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Antonio Fogazzaro Il santo IntraText CT - Lettura del testo |
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Mezz’ora prima ch’ella fosse di ritorno al Grand Hôtel, vi capitarono Giovanni e Maria Selva. In pari tempo vi capitò il giovane Leynì che veniva egli pure a domandare della signora Dessalle e parve soddisfatto dell’incontro, però senza letizia. Udito che la signora Dessalle era fuori, i tre visitatori chiesero di aspettarla nella sala di conversazione. I Selva parevano ancor più tristi che di Leynì. Dopo un breve silenzio, Maria osservò ch’erano le quattro e un quarto e che Jeanne non avrebbe potuto tardar molto perché alle quattro e mezzo, ogni giorno, aveva un impegno presso suo fratello. Di Leynì pregò di venirle presentato, quando arrivasse. Aveva un messaggio per lei che non conosceva; un messaggio, del resto, che riguardava pure gli amici di Benedetto, quindi anche i Selva. Maria trasalì. «Un messaggio di lui?» diss’ella, impetuosa. «Un messaggio di Benedetto?» Di Leynì la guardò, sorpreso di quell’impeto, e tardò un poco a rispondere. No, non era di Benedetto ma lo riguardava. Poiché la signora Dessalle poteva sopraggiungere di momento in momento e si trattava di cosa non tanto breve, non tanto semplice, gli pareva opportuno di non cominciare a parlarne prima del suo arrivo. Domandò poi ingenuamente come mai avesse preso interesse alla sorte di Benedetto questa signora Dessalle che non si era veduta mai alle riunioni di via della Vite, e della quale non aveva mai udito il nome. «Ma Lei» disse Maria «perché crede che ci abbia interesse?» «Eh» rispose di Leynì «ho un messaggio per lei, che riguarda lui, capirà!» Di Leynì, devoto a Benedetto di una devozione senza confini, non aveva mai creduto alle voci calunniose sparse sul suo conto, le aveva respinte sempre con appassionato sdegno. Non ammetteva del suo maestro né amori colpevoli né amori ideali. Nel fare quella domanda non gli era potuto passare per la mente che fra la Dessalle e Benedetto vi fosse una relazione non confessabile. Giovanni troncò il discorso dicendo che la Dessalle avrebbe anche potuto tardare molto e che intanto di Leynì parlasse. Di Leynì parlò. Egli aveva visitato Benedetto. Arrivando in via della Polveriera da San Pietro in Vincoli, aveva riconosciuto due guardie travestite che passeggiavano. Poteva essersi ingannato oppure anche poteva essere stato un caso. Però era cosa da farne menzione. Il senatore lo aveva fatto pregare, appena entrato in casa, di passare nel suo studio. Là, parlando con molta cortesia ma con un manifesto imbarazzo, gli aveva detto ch’era lieto di vedere, proprio in quel momento, un amico del suo caro ospite; che Benedetto era fortunatamente senza febbre e, secondo lui, avviato alla guarigione; che un telegramma lo avvertiva dell’arrivo imminente di una sua vecchia sorella; ch’egli aveva una sola camera da letto, nel suo alloggio, oltre alla propria e a quella della fantesca; che gli era impossibile di mandare sua sorella all’albergo e anche impossibile oramai di telegrafarle che ritardasse la sua venuta perché era già in viaggio; quindi… Il senatore aveva lasciato a di Leynì la cura di venire alla conclusione. Di Leynì ch’era con altri pochi fedeli nel segreto delle trame contro Benedetto, era rimasto sbalordito. Cosa rispondere? Che il senatore era solo padrone in casa sua? Era forse l’unica risposta possibile. Di Leynì aveva osato esprimere riguardosamente il dubbio che un trasloco riescisse fatale all’ammalato. Il senatore si teneva certo del contrario. Credeva che un cambiamento di aria gli sarebbe utilissimo. Non aveva ancora potuto parlare al medico ma non ne dubitava. Suggeriva Sorrento. Siccome di Leynì né sapeva più che dire né si muoveva, il senatore lo aveva congedato pregandolo di recarsi in nome suo al Gran Hôtel dalla signora Dessalle, per le istanze della quale egli aveva ospitato Benedetto, e di invitarla a voler provvedere perché sua sorella sarebbe arrivata la sera stessa, prima delle undici. Di Leynì si era poi recato da Benedetto. Dio, in quali condizioni lo aveva trovato! Senza febbre, sì, forse; ma con l’aspetto e la guardatura di un moribondo. Il giovine aveva le lagrime agli occhi nel parlarne. Benedetto non sapeva di dover partire. Gliene aveva parlato lui come di una cosa non sicura ma possibile. Benedetto lo aveva guardato in silenzio per leggergli nell’animo, e poi gli aveva detto sorridendo: devo andar in prigione? Allora di Leynì si era pentito di non aver aperto subito a un uomo tanto forte e sereno in Dio tutta la verità e gli aveva riferito per intero il discorso del senatore. «Egli mi prese» disse il giovine con voce rotta dalla commozione «la mano e tenendomela e accarezzandomela pronunciò queste parole precise: «Da Roma non parto. Vuoi che venga a morire da te?» Io mi turbai tanto che non ebbi la forza di rispondergli, perché poi non so nemmeno se il pericolo dell’arresto non ci sia veramente, se l’atto incredibile del senatore non sia appunto un pretesto per evitare che glielo arrestino in casa e come si potrebbe portarlo in un altro asilo sfuggendo alle guardie. Lo abbracciai, borbottai qualche parola senza senso e corsi via, corsi qua per parlare a questa signora Dessalle. Potrebbe forse venir lei dal senatore e persuaderlo.» I Selva avevano spesso interrotto di Leynì con esclamazioni di sorpresa e di sdegno. Finito ch’egli ebbe il suo racconto, tacquero, sbalorditi. Prima a interrompere il silenzio fu la signora Maria. «Questa Jeanne che non viene!» diss’ella, piano. Fece un segno impercettibile a suo marito e gli propose di andare insieme a vedere se fosse rientrata e non l’avessero avvertita. Nell’attraversare il jardin d’hiver gli disse che le pareva necessario di far sapere a di Leynì chi fosse veramente la signora Dessalle. Jeanne non era rientrata. Giovanni prese a parte il giovine, gli parlò sotto voce. Maria, che lo guardava, lo vide trasalire, spalancare gli occhi, impallidire; quindi parlare alla sua volta, domandare qualche cosa. Jeanne Dessalle entrò frettolosa, sorridente. Il portiere le aveva consegnato un biglietto del medico. Diceva: «Non credo di poterci ritornare. Stamane era sfebbrato. Speriamo che l’accesso non si rinnovi.» Jeanne notò subito che non vi si parlava di portare l’ammalato altrove. Ell’abbracciò la signora, stese la mano a Selva che le presentò di Leynì. Ella si scusò poi con tutti di doverli lasciare per cinque minuti. Suo fratello l’aspettava. Uscita che fu promettendo di ritornare subito, di Leynì si affrettò ad appartarsi ancora con Selva. Maria gli vide ricomparire in viso l’ansia di prima, vide che faceva molte domande e che alle risposte di suo marito si andava ricomponendo. Vide finalmente suo marito posargli le mani sulle spalle, dirgli qualche cosa ch’ella indovinò, una segreta cosa, ancora non conosciuta da Jeanne; vide negli occhi del giovine una commozione, una riverenza profonda. Un cameriere entrò a dire che la signora Dessalle aspettava i signori nel suo alloggio. Vi era molto movimento nell’albergo. Sussurri di strascichi e sordi tocchi di passi si confondevano sui tappeti dei corridoi, sommesse voci straniere, gaie, crucciose, lusinghiere, indifferenti, andavano e venivano, agli ascensori si faceva ressa. Ciascuno della piccola comitiva silenziosa aveva in cuore lo stesso senso amaro di quella mondanità indifferente. Jeanne era nel suo salotto, attiguo alla camera di Carlino che vi stava accompagnando al piano il violoncello di Chieco. Ella venne incontro ai suoi amici con un sorriso che insieme alla musica, un’antica musica italiana semplice e serena, strinse loro il cuore. Parve un po’ sorpresa di vedere di Leynì, del quale non attendeva la visita. Li aveva fatti salire per parlare più libera; disse invece che aveva pensato di offrir loro un concerto di Chieco, il quale però non voleva che si aprisse l’uscio. Del resto si udiva egualmente abbastanza bene. Giovanni l’avvertì subito che il cavaliere di Leynì aveva un messaggio per lei del senatore. «Mentre Loro parlano» diss’egli «noi ascolteremo la musica.» E si scostò con sua moglie da Jeanne ch’era diventata pallida e nascondeva male malgrado estremi sforzi l’angosciosa impazienza di udire questo messaggio. Seduto presso a lei, di Leynì cominciò a parlarle sottovoce. Il violoncello e il piano scherzavano insieme sopra un tema pastorale, pieno d’ingenua tenerezza ilare e di carezze. Maria non poté a meno di mormorare: «Dio, poveretta!» E suo marito non poté a meno di seguire sul viso di Jeanne, al suono della tenera musica ilare, le parole affliggenti del suo interlocutore. Osservava pure il viso del giovine, il quale, parlando alla signora, guardava spesso lui come per significar pena e attingere consiglio. Jeanne lo ascoltava con gli occhi fissi a terra. Quando egli ebbe finito, li alzò ai Selva, i grandi occhi pietosamente addolorati; guardò l’una, guardò l’altro, dicendo muta, involontariamente: «voi sapete?» Gli occhi tristi dell’uno e dell’altra le risposero: sì, sappiamo. La musica ebbe uno scoppio sonoro di gioia. Maria ne approfittò per mormorare al marito: «Le avrà riferito anche il discorso del voler morire a Roma?» Il marito rispose che sarebbe stato meglio, che lo sperava. Jeanne pose gli occhi all’uscio onde veniva il fragore della musica, attese un poco e poi accennò ai Selva di avvicinarsi, disse con voce tranquilla che il senatore avrebbe dovuto far avvertire loro, che non sapeva perché si fosse rivolto a lei. Vedessero loro, adesso, che fosse a fare. La musica tacque, si udirono Carlino e Chieco discorrere. Di Leynì, che abitava un quartierino di scapolo alla salita di Sant’Onofrio, l’offerse. Ma se c’era un mandato di arresto? Se non si attendeva, per eseguirlo, che l’uscita di Benedetto da quella casa? Jeanne smentì, pacatamente, la possibilità dell’arresto. I Selva la guardavano pieni di ammirazione per quella calma voluta. Jeanne aveva supposto da un pezzo ch’essi sapessero il nome vero di Benedetto; come non sarebbe sfuggita una parola a Noemi, malgrado tutti i divieti? E un istante prima, nel tacito scambio di sguardi dolorosi, i Selva e lei si erano intesi. Giovanni e sua moglie comprendevano che Jeanne si faceva eroicamente violenza non per loro ma per di Leynì. E adesso anche di Leynì, per le confidenze di Giovanni, sapeva! Parve loro di avere quasi commesso un tradimento. Essi si tennero certi che se Jeanne diceva di non credere alla possibilità dell’arresto doveva averne ragioni da loro non conosciute. Osservarono che Benedetto avrebbe potuto accettare l’ospitalità loro. Jeanne ricordò pronta che Benedetto stesso aveva espresso un desiderio e che la salita di Sant’Onofrio pareva più adatta di via Arenula per il soggiorno di un ammalato bisognoso di pace. Però, secondo lei, non era possibile ammettere che il trasporto avesse luogo senza un’espressa licenza del medico. In questo si accordarono tutti. I Selva diedero incarico a di Leynì di riferire al senatore che gli amici di Benedetto avrebbero provveduto a trovargli un altro asilo ma però a condizione che il medico curante autorizzasse in iscritto il suo trasporto. Mentre Giovanni parlava, irruppe dalla stanza vicina un tumultuoso allegro del piano, tutto singhiozzi e grida. Egli tacque, non volendo alzar troppo la voce, lasciò passare l’impeto della musica straziante. E straziante fu la parola che gli occhi di lui e gli occhi del giovine si dissero durante quel silenzio delle labbra.
Di Leynì non aveva tempo da perdere, prese congedo. Gli spiaceva di andare solo, avrebbe desiderato presentarsi al senatore con qualcuno fra gli amici di Benedetto che potesse mettergli un po’ di soggezione, perché il suo contegno non si capiva. Giovanni Selva mormorò qualche cosa circa una vicepresidenza del senato cui quel vecchio aspirava e che non otterrebbe. Amaro dolore, scoprire miserie tali dove meno si sarebbe creduto! Maria si alzò, offerse a di Leynì di andare con lui. «Lei resta?» chiese Jeanne, vivacemente, a Giovanni. L’accento diceva: Lei deve restare. Selva rispose che sarebbe rimasto a ogni modo e l’espressione della sua voce, del suo viso fu tale da significare a Jeanne che gli pesavano sul cuore parole tristi non ancora dette. Oh, pensò Jeanne, se adesso Chieco uscisse, se Carlino chiamasse e non fosse più possibile di parlarsi! Perché anche lei doveva parlare a Selva. Gli doveva riferire il discorso del ministro. I due musicisti avevano nuovamente smesso di suonare, discorrevano. Jeanne bussò discretamente all’uscio, vi soffiò dentro due paroline gaie: «Bravi! Già finito?» «No, bella mia» rispose Chieco, di dentro. «Accidenti a Voi se vi seccate!» E modulò un fischio infernale, da forare l’uscio. Jeanne batté le mani. Piano e violoncello attaccarono un grave andante. Ella si volse a Selva che rientrava dall’avere accompagnato fuori sua moglie per dirle di telegrafare a don Clemente. Gli andò incontro a mani giunte, colle lagrime agli occhi. «Selva» mormorò con voce soffocata, «Lei già sa tutto, a Lei non posso nascondermi. Vi è qualche cosa di peggio, mi dica la verità.» Selva le prese le mani, gliele strinse in silenzio mentre il violoncello rispondeva per lui, amaro e grave: «Piangi, piangi, perché non è sorte di amore e di dolore come la tua sorte.» Egli stringeva le povere mani di ghiaccio, non riuscendo a parlare. Lo capiva bene, di Leynì non aveva osato riferirle le parole terribili – vengo a morire da te –; toccava a lui di darle il primo colpo. «Cara» diss’egli dolcemente, paternamente, «non Le ha egli detto al Sacro Speco che in un’ora solenne La chiamerebbe a sé? L’ora è venuta, egli la chiama.» Jeanne diede un balzo, le parve di non aver capito. «Oh, come? No!» diss’ella. Poi, tacendo Selva con la stessa pietà negli occhi, ebbe un lampo al cuore, fece «ah!», si porse tutta in una muta angosciosa domanda. Selva le strinse le mani ancora più forte, un singhiozzo represso gli scosse il petto, gli contorse le labbra serrate. Ella non disse niente ma cadeva se non la sorreggevano le mani di lui. La sorresse, la pose a sedere. «Subito?» diss’ella. «Subito? È una cosa imminente?» «No, no, La chiama per domani. Lui crede che sia domani, ma può essere che s’inganni, speriamo che s’inganni!» «Dio, Selva, ma se il medico scrive ch’è senza febbre!» Selva fece il gesto di chi è costretto ad ammettere una sventura senza comprenderla. La musica taceva, egli parlò sotto voce. Benedetto gli aveva scritto. Il medico lo aveva trovato senza febbre ma egli presentiva un nuovo accesso dopo il quale sarebbe venuta la fine. Iddio gli faceva la grazia di un’attesa quieta e dolce. Aveva una preghiera da fargli. Sapeva che la signora Dessalle, amica della signorina Noemi, era in Roma. Egli aveva promesso a questa signora, davanti a un altare del Sacro Speco, di chiamarla a sé, prima di morire, per un colloquio. Molto probabilmente la signorina Noemi gliene potrebbe dire il perché. Selva s’interruppe. Aveva in tasca la lettera, fece l’atto di cavarla. Jeanne se n’avvide, fu presa da un tremito convulso. «No no» diss’egli. «Le ripeto che può ingannarsi.» Aspettò che si chetasse e invece di trarre la lettera, ne disse l’ultima parte a memoria: «L’accesso ritornerà stasera o stanotte, domani sera o dopodomani mattina sarà la fine. Desidero vedere domani la signora Dessalle per una parola nel nome del Signore, al quale vado. Ho testé pregato il senatore di ottenermi questo colloquio ma egli si scusò. Mi rivolgo dunque a Lei.» Jeanne si era coperto il viso colle mani e taceva. Selva credette bene di suggerire speranze. L’accesso poteva non ritornare, poteva esser vinto. Ella scosse violentemente il capo ed egli non osò insistere. A un tratto le parve udire Chieco prender congedo. Trasalì, scostò le mani dal viso spettrale fra i capelli scomposti. Invece scoppiarono le prime allegre note del Curricolo napoletano, il pezzo che Chieco suonava sempre per ultimo. Ella balzò in piedi, parlò convulsa, senza lagrime: «Selva, so che Piero muore, so che non s’inganna. Lo faccia restare dov’è, s’è possibile. Gli conduca i suoi amici, me lo giuri che glieli condurrà, che gli procurerà questo conforto. Dica tutto ad essi di me, dica loro la verità, dica loro quanto è puro, quanto è santo, Piero. Io aspetto qui. Non mi muovo. Andrò quando Lei mi dirà, dove lei mi dirà. Sono forte, vede, non piango più. Telegrafi a don Clemente che il suo discepolo muore e che venga. Facciamo tutto quello che dobbiamo fare. È tardi, vada. E Lei già in un modo o nell’altro lo vedrà, Piero, stasera. Gli dica...» Qui un colpo di spasimo ruppe la parola. Chieco entrò zufolando, battendo palma a palma nella sua bizzarra maniera e Selva scivolò fuori dell’uscio. Jeanne gli corse dietro nel corridoio scuro, gli afferrò una mano, v’impresse un bacio frenetico.
Qualche ora dopo, verso le dieci, Jeanne stava leggendo il Figaro a Carlino sprofondato in una poltrona con le gambe avvolte in una coperta, e sulle ginocchia, strettavi a due mani, una gran tazza di latte. Jeanne leggeva talmente male, talmente noncurante di punti e di virgole, che suo fratello la interrompeva ogni momento, s’impazientiva. Leggeva da cinque minuti quando la cameriera venne ad avvertirla che c’era la signorina Noemi. Jeanne gettò il giornale, balzò in un lampo fuori della camera. Noemi raccontò frettolosamente, in piedi, premendole per l’ora tarda di ripartire, che mentre Giovanni e Maria stavano al Grand Hôtel, il professor Mayda, reduce da Napoli, era venuto a casa Selva, fuori di sé, a chiedere spiegazioni della scomparsa di Benedetto da casa sua; che allora ella gli aveva raccontato tutto; che Mayda era andato direttamente in via della Polveriera; che ci aveva trovato Maria, di Leynì, il senatore e il medico, il quale era di opinione che Benedetto si potesse trasportare; che fra il medico e Mayda vi era stato un diverbio a proposito di ciò e che Mayda lo aveva troncato dicendo: «ebbene, piuttosto di lasciarlo qui, me lo riporto via io.» Ed era ritornato più tardi con una carrozza piena di guanciali e di coperte, se lo era portato via. Pareva che il viaggio fosse andato bene. Udito il racconto, Jeanne abbracciò silenziosamente l’amica, stretta stretta. E l’amica, palpitante, lagrimosa, le sussurrò: «Senti, Jeanne. Per domani, preghi?» «Sì» rispose Jeanne. Tacque, lottando contro l’insorgere di una tempesta di pianto. Quando ebbe vinto, riprese sotto voce: «Non so pregar Dio. Sai chi prego? Prego don Giuseppe Flores.» Noemi le posò il viso sur una spalla, disse con voce soffocata: «Vorrei che dopo egli ci vedesse lavorare insieme per la sua fede.» Jeanne non rispose ed ella partì.
Jeanne ritornò da Carlino per la lettura e Carlino l’accolse aspramente. Le dichiarò che ne aveva abbastanza di quella vita e ch’ella doveva prepararsi a partire con lui l’indomani per Napoli. Jeanne rispose che era una follia e che non sarebbe partita. Allora Carlino diede in escandescenze, le afferrò i polsi, la scosse a segno da farle male. Doveva assolutamente partire! Poiché resisteva, era venuto il momento di dirle che si sapevano i motivi dei suoi andirivieni, dei suoi misteri, dei suoi occhi rossi, del suo leggere male e anche, ora, del suo non voler partire da Roma. Egli n’era stato informato da lettere anonime. Guai a lei se non la rompesse con quel pazzo! Guai a lei se gli sacrificasse le sue idee, se si lasciasse conquistare dalla superstizione, dal bigottismo, dalla religione dei preti! Non l’avrebbe mai più guardata in faccia. L’avrebbe rinnegata per sorella, da libero pensatore come voleva vivere e morire. No no, troncare, troncare, Napoli, Palermo, l’Africa, se occorresse! «Libero pensatore? Certo. E la libertà mia?» disse Jeanne senza sdegno, a ricordo di un diritto e non per il proposito di usarne. Carlino intese invece che proprio volesse usarne come a lui non piaceva e perdette addirittura il lume degli occhi. Jeanne tramortì nell’udire quell’uomo nervoso ma creduto da lei buono e gentile scagliar tante ingiurie con tanto fiele. Non rispose niente, si ritirò, tutta tremante, nella sua camera, gli scrisse due righe per dirgli che la sua dignità non le permetteva di restare con lui fino a che non si fosse disdetto delle sue offese, che se ne andava, che s’egli avesse una parola per lei la mandasse a casa Selva. Non prese con sé che una piccola borsa e uscì accompagnata dalla cameriera lasciando la lettera sulla scrivania. Non vide carrozzelle presso l’albergo e si avviò verso l’esedra per prendervi il tram. Infuriava il tramontano, i lecci del viale si dibattevano stridendo, era buio, si camminava malissimo sul suolo tutto sossopra, la cameriera esclamò sgomenta: «Gesummaria, signora, dove andiamo?» Jeanne, col capo in fiamme, col cuore e i polsi in tumulto, continuò la via senza rispondere; parendole venir portata dai flutti di un mare ignoto, nelle tenebre, verso lui. Verso lui, verso lui. Anche verso il suo Dio? Il vento potente la stordiva ruggendole sopra e ai lati. Le parole di Noemi, le parole di Carlino le straziavano l’anima con opposta violenza. Anche verso il suo Dio? Ah che ne poteva sapere? Intanto verso lui!
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