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Antonio Fogazzaro
Il fiasco del maestro Chieco

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    • IL FIASCO DEL MAESTRO CHIECO.
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Il mattino dopo l'amico mio se ne andò a Comano per tempo. Io vagai lungo il lago, e prese le 'zette dell'Imarò' che fiancheggiano i precipizi in fondo a cui si rigira, per un bagliore di ghiaie, la Sarca verde, giunsi a veder là di fronte, fra montagna e montagna, un cucuzzolo bianco, il ghiacciaio della Tosa. A colazione ebbi con la signora Purgher un dialogo su Chieco. Matto diceva ma che cuore!. Gli aveva visto prodigare oro ai poveri come un principe e parole assai più preziose dell'oro; abbracciare una vecchia pezzente che somigliava a sua madre. Di questa lo aveva udito parlar con un fuoco che gli empiva gli occhi di luce e di lagrime. Peccato che non avesse freno nel trattare con le donne! Era un orrore per quello. La signora Purgher finì col farmi acquistare, era la sua frase, un eccellente bicchier di Isera, dopo di che mi accinsi a rabberciar le strofette melliflue del poeta B. secondo certi concetti shakesperiani espressimi la sera antecedente dall'amico Chieco.

Il pomeriggio di quel giorno e tutto il giorno appresso furono interamente occupati dai preparativi del ballo. Chieco ne parlava come lo offrisse lui questo ballo, ma in fatto non aveva offerto che la sua direzione, la sua camera, la musica e l'acqua. Le provvigioni, i fiori, i fuochi di artificio vennero, per cura della società di Comano, in parte da Comano, in parte da Trento, insieme a tre famelici musicanti, un pianista e due violinisti, che noi battezzammo Trinculo, Stefano e Calibano; Chieco ne elesse subito uno a suo gran tappezziere, un altro a suo gran facchino, il terzo a suo grande sottocuoco. Lavoravano come scimmioni goffi, istupiditi da quella novità di mestiere e di padrone, guardando costui con un comico sgomento, non osando ribellarsi né sapendo se almeno fosse loro lecito di ridere.

Tu non fai niente, brutto straccione mi disse Chieco ma stasera ti cambio nome vestito e mestiere, ti sollevo a mio primo lustrascarpe e barcaiuolo. Ho fatto venire apposta un canotto da Riva.

Gli chiesi il perché di tanto onore, ma egli non me lo volle dir subito. Dopo pranzo mi prese a braccetto e mi condusse in giardino.

Parliamo sul serio disse egli. Poiché non la posso sposare io, come si fa? la devi sposare tu. Maledetti voi che siete nati uno per l'altro!.

Mi dirai almeno il suo nome! interruppi ridendo. Non ridere! Tu non sai quanto bestia io sono in questo momento e quanto stupido sei tu. Perché lei ti vorrà bene, capisci, e tu ne vorrai a lei, e io che se ci penso ti strozzerei come l'ultimo dei piccioni, te la do, te la do e che siate maledetti!.

Ciò detto mi saltò al collo, mi baciò, mi strinse in modo che lo credetti impazzito davvero.

Ti voglio bene, sai disse egli perché ci conosciamo da tanti anni, perché non scrivi musica e ti piace la mia; ma se mi amasse, tu non saresti qui. Non ridere e non domandare il suo nome. La vedrai stasera. Se non ti piace è inutile che tu ne sappia il nome. Le ho già detto che ho qui un canotto e un domestico, e che questo domestico sa remare e che ella potrà fare una corsa sul lago. Ha accettato a patto che io non venga. Andrà con te solo, dunque. E adesso, mi dai trentadue lire e settantacinque centesimi.

Feci un atto di meraviglia.

Oh! furfante! esclamò Chieco. Vuoi che l'abbia fatto venire a mie spese il canotto? Vuoi fare all'amore tu e che io paghi? Come sei 'ragionàt'!.

Non capivo bene, sulle prime, se scherzasse o no, ma il dubbio durò poco. Chieco voleva veramente le trentadue lire e io le sborsai, dichiarando tuttavia che in canotto non ci sarei andato poiché la sua incognita non mi tentava affatto.

Oh diss'egli tu vuoi farti rendere il denaro?.

Alle corte, dovetti promettere, per non offenderlo, di fare a suo modo, ma soggiunsi che non sarei uscito un momento dalla mia parte di barcaiuolo.

 

 




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