una stradicciuola fra due muri. Dietro quello più alto di sinistra colossali alberi neri ruggivano al tramontano che aveva spazzato le nubi. Nello sfondo nereggiavano al fioco lume stellare il Gianicolo e San Pietro. Era una stradicciuola da pedoni. Doveva il signore scendere lì per andare a villa Mayda? No, ma «il signore» volle scendere a ogni modo, uscire della carrozza avvelenata. Si trascinò, lottando col suo povero corpo infermo e col vento, fino a Sant’Anselmo. Rifinito, pensò a domandare l’ospitalità dei monaci ma non lo fece. Scese lungo il grande, silenzioso asilo benedettino di pace, passò sospirando davanti alla porta chiusa che dice vanamente quieti et amicis, giunse infine al cancello di villa Mayda.

Il giardiniere venne ad aprirgli mezzo svestito e si meravigliò molto di vederlo. Gli disse che lo credeva in prigione perché verso le nove un delegato di P. S. e una guardia erano venuti a cercarlo. Anzi la signora, la nuora del professore, saputo questo, aveva dato senz’altro l’ordine di non lasciarlo entrare se per caso ritornasse; ma poi, con molta gioia del giardiniere, affezionato a Benedetto e al padrone quanto avverso alla signora, era venuto un fiero contrordine del professore. Udito ciò, Benedetto sarebbe ripartito subito se gliene fossero bastate le forze. Ma non era in grado di fare cento passi.

«Sarà per questa sola notte» diss’egli.

Abitava una cameretta nella casina del giardiniere. Sperò, nell’entrarvi, che vi avrebbe ritrovata la pace del cuore; ma non fu così. Lo cacciavano anche di là; ecco l’annuncio amaro che il suo cuore diede al povero lettuccio, ai poveri arredi, ai pochi libri, alla fumosa candela di sego. Fissi gli occhi nel Crocifisso pendente sopra uno sgabello a fianco del letto, egli gemette mentalmente con uno sforzo di volontà:

«Come posso io dolermi tanto, Signore, delle croci mie?»

Invano; il suo spirito non aveva senso vivo né di Cristo né della Croce. Sedette desolato, non volendo coricarsi così, aspettando una stilla di dolcezza che non veniva.

Una folata di vento gli fece volgere il capo alla finestra che si era spalancata. Vide laggiù nel cielo lucidissimo, sopra i merli di Porta San Paolo e la nera punta della piramide di Cestio e le vette dei cipressi che cingono la tomba di Shelley, un grande pianeta. Il vento urlava intorno alla casina. Oh la notte nel manicomio dove sua moglie moriva, e le urla delle agitate, e il grande pianeta!

Nel reclinare il capo grave di tristezza si accorse per caso della carta che il domestico gli aveva cacciata in tasca. Era una grande busta orlata di nero. La spiegò, vi lesse il nome e i titoli della sua povera vecchia suocera, la marchesa Nene Scremin, e le due semplici parole che seguivano:

 

IN PACE.

 

Impietrò col foglio aperto nelle mani e gli occhi fissi alle due parole anguste. Poi le mani gli cominciarono a tremare e dalle mani il tremito gli salì al petto, crescendo, crescendo, e dall’affollar del petto gli ruppe su per la gola una tempesta di pianto.

Piange per il ritorno di tante memorie ricondotte a lui dalla povera morta, dolorose e soavi; piange affissandosi nel Crocifisso, in Cristo, al quale, oh certo, ella si abbandonò fidente, nel morire, come l’altra cara, come la sua Elisa; piange di gratitudine a lei che ancora dal mondo ignoto gli è pia, gl’intenerisce il cuore. Ricorda le ultime parole udite dalla sua bocca: «Allora, vederci, mai più?» Sorride nell’anima presaga, si volge alla finestra spalancata, contempla il grande pianeta.

 

 

 

 





Precedente - Successivo

Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2008. Content in this page is licensed under a Creative Commons License