Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Antonio Fogazzaro
Il santo

IntraText CT - Lettura del testo

      • 9. Nel turbine di Dio.
        • -1-
Precedente - Successivo

Clicca qui per attivare i link alle concordanze

9. Nel turbine di Dio.

 

-1-

 

Alle due pomeridiane del giorno seguente Jeanne aspettava in casa Selva, con Maria e Noemi, le notizie di villa Mayda non senza pensare di quando in quando al silenzio pertinace del Grand Hôtel. Giovanni era andato a villa Mayda prima delle sette. N’era ritornato alle nove. Non aveva potuto vedere Benedetto. Il professore Mayda non l’aveva permesso né a lui né ad altri. Sapeva che l’ammalato aveva ricevuto i Sacramenti, ma piuttosto per devozione che per imminenza di pericolo. Però nella notte un filo di febbre si era rifatto. Si sperava ora di poter dominare l’accesso, contenerlo. Forse Giovanni nel fare la sua relazione a Jeanne l’aveva un po’ colorata di ottimismo. Benedetto stava nella camera stessa del professore. Non era possibile, disse Giovanni, immaginare con quale femminile squisitezza di cure egli fosse assistito da questo terribile Mayda che tanti credevano duro e superbo.

Giovanni era ritornato colà dopo colazione, sul mezzogiorno. Da parte di Carlino, niente; né scritti né messaggi. Jeanne, malgrado l’altra grande angoscia, non poteva a meno di pensare anche a lui. Se il dolore, la collera, lo avessero fatto ammalare? Le amiche la rassicuravano. La cameriera o il cameriere sarebbero venuti ad avvertirla! Ella dubitava della intelligenza di quella gente. Che fare? Jeanne era per chiedere che si mandasse qualcuno ad informarsi, quando, alle due e un quarto, si udì un passo frettoloso nell’anticamera ed entrò Giovanni col soprabito indosso e col cappello in mano. Jeanne lo guardò in faccia, intese ch’era venuto il momento. Si alzò, bianca come una morta. Subito si alzarono silenziosamente anche Maria e Noemi, la prima guardando Jeanne, Noemi guardando suo cognato che non sapeva, davanti a quel viso spettrale di Jeanne, trovar parole. Furono cinque o sei terribili secondi, non più. Maria disse sommessamente:

«Si va?»

Suo marito rispose:

«È meglio.»

Niente altro fu detto.

Le tre signore si ritirarono per mettere mantello e cappello; Jeanne in una stanza, Maria e Noemi in un’altra. Giovanni seguì quest’ultime. Dunque? La febbre è salita molto, il professore non ha più speranza. Noemi, udito questo, mette il cappello in furia e va nella camera di Jeanne che sta mettendo il suo. Jeanne si volta, la vede venire a un bacio, la ferma col gesto, si pone un dito alle labbra. Noemi intende. È l’ora della fortezza, Jeanne non vuole baci né parole né lagrime. E non domanda particolari, non domanda niente. Si raccolgono tutti; Maria dice piano a suo marito di prendere due carrozzelle coperte, anche perché il cielo si è annerito, un temporale da inverno romano è imminente. Non occorrono carrozzelle. Giovanni è venuto col landau di casa Mayda. Si sale nel landau, chiuso. Jeanne si accorge allora che le sue compagne sono vestite di scuro e che lei ha un vestito cenere, troppo chiaro, troppo elegante. Trasalisce lievemente, gli altri la interrogano collo sguardo. Ella esita un momento, pensa che non ha né tempo né modo di rimediare, risponde:

«Niente.»

Si parte. Nessuno parla più.

Svoltando in via del Pianto, la carrozzella si ferma per un impedimento. Si è fatto ancora più buio, tuona, i cavalli s’impennano, Maria guarda inquieta dallo sportello; Jeanne, ch’è seduta in faccia a Giovanni, gli domanda sotto voce se ha telegrafato a don Clemente. Giovanni risponde che don Clemente è a villa Mayda fino dalle dieci e mezzo. La carrozza prosegue. A Piazza Montanara comincia la pioggia. I cavalli trottano serrato. Quando finalmente il cocchiere li mette al passo, Maria guarda suo marito: – È bene l’Aventino? Dobbiamo essere vicini. – Questo è detto con gli occhi, non con le labbra. Jeanne non era mai passata di là ma sente anche lei che si è per arrivare. Eretta sulla persona, guarda il muro che le passa davanti agli occhi. Lo guarda attentamente come se volesse contare le commessure delle pietre. I cavalli riprendono il trotto. Passato Sant’Anselmo, si scende al basso. Popolani fermi, a destra e a sinistra, guardano nella carrozza. Giovanni Selva mormora involontariamente:

«Ecco.»

Allora Jeanne ha un sussulto, si copre impetuosa il viso colle mani. Maria, seduta al suo fianco, le cinge il collo con un braccio, si piega tutta a lei, le sussurra:

«Coraggio!»

Ma Jeanne si stringe in sé, si schermisce quanto può, e Noemi accenna a sua sorella, scuotendo il capo, di smettere. Maria sospira e la carrozza svolta a sinistra fra due fitte ali di gente, passa un cancello. Le ruote stridono sulla ghiaia, si fermano. Un domestico viene allo sportello. Il signor professore prega di favorire nella villa. Solamente allora Giovanni Selva dice alle sue compagne che Benedetto non è più nella villa, che ha voluto essere portato nella sua vecchia cameretta in casa del giardiniere. La carrozza procede di qualche passo, i quattro scendono fra due gruppi di palme, davanti a una gradinata di marmo bianco. Piove ancora ma non molto e nessuno se ne cura, né il popolo che si affolla al cancello né un gruppo di persone che dal viale di aranci discendente lungo il muro di cinta alla casina del giardiniere sta guardando i nuovi arrivati. Qualcuno si stacca da quel gruppo. È di Leynì che sale la gradinata di marmo bianco dietro a Selva, lo ferma sotto un’arcata del vestibolo pompeiano e discorre con lui a voce bassa, senza dare un’occhiata alla magnifica scena distesa fra i due gruppi di palme, al fiume di begonie che casca fra due sponde di muse giù per la china dell’Aventino, al nero cielo procelloso tagliato da strie bianche laggiù sopra i merli di Porta San Paolo, sopra la piramide di Caio Cestio e la selvetta funebre che pullula dal cuore di Shelley.

 

 

Selva entrò nel vestibolo e ricomparve un momento dopo con sua moglie. I due scesero la gradinata insieme a di Leynì, si avviarono verso le persone che parevano aspettarli nel viale degli aranci. In quel momento un fuoco di voci sdegnose divampa al cancello. La via è piena di popolo. Aspettano da ore, da quando è corsa nel quartiere del Testaccio la voce che il Santo di Jenne è ritornato infermo a villa Mayda. Finora si sono accontentati di notizie. Adesso hanno chiesto che una deputazione possa entrare, vederlo; i domestici rifiutano di portare il messaggio, avviene uno scambio di parole irose che improvvisamente si cheta. Compare dal viale degli aranci l’alta figura bruna del professore Mayda, i popolani si levano il cappello. Egli ordina di aprire il cancello, dice al popolo che tutti vedranno Benedetto ma più tardi, che intanto entrino pure nel giardino. «Ma sì, povera gente!».

E il popolo entra lento, rispettoso, alcuni attorniano il professore, lo interrogano colle lagrime agli occhi:

«È vero, signor professore? È vero che muore? Dica!»

E dietro a loro si accalcano altri, ansiosi, aspettando la risposta. La risposta è solamente questa: «Ma! Cosa volete che vi dica?»

Il virile viso malinconico dice più delle parole e la folla s’inoltra compunta per le verdi chine, livide in faccia al cielo nero striato di bianco, mistico simbolo di morte, di un oscuro passo dalle ombre terrestri alle alte vie dalla chiarità infinita.

 

 




Precedente - Successivo

Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2008. Content in this page is licensed under a Creative Commons License