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Antonio Fogazzaro
Il fiasco del maestro Chieco

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    • UN'IDEA DI ERMES TORRANZA.
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L'annuncio così crudo, inatteso, della morte di Torranza era stato per Bianca un colpo di sgomento e di dolore, che volle celare, quanto poté; a quella sciocca compagnia pettegola. Comprimer lo sdegno le riusciva men facile; e, venuti in campo i discorsi di Torranza al caffè Pedrocchi, era uscita per non prorompere contro suo padre che rideva e gli altri che compativano.

Si chiuse in camera. L'immagine di un nuovo Torranza, di un Torranza morto assai più grande e buono che non le fosse mai parso il vivo, le riempiva l'anima; e lo pianse, meravigliata delle proprie lagrime, di sentirsi una tenerezza tanto profonda. Averlo lasciato partire così, senza un addio! Ecco, se non fosse stato quel ch'era stato, ella si sarebbe trovata a Padova, lo avrebbe potuto vedere. Si rimproverò d'aver risposto un po' tardi all'ultima sua lettera, di non averlo ringraziato bene della romanza. Tante altre sue piccole negligenze, tante altre lievi freddezze punto necessarie, che avevan forse rattristato il poeta, le tornavano tutte al cuore, le facevano male. Egli, un potente creatore d'anime e di figure ideali, l'aveva cullata, da bambina, sulle ginocchia, l'aveva consigliata, dopo il collegio, negli studi; sposa, l'aveva condotta alla più squisita intelligenza d'ogni arte; finalmente si era innamorato di lei come delle creature a cui il suo genio aveva dato vita e passione. Adesso Bianca voleva persuadersi d'essere stata amata così; sentiva più pura, in questo concetto, la memoria del poeta, e se più alta, più vicina, al paese in cui vivono i sogni dei grandi poeti spiritualisti. Egli l'amava ancora, povero amico; le si era voluto ricordare dal paese dei morti appena giuntovi. Era spirato, alle undici e mezzo; e Bianca si era sentito, prima della mezzanotte, il suo nome strano nel cuore.

Si picchiò all'uscio; era la signora Giovanna con una lettera urgentissima. Bianca prese la lettera senza guardarla, pregò sua madre di scendere a pranzo, di lasciarla sola. Non voleva trovarsi con papà prima d'essere un po' più calma; temeva che certi discorsi la irritassero troppo, le facessero dire quello che non avrebbe voluto. La signora Giovanna se n'andò sospirando, mentre sua figlia, chiuso l'uscio, si sorprendeva dell'oscurità sopravvenuta nella camera, del torbido mare che saliva davanti alle finestre. Vide per un momento ancora i fantasmi dei vasi ritti sul muricciolo della spianata, qualche altro spettro di piante vicine; poi niente, neppure un'ombra nel bianco immenso, eguale, impenetrabile. E stette a guardarvi su, attonita sentendo la voluttuosa dolcezza di trovarsi lì nella sua piccola camera tepida, a pensare, in grembo a quell'oceano silenzioso; sentendo una rispondenza arcana, indefinibile delle cose esterne con i pensieri che le empivano il cuore. Si ricordò a un tratto della lettera che aveva in mano, l'accostò ai vetri per decifrarne il carattere. Oh Dio! diss'ella.

L'aperse in furia con le mani convulse. Vi trovò uno scritto e una fotografia. Ravvisò tosto la barba bianca, l'abito nero, il fiore all'occhiello; lui insomma, Ermes Torranza.

Sentiva di dover leggere subito, non ci vedeva, non sapeva che si facesse, andava per la camera con la lettera in mano cercando a tastoni una candela che non v'era. Abbrancò un cerino sul suo tavolino da notte e l'accese. La fiammella mise un picciol lume sul legno lucido e sul crocefisso di bronzo, un gran buio nella camera. Bianca s'inginocchiò, macchinalmente, e lesse, sempre ginocchioni, lo scritto che segue:

 

 

Padova, 26 ottobre 1879

 

Cara, non si turbi, non si sgomenti; legga questa lettera come io la scrivo con la tranquillità più serena. Non è niente; il vecchio codino Torranza, che cosa strana!, se ne va. Mi dia la buona notte, cara Bianca; dispongo perché questa lettera Le sia inviata appena spento il lume.

Avvertito da una voce interna, ho fatto stamane, spontaneamente, quello che fece, prima di morire, il codino mio padre; adesso mi sento nel cuore qualcosa che si allenta, e insieme un silenzio pieno di riverente aspettazione. Avrò forse ancora quattro, sei, otto giorni; mi basta un'ora per Lei.

Bianca, nei nostri passati colloqui, Ella mi parve temere, qualche volta, di un'ombra; il suo gentile affetto per me n'era turbato, non sapeva come esprimere un risentimento. Non è vero? Pure vi è solo nel mio cuore una tenerezza che in questo stesso momento solenne non offende i pensieri più alti; tutta la colpa è del vecchio sangue fantastico che lascia sempre un po' di colore sui sentimenti e sulle parole. Mi perdoni e sorridiamone insieme, oramai.

Ho a farle un'altra preghiera e voglio porvi su il suggello della morte. Mi è amaro non averle dato in addietro più prudenti consigli circa i Suoi dissensi domestici e discender nella tomba con questo pensiero. Bianca, per il bene Suo, per il bene di persone che Le son care e un poco anche per la mia pace nel mondo a cui vado, mi ascolti; non resti a Monte San Donà. Ella, in fondo al cuore, ama certo ancora Suo marito. Questo povero giovane fa pietà. L'altro giorno mi ha parlato di Lei per un'ora, con le lagrime agli occhi. Mi disse di averle scritto più volte, mi riferì le Sue risposte che gli tolgono ogni speranza se i vecchi non acconsentono a una separazione, o, almeno, se non promettono mutare contegno con Lei; e coloro non piegano né all'una né all'altra cosa. Bianca, pensi che qualche diritto ceduto in silenzio, qualche torto patito senza sdegno, non per timore, ma per pietà delle persone ingiuste che pensano offenderci, leva l'anima nostra al di sopra del loro contatto irritante. Torni con suo marito. Non vi è tanto amore nel mondo da gettar via questo ch'è pur fedele, pur tenero, e non toglie la pace.

E ora, se si ricorda le nostre conversazioni sul mondo invisibile e sui fenomeni che il secondo nega perché lo umiliano, non troverà strano ch'io desideri manifestarmi a Lei, dopo la mia morte, in qualche modo sensibile. La sera del giorno stesso in cui riceverà questa lettera, si trovi sola, fra le dieci e le dieci e mezzo, nella Sua saletta del piano. Apra la porta che dà sul giardino; le ombre della notte devono poter entrare. Suoni quindi la breve introduzione della romanza che Le ho inviata venti giorni sono. Dopo di questo, se Dio permette ch'io sia presente e possa darne segno, anche lieve, lo darò. Ella non conosce paura e vorrà consentire all'ultima fantasia sentimentale di un vecchio poeta che muore.

È tempo di dirvi addio, Bianca. Ho qui davanti a me la testina leonardesca che Vi somiglia. Gli occhi dell'incognita sono ben grandi, i capelli più chiari, ma l'espressione originale del viso è la stessa. Questo dolce sole di ottobre che passa tra i miei libri chiusi, brilla sul quadretto. Vi vedo viva, depongo la penna. Vi guardo, Vi guardo, una ultima ed irragionevole lagrima mi cade e si perde per sempre, come lo merita. Addio, addio.

Ponete questo ritratto nel vostro salotto di Padova.

 

Ermes Torranza

 

 

Sì, sì sì singhiozzò Bianca appassionatamente. Tutto! Si chiuse il viso tra le mani, promise a Torranza, con uno slancio del cuore, che avrebbe appagato tutti i suoi ultimi desideri e pregò, senza parole, per esso.

Cadendo quell'impeto di fervore, il suo pensiero si assopiva, si perdeva, senza avvedersene in un altro campo. Ella non pregava più; aperte le mani, guardava la fiammella del cerino, si sentiva tornar nel cuore le conversazioni avute con Torranza sui misteri d'oltre la tomba.

Non cercava né combatteva queste memorie, le lasciava venire, inerte. Ad un tratto spense il cerino, pregò un altro poco e si rizzò. Era notte, il bianco oceano silenzioso empiva sempre le finestre, pareva essere in un'isola. Le venne in mente, malgrado se stessa, un racconto meraviglioso fattole dal poeta, una camera buia nel vecchio castello reale di Stoccolma, in mezzo al mare; il re Carlo XI che siede taciturno al fuoco ascoltando il dottore Paumgarten parlar della regina morta, poi si alza, va alla finestra e dice al conte Brahe: chi ha acceso i lumi nella sala degli Stati?.

Quivi non apparivano lumi; appoggiando il viso ai vetri si vedeva in alto, nella nebbia, un diffuso chiarore lunare. Bianca non poté a meno di pensare alla sala del piano, di vedervisi sola con le candele accese, ad aspettare uno spirito.

Alle sette e mezzo uscì di camera senza lume, discese la scala rischiarata dai quattro finestroni che rompono tutto un fianco del palazzo, dal primo piano alla cornice. Attraverso i due superiori si vedeva la luna mancare e tornare fra le nebbie fumanti; dei vani azzurrognoli si aprivano e si chiudevano nel cielo.

Sei qua? disse dal fondo della scala la signora Giovanna.

Subito dopo la fessa vocina stizzosa di Beneto gridò più da lontano:

Presto! Oramai, tanto, la poteva anche andare a letto, mi pare. Presto!

Bianca non gli badò. Quel padre amoroso voleva proprio farle costare poco il ritorno in casa Squarcina!

Egli era in salotto, picchiava e ripicchiava sulla tavola un mazzo di carte, impaziente che sua moglie venisse per la solita partita.

Qua! disse egli, brusco. Qua! Andiamo!

La rassegnata signora prese il suo posto all'angolo della tavola, presso una lucerna a petrolio. Bianca sedette sul canapè, nell'ombra. Povera mamma, pensava, che vita! Emilio era debole, non sapeva proteggerla; ma però, qual differenza da suo padre! Ella era sicura del suo marito, se non ci fossero i vecchi, la farebbero regina in casa propria. Era andato a piangere da Torranza, povero Emilio! Sentiva di volergli bene anche lei; e bisognava pur prenderlo come la natura lo aveva fatto.

A vu! brontolava tutti i momenti il signor Beneto. A vu! Presto!

Egli non rivolse mai una parola a sua figlia, e dopo le otto e mezzo se ne andò, com'era solito, a letto. Allora la signora Giovanna che prima non aveva mai osato fiatare, si pose attorno a Bianca perché pigliasse qualche cosa, offerse quanto seppe con una premura timida e appassionata nel tempo stesso; ma Bianca non accettò nulla.

Quella lettera? disse sua madre. Era di casa tua?

No.

Disgrazie?

No, mamma.

Perché ho visto urgentissima rispose l'altra esitante.

Bianca si rizzò e l'abbracciò.

Mamma disse ella sottovoce se andassi via presto? Se tornassi con Emilio?

Oh Dio! rispose la signora Giovanna commossa cosa vuoi che ti dica? In coscienza non potrei dirti di no.

Forse lo faccio, mamma.

Alla signora Giovanna vennero le lagrime agli occhi.

Ma che ti maltrattino poi, no sai! disse ella con voce soffocata e soggiunse dopo un breve silenzio:

Se fosse per il papà, sai bene come è fatto. Non bisogna mica badare a certe apparenze.

No, mamma, non è per il papà.

Bene, cara, cosa vuoi che ti dica?

La povera donna prese le sua calza e si mise a sferruzzare frettolosamente. Dopo le asciutte risposte di Bianca non osava toccare della lettera urgentissima, quantunque comprendesse bene che il segreto di questo probabile ritorno in famiglia doveva trovarsi lì. Lavorava e taceva, sperando ottenere qualche spiegazione col silenzio che era come un dignitoso dolersi del riserbo di Bianca, un espresso aspettare che parlasse. Ma Bianca non aperse bocca, per cui, verso le dieci, la buona signora, mortificata e non avendo il coraggio di usare autorità, posò il suo lavoro, e chiese alla figlia se volesse andare a letto.

Bianca rispose di non aver sonno. Sarebbe andata volentieri nella saletta del piano a fare un po' di musica. La mamma voleva tenerle compagnia, ma ella protestò tanto nervosamente che la signora Giovanna le chiese scusa, e, accesale una candela, salì le scale con la sua cerea faccia curva sul lumicino a petrolio.

Bianca si avviò invece per il corridoio che mette alle camere deserte nell'angolo nord-ovest della casa. Entrò in una sala non grande, ma molto alta, tutta istoriata di affreschi mitologici, vuota; e accese con la mano ferma le candele del suo piano attraversato a un canto. La lenta luce si allargò, a destra, sopra un tavolino zeppo di musica; a sinistra, sopra una giardiniera; in alto, su per le membra enormi di non so quali divinità. Non vi erano altri mobili in tutta la sala; i passi della giovine signora vi pigliavano un suono lungo, vibrante.

Ella guardò l'orologio: le dieci erano imminenti. Cercò un pezzo di musica e lo posò sul leggìo del piano. Poi si trasse dal petto il ritratto di Torranza, guardò a lungo la calva testa scultoria, del poeta. Oh, voleva bene accontentarne l'ultimo desiderio quando anche fosse una follia, voleva fedelmente comporgli la scena poetica, cui egli aveva forse pensato con qualche compiacimento prima di morire!

Si giustificava così, con se stessa, dei suoi preparativi e della sua emozione, senza confessarsi che aspettava davvero, con un oscuro istinto del cuore, qualche cosa di straordinario. Posò il ritratto sul leggìo e stette un momento, involontariamente, in ascolto. Che cosa si muoveva dietro a lei? Niente, un foglio scivolava dalla catasta della musica. Bianca si ripiegò a leggere i versi riprodotti sulla copertina del pezzo che aveva davanti. Erano stati composti, lo sapeva, fra il contrasto della passione con il sentimento religioso, da un giovane amico di Torranza, morto pochi mesi dopo, presso la donna non sua che amava malgrado se stesso, in silenzio; e dicevano così:

 

Ultimo pensiero poetico

 

Le finestre spalanca a la luna;

T'inginocchia, mi sento morir.

Da i terror de la cieca fortuna,

Da la guerra de i folli desir,

 

Esco e salgo ne' placidi rai

Lo splendente universo a veder,

A bruciar ne l'amor che bramai,

Che non volli qui impuro goder.

 

Ma se orribile un ciel senza Dio

Tra le stelle funeree mi appar,

Ricadrò su quel cor ch'era mio,

Disperato m'udrai singhiozzar.

 

Bianca si coperse il viso con le mani, si rivide dentro alla fronte le sinistre parole:

 

Ma se orribile un ciel senza Dio

Tra le stelle funeree mi appar.

 

Immaginava con un brivido quel che proverebbe se udisse piangere vicino a sé nel vuoto. Aperse la romanza per dar una passata alla introduzione non troppo facile, che aveva letto una volta sola. Ma le pagine non volevano stare aperte, si chiudevano tutti i momenti fastidiosamente. Le fermò col ritrattino di Torranza, e suonò, sotto voce, le quindici o venti battute di introduzione che ricordano molto, in principio, la Dernière pensèe musicale di Weber.

Dio, come parlava quella musica! Che amore, che dolore, che sfiduciato pianto! Entrava nel petto come un irresistibile fiume, lo gonfiava, vi metteva il tormento di sentire la passione sovrumana senza poterla comprendere. Bianca si alzò con gli occhi bagnati di lagrime, andò ad aprir le imposte della porta che mette in giardino. Le ombre della notte aveva scritto Torranza devono poter entrare nella camera.

La notte era chiara. Gli alberi del giardino si vedevano sfumati nella nebbia lattea. Non un sussurro, non un soffio; la nebbia, muta e sorda, era immobile.

Bianca tornò con un leggero tremito al piano. Guardò ancora l'orologio; erano le dieci e un quarto. Allora si decise, si raccolse nella musica che aveva davanti, bandì ogni altro pensiero, ogni trepidazione come se vi fosse dietro a lei una attenta folla severa e strappò dal piano con la sua grazia nervosa il primo accordo.

Ella suonava ansando, per lo sforzo di mettere tutta l'anima nella musica, di non pensare a quel che forse verrebbe dopo. Le fu impossibile seguire le ultime note smorzate della introduzione; il cuore le batteva troppo forte. Passarono dieci, venti, trenta secondi eterni. Silenzio.

Bianca alzò un poco la testa. In quel momento due colpi sommessi, affrettati, suonarono vicino a lei, che balzò in piedi con un subito ritorno di energia calma, e stette in ascolto.

Altri due colpi affrettati, più forti dei primi; poi un tocco leggero sulla soglia della porta aperta alle ombre della notte. Bianca guardò. Era entrata una ombra, una figura umana. La giovine signora gittò un grido: Emilio! disse ella. Era suo marito.

Egli si fece avanti rosso rosso, a passo incerto e a braccia distese, con la stessa ingenua contraddizione negli occhi di imbarazzo e di ardore. Bianca, pietrificata, non si muoveva.

Mi aspettavi bene! disse egli supplichevole, fermandosi.

Fu un lampo. Bianca ride confusamente che Torranza chissà come aveva combinato questo e rispose: Sì buttando le braccia al collo di suo marito con impeto così repentino che il povero giovane, tra la felicità ed il non capir niente, perdette addirittura la testa e non sapeva che ripetere fra un bacio e l'altro: scusa, scusa. Ma ella non lo udiva neppure e piangeva piangeva, sentendosi una tenera gratitudine per il suo povero amico, una gran consolazione di esser al posto che Dio, finalmente, le aveva dato nel mondo, presso un cuore forse debole, forse male atto a comprenderla, ma buono e fedele.

Star qui con la porta aperta sussurrò il giovane carezzevolmente a quest'aria umida, con il dolor di capo che hai! Non voglio mica io!

Ella passò in un baleno dal pianto al riso, e rise, rise sul suo petto, rise deliziosamente sentendo tornar l'allegria pazza del suo viaggio di nozze. Povero caro Emilio, credere che un doloruccio di capo di due mesi prima le durasse ancora! Egli restò un momento perplesso e poi rise anche lui di tutto cuore.

Senti diss'ella a un tratto, facendosi seria adesso spiegami bene tutto.

Suo marito parve sorpreso. Ma se lo sai! rispose.

Lo so, ma ho piacere udirlo da te. Vien qua, conta.

Camminarono su e giù per la sala, cingendosi l'un l'altro la vita con un braccio, parlando piano.

Lui aveva fretta, voleva sbrigarsi in due parole, dir che Torranza gli aveva scritto di venire e basta. Ma lei non la intendeva così! Aveva egli seco la lettera di Torranza? No. Quando gli era pervenuta? Questa mattina stessa prima di mezzogiorno. E cosa diceva, proprio? Diceva presso a poco: la sera del giorno in cui riceverai questa lettera, trovati fra le dieci e le dieci e mezzo a Monte San Donà. Se vedi lume nella sala del piano, se odi suonare e se la porta è aperta, entra, che Bianca ti aspetta ed è disposta a tornare con te. - Che data aveva la lettera? Anche la data? Egli non volle più rispondere né ascoltare; la sua gioia, la sua passione avevano bene il diritto, oramai, di passare avanti a tutto. E si strinse Bianca tra le braccia, le soffocò nel collo un tal impeto di tenerezza che ne perdette anche lei la parola. Ma, improvvisamente, un lieve suono blando la scosse.

Zitto! diss'ella rialzando il viso. Puntò le mani al petto di suo marito e guardò là ond'era venuto il suono.

Al leggìo del piano la romanza Ultimo pensiero poetico si era chiusa sul ritrattino che Bianca, poco prima, vi aveva posato a trattenere le pagine; Ermes Torranza non si vedeva più. Parve all'amica sua che quello fosse il promesso segno sensibile, l'addio del poeta il quale, compiuta l'opera propria, si ritraesse chetamente, si dileguasse nell'ombra, o per le condizioni misteriose della sua esistenza superiore, o, fors'anche, per effetto di un malinconico sentimento che si poteva comprendere.

Cosa è stato? disse Emilio. Cos'hai che sospiri?

Bianca tornò a piegargli il viso sul petto. Niente diss'ella.

 


 




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