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Antonio Fogazzaro Il santo IntraText CT - Lettura del testo |
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I Selva e di Leynì raggiunsero il gruppo di persone che li aspettavano nel viale degli aranci. Erano tutti laici meno uno, un giovine sacerdote abruzzese, piccolo, dal viso olivastro, dagli occhi neri, profondi e ardenti. Vi era lo studente Elia Viterbo, ora cristiano, stato battezzato da quel sacerdote. Vi era il biondo giovinetto lombardo prediletto dal Maestro. Vi era un giovine operaio, abruzzese anche lui, amico del prete, bellissimo, dalla faccia di apostolo; vi era quell’Andrea Minucci della riunione religiosa di Subiaco; vi erano un pittore, un ufficiale di marina comandato al Ministero e altri; tutti uomini che ogni amore terreno avrebbero sacrificato all’amore di Benedetto. Nessuno di loro aveva creduta vera una sola delle voci calunniose sparse contro di lui. Lo avevano difeso con impetuoso sdegno contro i compagni diffidenti. Si potrà dire di essi un giorno che furono posti alla prova dalla Provvidenza ed eletti quindi a continuatori dell’opera del Maestro. Di Leynì era della loro schiera; in Giovanni Selva essi ammiravano e riverivano un uomo ammirato e riverito dal Maestro, provandone però soggezione. Stavano da un pezzo nel viale degli aranci ad aspettare appunto lui; perché a entrar dal Maestro non si aspettava che il signor Giovanni. Molti di loro avevano le lagrime agli occhi. All’avvicinarsi dei Selva, tutti si levarono il cappello in silenzio. Giovanni si avviò, seguito dall’intero gruppo, verso la casina. Sua moglie veniva ultima. Uno dei giovani le accennò di passare avanti, ma ella non volle e nessuno insistette. Non era luogo né ora di cerimonie; Maria sentiva che quegli uomini erano chiamati prima di lei a continuare l’opera di Benedetto dopo la sua morte. Camminavano in silenzio e a capo scoperto malgrado la pioggia, Selva come gli altri. Mayda li ricevette sulla soglia. Al suo ritorno dall’Università, egli aveva accolto la notizia del passaggio di Benedetto alla casina con un terribile scoppio di collera. Non aveva poi disarmato con la suora, con il giardiniere, con i servi; ma si era persuaso in cuor suo, considerando la nota delle temperature prese ogni mezz’ora, che quel colpo di follia non aveva modificato sensibilmente il corso fatale della febbre. Alla domanda se si dovesse restar poco nella camera, cercare che l’ammalato parlasse il meno possibile, rispose: «Fate tutto quello che desidera; è il banchetto del condannato.» E li precedette sur una scaletta di legno. «I tuoi amici» diss’egli, entrando nella camera. Li fece passare, e, chiuso l’uscio, si appoggiò a uno stipite della porta, con le mani incrociate dietro il dorso, guardando Benedetto. L’alta figura bruna non si mosse più di là tutto il tempo che Benedetto trattenne i suoi fedeli. Benedetto aveva il viso acceso, gli occhi lucenti, il respiro frequente. Salutò gli amici con un «grazie» vibrante di sovreccitazione lieta che strappò a qualcuno dei singhiozzi. Allora egli alzò la mano come pregando di chetarsi. Dopo ricevuto il Viatico la sua continua preghiera era stata di poter parlare ai suoi discepoli prediletti, di avere da Dio parole di verità e forza bastevole a pronunciarle. Si sentiva ora il petto pieno dello Spirito. «Venitemi vicini» diss’egli. Il giovinetto biondo passò avanti agli altri, s’inginocchiò, rigato il viso di tacite lagrime, al letto del Maestro che gli posò la mano sul capo e riprese: «Restate uniti.» Le dolorose parole taciute accorarono maggiormente; ma ciascuno sentì che quell’anima era per dare l’ultima luce di ammaestramento e di consiglio, ciascuno represse il pianto. La voce di Benedetto suonò nel silenzio più profondo. «Pregate senza posa e insegnate a pregare senza posa. Questo è il fondamento primo. Quando l’uomo ama veramente di amore una persona umana o una idea della propria mente, il suo pensiero aderisce in segreto continuamente al suo amore mentr’egli attende alle più diverse occupazioni della vita, sia vita di servo, sia vita di re; e ciò non gli toglie di attendervi bene ed egli non ha bisogno di rivolgere molte parole al suo amore. Gli uomini del mondo possono portare così nel loro cuore una creatura, una idea di verità o di bellezza. Portate voi sempre nel vostro il Padre che non avete veduto ma che avete sentito tante volte come uno Spirito di amore spirante in voi, che vi metteva il desiderio dolcissimo di vivere per esso. Se così farete, l’azione vostra sarà tutta viva di spirito di Verità.» Riposò un poco, guardò don Clemente seduto accanto al letto, sorrise. «Parole Sue della cara Santa Scolastica» diss’egli. E continuò: «Siate puri nella vita perché altrimenti disonorerete Cristo davanti al mondo; siate puri nel pensiero perché altrimenti disonorerete Cristo davanti agli spiriti di bontà e agli spiriti di nequizia che si combattono nelle anime dei viventi.» Detto così, egli cinse col braccio la testa del giovinetto biondo quasi a difenderla dal male e pregò nell’anima per lui ch’era forse la sua maggiore speranza. Poi ripigliò: «Siate santi, non cercate né lucri né onori, mettete in comune per le vostre opere di verità e di carità il superfluo misurato secondo la voce interna dello Spirito. Siate benefici amici a tutti i dolori umani nei quali v’incontrerete, siate mansueti ai vostri offensori e derisori che saranno molti anche nell’interno della Chiesa, siate intrepidi a fronte del male; datevi alle necessità l’uno dell’altro; perché se tali non vivrete non potrete servire lo Spirito di Verità e perché il mondo riconosca la Verità dai vostri frutti, perché i fratelli riconoscano dai vostri frutti che voi siete di Cristo.» Don Clemente si piegò sopra di lui per la pietà del suo respirare affannoso, gli disse piano che riposasse. Benedetto gli prese, gli strinse la mano, tacque alcuni istanti. Poi, levatigli in viso i grandi occhi lucenti, rispose: «Hora ruit.» E ricominciò: «Ciascuno di voi adempia i suoi doveri di culto come la Chiesa prescrive, secondo stretta giustizia e con perfetta obbedienza. Non prendete nomi per la vostra unione, né parlate mai collettivamente, né fatevi regole comuni oltre a queste che vi ho dette. Amatevi, l’amore basta. E comunicate gli uni con gli altri. Molti lavorano nella Chiesa lo stesso lavoro al quale vi preparate voi con la preparazione morale che vi ho prescritta: voglio dire un lavoro di purificazione della fede e di penetrazione della fede purificata nella vita. Onorateli e apprendete da essi ma non fateli partecipi della vostra unione se spontaneamente non vengano a voi per mettere il loro superfluo in comune. Questo sarà il segno che Iddio li manda a voi.» Qui Benedetto s’interruppe, pregò dolcemente Giovanni Selva di venirgli più vicino. «Desidero vederla» diss’egli. «Quello che ho detto e più ancora quello che dirò è nato da Lei.» Stese la mano a prendere quella di don Clemente, soggiunse: «Il padre lo sa. – Noi dobbiamo sentire Iddio presente in noi stessi ma dobbiamo anche sentirlo ciascuno di noi nell’altro e io lo sento tanto in Lei. – Sì» proseguì volgendosi a don Clemente come per un appello alla sua autorità «questo è il fondamento vero della fraternità umana e per questo coloro che amano gli uomini e si figurano di essere freddi con Dio sono più vicini al Regno di tanti che si figurano di amare Dio e non amano gli uomini.» Il giovine prete che stava, quasi timidamente, dietro Selva, esclamò: «oh sì sì!» Selva piegò il capo, sospirando. L’alta figura bruna addossata a uno stipite della porta non si mosse, ma il suo sguardo fermo a Benedetto ebbe una intensità, una tenerezza, una tristezza indicibili. Don Clemente si piegò da capo all’infermo, gli disse di sostare un poco; anche la suora ne lo pregò. Mayda non parlò né parlarono i discepoli. Benedetto bevve un po’ d’acqua, ringraziò e riprese il suo dire. «Purificate la fede per gli adulti ai quali è incomportabile il cibo degl’infanti. Questa parte del vostro lavoro è per quelli che sono fuori della Chiesa, le appartengano di nome o no, per quelli ai quali voi vi mescolerete incessantemente. Lavorate a glorificare l’idea di Dio adorando sopra ogni cosa la Verità e insegnando che non vi è verità contro Dio né contro la Sua legge. Badate però con altrettanta cura che gl’infanti non accostino la bocca al cibo degli adulti. Non vi offenda una fede impura, una fede imperfetta dove pura è la vita e giusta è la coscienza; perché rispetto alle profondità infinite di Dio poca differenza vi è tra la fede della femminetta e la fede vostra e se la coscienza della femminetta è giusta, se la sua vita è pura, voi non passerete avanti a lei nel Regno dei Cieli. Non pubblicate mai scritti intorno a questioni religiose difficili perché sieno venduti ma distribuiteli secondo prudenza e mai non vi apponete il vostro nome. «Lavorate per la penetrazione della fede purificata nella vita. Questo lavoro è per quelli che nella Chiesa sono e nella Chiesa vogliono essere e si chiamano turba, popolo infinito; per coloro che veramente credono nei dogmi e si compiacerebbero di crederne anche più, che veramente credono nei miracoli e si compiacciono di crederne anche più, ma veramente non credono nelle Beatitudini, che dicono a Cristo: «Signore, Signore!» ma pensano che sarebbe troppo duro di fare tutta la Sua volontà e neppure hanno zelo di cercarla nel Libro Santo e non sanno che religione è sopra tutto azione e vita. A costoro che pregano abbondantemente, spesso idolatricamente, insegnate voi a praticare, oltre alle preghiere prescritte, anche la preghiera mistica in cui è la fede più pura, la più perfetta speranza, la più perfetta carità, che purifica per sé l’anima e purifica la vita. Vi dico io di prendere pubblicamente il posto dei Pastori? No; ciascuno lavori nella propria famiglia, ciascuno lavori fra i propri amici, chi può lavori nel libro. Così lavorerete anche il terreno onde i Pastori sorgono. «Figli miei, non vi prometto che rinnoverete il mondo. Lavorerete nella notte senza profitto apparente come Pietro e i suoi compagni sul mare di Galilea, ma Cristo alfine verrà e allora il vostro guadagno sarà grande.» Tacque, pregò per i suoi discepoli, sospirò nella prescienza di molto loro soffrire da molte specie di nemici e disse le ultime parole: «Più tardi le vostre preghiere; adesso il vostro bacio.» I discepoli domandarono a una voce di essere benedetti. Egli si schermì, disse di non sentirsi degno: «Non sono che il povero cieco, al quale il Signore ha aperti gli occhi col fango.» Don Clemente non parve udire, s’inginocchiò dicendo: «Anche me.» Benedetto gl’impose con umile obbedienza la mano sul capo, disse le parole latine della benedizione rituale e lo baciò. Così fece agli altri, uno per uno. Parve a ciascuno sentirsi fluire nell’interno da quella mano il vento dello Spirito. Quando fu la volta del prete, questi mormorò: «Maestro, e noi?» Il morente si raccolse alcuni istanti, rispose: «Siate poveri, vivete da poveri, siate perfetti, non compiacetevi né di titoli né di vesti di onore, non dell’autorità personale né dell’autorità collettiva, amate coloro che vi odiano, astenetevi dalle parti, pacificate nel nome di Dio, non accettate uffici civili, non tiranneggiate le anime né vogliate governarle troppo, non fate culture artificiali di sacerdoti, pregate Dio di esser molti ma non temete di esser pochi; non crediate che vi abbisogni molta scienza umana, solo vi abbisogna molto rispetto per la ragione e molta fede nella Verità universale e inscindibile.» Ultima si avvicinò Maria Selva. S’inginocchiò a due passi dal letto. L’infermo le sorrise, le fe’ cenno di alzarsi. «La ho già benedetta in Suo marito» diss’egli. «Non li so distinguere. Ella è una parte dell’anima sua. Ella è il suo coraggio, lo sia sempre più nelle ore penose che lo aspettano. E siate insieme la poesia dell’amore cristiano fino all’ultimo. Fermatevi ora qui un poco tutt’e due.» La luce venne meno rapidamente nella camera mentre i discepoli uscivano. Si udì il rombo del tuono, la suora andò a chiudere la finestra. Prima guardò nel giardino, esclamò: «poverini!» Benedetto udì, volle sapere, apprese che il giardino formicolava di persone venute per vederlo, che una pioggia tempestosa era imminente. Pregò i Selva di attendere e Mayda di far entrare il popolo.
Un calpestio pesante suonò sulla scaletta di legno. La porta si aperse, parecchi popolani entrarono adagio in punta di piedi. In un momento la camera fu piena. Una calca di teste scoperte si affacciava alla porta. Nessuno parlava, tutti guardavano Benedetto, smarriti, riverenti. Benedetto salutò colle due mani, a braccia aperte. «Vi ringrazio» diss’egli. «Pregate come certo a qualcuno di voi ho insegnato. E Dio sia con voi, sempre.» Un omone grande gli rispose, tutto rosso: «Noi si pregherà ma Lei non more, sa. Lei non creda sta cosa. Però ce benedica.» «Sì, ce benedica» suonò da ogni parte. «Ce benedica.» Intanto dalla scaletta venivano voci impazienti di gente che voleva e non poteva salire. Benedetto disse qualche cosa, piano, a don Clemente. Don Clemente ordinò che i presenti sfilassero davanti al letto uscendo poi dalla camera perché potessero sfilare anche gli altri. A uno a uno passarono tutti. Erano genterella del Testaccio, operai, garzoni di negozio, venditrici di frutta, piccoli merciaiuoli, accattoni. Benedetto andava ripetendo di tanto in tanto, con voce stanca, parole di congedo. – Addio. – Pregate per me. – A rivederci in paradiso. – Chi passando davanti lui piegava il ginocchio in silenzio, chi toccava il letto e si faceva il segno della croce, chi gli raccomandava sé o persone care, chi gli diceva benedizioni. Uno gli domandò perdono di aver creduto ai suoi calunniatori. Fu allora una sequela di «anche a me, anche a me.» Passò la gobbina di via della Marmorata, cominciò a raccontargli piangendo che il suo vecchio prete si era confessato e avrebbe voluto dirgli tutta la sua gratitudine. Chi seguiva la spinse via ed ella passò per sempre dagli occhi di lui. Tanti così gli passarono davanti l’ultima volta e piangendo si allontanarono da lui per sempre, ch’egli aveva consolati nello spirito e nel corpo. Molti ne riconobbe e salutò col gesto. Quelli giravano via pure girando il volto lagrimoso continuamente a lui. La fila che scendeva sfiorando sulla scaletta la fila che saliva, le antecipava le impressioni della camera dolorosa. – Ah che viso! – Ah che voce! – Dio, muore! – È un angelo di Dio! –Vedrete! – Ci ha il paradiso negli occhi! – E non pochi mormoravano maledizioni agi’infamacci che lo avevano calunniato, non pochi parlavano, fremendo, di veleno e di assassinio. Dio, portato via dai questurini, ritornava così! Un lugubre tuonare continuo e il gran pianto uguale della pioggia coprivano i sussurri pietosi e irosi. Finito di scolare il fiume del popolo, Mayda fece aprire la finestra perché l’aria si era viziata. Benedetto pregò che gli alzassero un poco il capo, desiderando vedere il gran pino inclinato al Celio. La verde livida corona dell’ombrello tagliava obliqua il cielo tempestoso. La guardò a lungo. Riadagiato il capo sul guanciale, accennò a don Clemente di piegarsi verso di lui, gli disse, quasi all’orecchio: «Sa, quando mi hanno portato qua dalla villa, ho sentito un fortissimo impulso a pregare che mi portassero sotto il pino che si vede dalla finestra, per morire lì. Ma ho anche pensato subito ch’era una cosa troppo voluta, e che non era buona. E poi – soggiunse sorridendo – sarebbe sempre mancato l’abito.» Un lieve moto delle labbra di don Clemente gli rivelò ch’egli aveva recato l’abito con sé da Subiaco. N’ebbe un assalto di commozione intensa. Giunte le mani, stette in silenzio fino a che durò la lotta interna fra il desiderio che la Visione si compiesse e la coscienza che non si sarebbe compiuta naturalmente. Si raccolse in un atto di abbandono alla Divina Volontà. «Il Signore vuole che io muoia qui» diss’egli. «Però mi permette di avere almeno l’abito sul letto prima di morire.» Don Clemente si chinò sopra di lui e lo baciò in fronte. Intanto i Selva attendevano in disparte. Benedetto li chiamò a sé, disse loro che avrebbe ricevuto la signora Dessalle fra mezz’ora, ma che la pregava di non venire sola. Poteva venire con loro. Insieme ai Selva uscì anche Mayda. La suora dormicchiava. Allora Benedetto pregò don Clemente di recarsi poi dal Pontefice, di dirgli come la fine della Visione non si fosse avverata, come quindi tutto l’apparente miracoloso della sua vita svanisse, come finalmente egli avesse sentita con grande dolcezza, prima di morire, la benedizione del Papa. «E gli dica» finì «che spero di poter parlare ancora nel suo cuore.» L’ambascia era diminuita ma la voce si affiochiva, le forze venivano mancando colla febbre. Don Clemente gli prese e tenne a lungo il polso. Poi si alzò. «Lei va a prendere l’abito?» mormorò Benedetto con un sorriso dolcissimo. Il bel viso del padre si coperse di rossore. Egli vinse presto il sentimento umano che gli consigliava di simulare, e rispose: «Sì, caro. Credo che sia il tempo.» «Che ore sono?» «Le cinque e mezzo.» «Lei crede alle sette? Alle otto?» «No, non così presto, ma desidero che tu abbia questa consolazione subito.»
In un salottino della villa, Giovanni Selva, guardato l’orologio, disse a sua moglie: «Andate.» L’intelligenza era che con Jeanne andassero da Benedetto Maria e Noemi. Questa stese le mani a suo cognato. «Sai» diss’ella, tutta tremante « vado a dargli una notizia che riguarda l’anima mia. Non ti offendere se la do a lui prima che a te.» Jeanne intuì la notizia che Noemi avrebbe portato al morente: la sua prossima conversione al Cattolicismo. Tutta la forza ch’ell’aveva raccolto in sé per il momento supremo l’abbandonò. Abbracciò Noemi e scoppiò in lagrime. I Selva le fecero animo, ingannandosi circa quel pianto. Ella pregò, fra i singhiozzi, che andassero, che andassero; a lei era impossibile di venire. Noemi sola intese. Jeanne non voleva venire perché aveva indovinato e non poteva fare quanto avrebbe fatto lei. La supplicò, la scongiurò, le mormorò tenendola abbracciata: «perché non cedi, in questo momento?» Jeanne rispose solamente, singhiozzando: «Oh tu mi capisci!» E perché Noemi protestava di non voler più andare, la supplicò alla sua volta di andare, di andare subito, di non tardare a dargli questa consolazione. Ella non poteva, non poteva, non poteva! Non ci fu verso di smuoverla. Un domestico venne a chiamare Selva. Maria e Noemi uscirono. Rimasta sola, Jeanne ebbe un momento l’idea di raggiungerle, di arrendersi, di andargli a dire ella pure una parola di gioia. Cadde ginocchioni, stese le braccia, quasi a lui che le stesse davanti, singhiozzò: «caro, caro, come ti potrei ingannare?» Aveva lottato più volte col proprio scetticismo imperioso e sempre invano. Uno slancio di dedizione alla fede, lo sapeva, non sarebbe stato durevole. «Perché non mi vuoi sola?» gemette ancora, sempre ginocchioni. «Perché non mi vuoi sola? Perché le coscienze pie non si offendano? Perché la mia disperazione non ti turbi? Perché non mi vuoi sola? Posso io dire davanti a loro quello che ho dentro di me? Tu che sei buono come il tuo Signore Gesù, perché non mi vuoi sola? Oh!» Ella scattò in piedi, convinta che se Piero la udisse risponderebbe «sì, vieni.» Stette un attimo come impietrata, colle mani alle tempie; e mosse poi lentamente, simile a una sonnambula, uscì del salotto, attraversò il vestibolo, scese in giardino. Pioveva tanto dirottamente, il cielo, corso tuttora di tempo in tempo dal tuono, era tanto fosco che prima delle sei, quella sera di febbraio, pareva già quasi notte. Jeanne entrò come stava, a capo scoperto, nella pioggia fitta e fredda, prese, senz’affrettar il passo, non il viale degli aranci a destra ma il sentiero che scende a sinistra fra due righe di grandi agavi a un boschetto di lauri, di cipressi e di ulivi cui si aggrappano rose. Passò dal gran pino che guarda il Celio e girando al basso verso destra per un lungo arco di via, si condusse alla fonte che un avello antico raccoglie nel pendìo ripido fra una cintura di mirti, pochi passi più giù che la casina del giardiniere. Ivi si fermò. Una finestra della casina luceva; certo la finestra di Piero. Vi passò un’ombra; forse Noemi! Jeanne sedette sull’orlo marmoreo della vasca. Era possibile di affogare lì dentro? Avrebbe cercato di morire se non ci fosse Carlino? Pensieri vani; non vi si trattenne. Attese, attese, sotto la pioggia fredda, con gli occhi e l’anima fermi alla finestra lucente. Altre ombre. Partono, adesso? Sì, forse partono Maria e Noemi ma non lasceranno Piero solo. Ci sarà Mayda, ci sarà il benedettino, ci sarà la suora. Ebbene, ella tenterà. Un passo frettoloso nel viale degli aranci; qualcuno che si avvia alla casina. Jeanne, che si era alzata, torna a sedere. Ecco, quell’ignoto è entrato. Movimento di ombre alla finestra. Due persone escono parlando vivacemente; le voci del professore e di Giovanni Selva. Pare che parlino di qualcuno venuto a prendere notizie. Altre persone escono, l’acqua delle grondaie mormora sugli ombrelli. Devono esser loro, Maria e Noemi. Jeanne si alza da capo, si avvia. Passa l’uscio della casina, vede gente nella cucina del giardiniere, prega una ragazza di salire a vedere presso l’ammalato, chi ci sta. Quella esita, cerca schermirsi, ma poi va, scende subito. Ci stanno il prete e la suora. Jeanne domanda un po’ di carta, una matita, un lume. Comincia a scrivere: «Padre – Mi rivolgo...» S’interrompe, sta in ascolto. Qualcuno scende la scaletta di legno. Un passo d’uomo; dunque il padre. Allora gli parlerà. Butta via la matita, gli va incontro sulla scaletta. È scuro, don Clemente la scambia per Maria Selva. «È quieto» dice, prima ch’ell’apra bocca. «Pare che dorma. Gli ha fatto tanto bene quello che Sua sorella gli ha detto. Il professore crede che passerà la notte. Faccia venire anche l’altra signora. L’ha domandata. Credevo che fossero andate a prenderla.» Jeanne tace, si fa da banda. Egli dice «permesso» e passa senza guardarla, va in cucina per avere un po’ di pane e un po’ d’acqua, digiuno com’è dalla sera precedente. Jeanne trema come una foglia. Egli l’ha domandata! Queste parole, il favore del caso le danno le vertigini. Sale piano piano, spinge l’uscio piano piano. La suora la vede, fa per alzarsi. Ella le accenna, col dito alla bocca, di non si muovere, si accosta piano piano al letto, vede una lunga cosa nera distesa sulle coltri, si arresta esterrefatta, non comprende. Ode un lievissimo gemito. Il giacente alza la mano destra con un gesto vago, come se cercasse qualche cosa. La suora si alza ma Jeanne, più pronta, è di slancio al guanciale, si china su Piero che ha ripreso a gemere, ad agitar la mano. Jeanne lo interroga affannosa, egli non risponde, geme, guarda qualche cosa accanto al letto e Jeanne offre un bicchiere d’acqua, gli vede scotere il capo, si dispera di non capire. Ah, il Crocifisso, il Crocifisso! La suora alza il lume da terra, Jeanne porge il Crocifisso a Piero che gli affligge le labbra e la guarda, la guarda con gli occhi grandi, vitrei, dov’è la morte. La suora getta un grido, corre a chiamare il padre. Piero guarda Jeanne, guarda Jeanne, si sforza di prendere il Crocifisso a due mani, di alzarlo verso lei, le sue labbra si agitano, si agitano, non ne esce suono. Jeanne si raccoglie nelle proprie le mani di Piero, bacia il Crocifisso di un bacio appassionato. Egli chiude allora gli occhi, il suo volto s’irradia di un sorriso, si piega un poco sulla spalla destra, non si move più.
FINE.
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