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Antonio Fogazzaro Il santo IntraText CT - Lettura del testo |
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8. Jeanne.
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Un piccolo gruppo di operai veniva sul mezzogiorno da una casa in costruzione di via Galvani verso via della Marmorata. Vedendo capannelli di gente sotto gli alberi e capannelli agli usci, gente alle finestre delle due ultime case di destra e di sinistra, un operaio che seguiva il gruppo a pochi passi di distanza disse forte ai compagni: «Quanti scemi per un furbo!» Un omaccione barbuto che stava sulla soglia d’una botteguccia l’udì e gli si fece incontro, lo apostrofò minaccioso: «Tu che dici?» L’altro si fermò a squadrarlo, gli rispose beffardo: «To’! Quello che piace a me!» L’omaccione gli menò un pugno, gli altri operai gli si fecero addosso in aiuto del compagno. Grida, bestemmie, lampeggiar di coltelli, strilli di donne dalle finestre, accorrer di gente dal viale, accorrer di guardie e di vigili, in un baleno la via fu tutta un bollimento nero, un ondeggiar della calca urlante trabalzata da destra a sinistra e da sinistra a destra come a bordo di una nave sul mare in tempesta; e a due passi dal fitto dove contendevano gli operai e le guardie, bravo chi avesse saputo quel che accadeva. La folla era feroce contro gl’insultatori del Santo ma cieca; quali fossero non sapeva; voleva a morte con cento voci discordi l’omaccione, gli operai, le guardie, uno che aveva riso, uno che aveva fatto il paciere e chi dava gomitate per cacciarsi avanti e chi ne dava per tirarsi fuori. Un conduttore del tram di S. Paolo, passando davanti a via Galvani, vide il tumulto e si divertì a gridare a un gruppo di popolane, cento metri più in là, che il Santo di Jenne era stato ritrovato in via Galvani. La voce corse per i viali pieni di capannelli e di curiosi solitari, come fuoco per la polvere. I capannelli si ruppero, precipitarono verso via Galvani, interrogandosi le persone, nel correre, a vicenda. I curiosi solitari seguirono più lenti, più cauti, e videro presto alquante facce seccate ritornare indietro. Che Santo ritrovato! Era una cagnara delle solite. Qualcuno vede gente scendere in fretta da Sant’Anselmo. Un’altra voce corre: quelli vengono da villa Mayda, quelli sanno! E si fa popolo da destra, da sinistra, tutti si affrettano, come piccioni a una manciata di grano, allo sbocco della via di Santa Sabina. E i curiosi solitari, più lenti, più cauti, dietro. Che! A villa Mayda non sanno niente, neppure vogliono più rispondere, tanto sono infastiditi dalla processione di gente che viene a suonare il campanello. E un drappello di carabinieri arriva serrato, a passo di carica, svolta in via Galvani. Si odono dei fischi, delle grida irose: «Quelli sanno! Quelli lo hanno menato via!» «No!» grida una fruttivendola in un gruppo fermo sull’angolo di via Alessandro Volta. «è stato un delegato! Sono state le guardie!» In quel gruppo s’inveisce non tanto contro il delegato e le guardie quanto contro le marmotte che avrebbero potuto, se volevano, buttare a fiume delegato, guardie, botte, cavallo e cocchiere e si son lasciate sgominare da quattro parole, da quattro gocce d’acqua. La vecchietta che ha fatto venire Benedetto dall’ex-frate è lì anche lei. L’hanno fermata mentre usciva dal fornaio e racconta per la centesima volta la storia dell’arresto, s’intenerisce per la centesima volta dicendo delle rose e delle parole pie e dell’aria tanto malata che il Santo aveva. Gli uditori si commovono, gemono le odi del Santo. E chi racconta una guarigione miracolosa ch’egli ha operata e chi ne racconta un’altra e chi dice di quel suo parlare che va all’anima e chi di quel viso che vale una predica e chi della sua povertà e chi della carità che trova modo, così povero, di fare. Ecco da via Galvani guardie, carabinieri, arrestati e folla. Un curioso solitario si avvicina a un altro individuo della sua specie, gli domanda che sia avvenuto nel quartiere. Colui non sa niente. I due si mettono insieme, interrogano un popolano che pare averne abbastanza, volersene andare. Il popolano risponde che lì sopra, in una villa presso Sant’Anselmo, ci sta un sant’uomo adorato in tutto il quartiere perché visita gli ammalati e ne guarisce molti e parla di religione meglio dei preti, così che tutti lo chiamano il Santo. Il Santo di Jenne, anzi; perché ha fatto molti miracoli in un paese dei monti, che si chiama Jenne, e ne hanno parlato anche i giornali. E iersera, mentre stava assistendo un povero infermo, la Questura lo ha portato via, non si sa perché. Si diceva che poi lo avessero rilasciato e ch’egli fosse ritornato a casa, alla villa dove lavora da giardiniere; ma la gente della villa nega ch’egli vi si trovi più e non dà spiegazioni. Il popolo è riscaldato, vuole… Ecco un tram, dei passeggeri fanno segno alla gente e la gente grida, corre verso la prossima fermata, il popolano pianta i due, corre anche lui là dove una folla già si addensa rapida intorno al tram. Lo strascico lento dei curiosi si avvia dietro alla folla, i due apprendono come il tram abbia ricondotto sei cittadini del quartiere che, motu proprio, si erano recati dal Questore. I sei discesero fra la turba impaziente di udire, di sapere. Non parevano lieti. Alla tempesta delle domande rispondevano di chetarsi. Avrebbero parlato, avrebbero riferito, ma non lì nella strada. E già la gente protestava, l’ingiuria fremeva su molte labbra. Colui che pareva il capo dei sei, un tabaccaio, si fece levar sulle spalle dei colleghi e arringò brevemente la folla. «Abbiamo notizie» diss’egli. «Possiamo assicurarvi fin d’ora che il Santo non è in carcere!» Scoppiarono dei viva, dei bravo, degli applausi. «Ma dov’egli sia» proseguì l’oratore «propriamente non si sa.» Urla e fischi. L’oratore allibbì e dopo essersi debolmente provato di parlare, cedette alla burrasca e calò dai suoi rostri viventi. Ma un’altro dei sei, più gagliardo e ardito, balzò su a rispondere violentemente. Allora le urla, le invettive raddoppiarono. «Vi hanno infinocchiato!» gridava la gente. «Scemi che siete! In prigione lo hanno cacciato! In prigione!» Il grido si diffonde, l’odono i lontani che altro non hanno udito e persino coloro che né questo né altro udirono, sentono attraversarsi il petto dalle magnetiche onde oscure dell’ira. Parecchi urlano: «abbasso!» senza sapere chi vogliano giù. Ed ecco da capo i grandi cappelli dei carabinieri, da capo le guardie. Invano i sei si sgolano a protestare, le grida di abbasso e di morte ne coprono la voce. Un delegato fa dare gli squilli. Al terzo succede un fuggi fuggi. Fugge anche la Deputazione col tabaccaio a capo; ma, fuggendo, i sei riescono a trar con sé chi l’uno e chi l’altro dei popolani meno infuriati, con la promessa di dare in un luogo opportuno spiegazioni che non si possono gridare in piazza. Riparano in un deposito di materiali da fabbrica, cinto di un assito. Parecchi li seguono, filtrano, a uno a uno, per l’uscio dell’assito; e il tabaccaio, pensando avere nel petto cose da far crollare il mondo, parla in cospetto della piramide di Caio Cestio, che aspetta indifferente il passar dei secoli fino al silenzio, alle rovine, alla selva. Il tabaccaio parla, con voce misurata, fra una trentina di facce attente. Dice che il Santo di Jenne non è sicuramente in prigione, che non si sa dove sia, ma che si sanno altre cose, pur troppo. E dice le altre cose. Se le avesse dette alle turbe scendendo dal tram, lo avrebbero fatto a brani. In Questura ridono del Santo e di chi gli crede. Raccontano ch’egli ha un amante, una signora molto ricca; che nella notte è stato interrogato dal Direttore generale della P. S. per ragioni non tanto belle; che quando è uscito del ministero, ha trovato l’amante che lo attendeva in carrozza ed è partito con lei. «Io non volevo credere» conchiude il tabaccaio «ma ecco! Adesso dica lui.» Uno dei sei, oste a Santa Sabina, si fece a raccontare che sua moglie aveva udito nel cuore della notte una carrozza fermarsi presso l’osteria; che si era alzata e aveva veduta la carrozza, un legno signorile, con il cocchiere e il domestico in tuba; che il domestico stava allo sportello e aiutava una persona a scendere; che la persona scesa di carrozza era passata a piedi sotto la finestra andando verso Sant’Anselmo e ch’ella aveva riconosciuto il Santo di Jenne. L’oste soggiunse che non aveva creduto al riconoscimento perché non c’era luna ed era piovuto fin dopo le undici, per cui la notte doveva essere stata molto buia; che non avendo creduto neppure aveva parlato; ma che poi, all’udire il racconto della Questura, si era dovuto persuadere. E sua moglie aveva dell’altro a raccontare. Si era alzata alle sei. Fra le sette e le otto era passata una botte andando verso Sant’Anselmo. Poco dopo, la botte era ripassata. Questa volta sua moglie ci aveva veduto dentro il Santo di Jenne. Era pronta ad attestarlo con giuramento. Qui, alcuni fra gli uditori sgattaiolarono dal recinto, corsero a sussurrare le notizie nel quartiere. Ne successe che mentre il tabaccaio e l’oste e i loro amici stavano ancora nel recinto, si fece gente sulla strada di Santa Sabina e un grosso gruppo salì, seguito da due guardie, verso l’osteria. Entrarono nel cortile. L’ostessa ciarlava con un cliente, sotto il pergolato. La interrogarono ed essa rifece il racconto che aveva fatto al marito. La interrogarono ancora, volevano sapere questo e quello, tanti particolari. La donna finì con rispondere di non ricordar bene. Avrebbe portato da bere, da rinfrescare ad essi l’ugola, a sé la memoria. Che! Quelli non erano venuti per bere, glielo dissero bruscamente. Due ferrovieri, attavolati sotto il pergolato, poco discosto, si seccarono di quell’interrogatorio. Uno di essi chiamò l’ostessa, le parlò a voce alta: «Che voglion sapere? L’ho veduto io l’uomo che cercano. è partito stamattina alle otto, con una ragazza, per la linea di Pisa.» La gente si volse a lui, lo interrogò e quegli giurò incollerito che aveva detto la verità, che il loro Santo di Jenne era partito alle otto in una vettura di seconda classe con una bella bionda, conosciutissima. Allora coloro, mogi mogi, se n’andarono. Usciti che furono tutti, una guardia travestita si avvicinò al ferroviere, gli domandò alla sua volta se fosse ben certo di quello che aveva detto. «Io?» rispose colui. «Se sono certo? Che si ammazzino! Non so nulla di nulla, io. Le ho fatte chetare, le ho fatte andare al diavolo, quelle bestiacce. Corrano almeno fino a Civitavecchia, adesso, e affoghino tutti in mare, loro e il loro Santo!» «E allora?» fece l’ostessa. «Dove sarà andato?» «Vada a cercarlo in cantina» rispose il ferroviere «che il fiasco è vuoto e noi si ha sete ancora.»
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