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IV.
La redenzione dei capolavori.
- Che ne dice, dottore? - domandò la baronessa Lanari.
- Non ho capito bene - rispose il dottor Maggioli. - I giovani di oggi fanno da vecchi anche parlando. A vent'anni - ahimè, più di mezzo secolo fa - la generazione a cui appartengo urlava, gesticolava fin ragionando di cose ordinarie, metteva in ogni suo atto quella vivacità e quell'entusiasmo che poi produssero le quarantottate... Non rida, giovinetto mio - egli proseguì, rivolgendosi a colui che aveva parlato. - Le quarantottate sono valse a qualche cosa; e, forse senza di esse... ma non entriamo nella politica. Volevo dire che non ho afferrato bene il senso delle sue parole; lei parlava troppo piano.
- Per timidezza, - lo interruppe il giovinetto. - La mia opinione avrebbe potuto sembrarle un'enormità.
- Abbia il coraggio di affermare qualunque enormità ad alta voce. È un modo come un altro di far progredire l'umanità. Lei dunque sosteneva...
- Che un giorno noi ci sbarazzeremo delle nostre gallerie d'arte, vendendole ai selvaggi del centro dell'Africa, della Nuova Zelanda, della Papuasia, agli Esquimesi, agli abitatori dei Poli, se ce ne sono. Quadri e statue serviranno loro da giocattoli, fino a che quei selvaggi non si saranno anch'essi inciviliti; se pure, da fanciulli grandi, non li sciuperanno prima, per vedere come sono fatti, precisamente come praticano i nostri fanciulli coi giocattoli di Parigi e di Norimberga.
- S'inganna, riprese il dottore sorridendo. - Così le avrebbe risposto il mio vecchio professore di fisiologia, se lei gli avesse espresso questo suo convincimento. Tra quattro o cinque secoli - egli metteva una lunga data per precauzione - i veri capolavori di pittura e di scultura non esisteranno più, cioè non staranno più chiusi nelle gallerie, ma andranno attorno pel mondo, vivi, immortali, e genereranno altri esseri, immortali al pari di loro; e formeranno, forse, il nucleo dell'umanità futura.
- Questa, sì, è un'enormità! - esclamò la baronessa.
- Lo credevo anch'io; ma ho dovuto ricredermi. E morrò col dispiacere di non poter assistere alla Redenzione dei capolavori, come il mio professore la chiamava.
- Ci sarà dunque pure un Cristo per le opere d'arte?
- Sì, baronessa; e sarà quella stessa divina forza che le ha create: il Pensiero!
- Vuole sbalordirci, dottore!
- Quando avrò raccontato quel che ho visto con questi occhi, lei penserà diversamente.
- Quante stranissime cose ha viste! - esclamò la baronessa con fine espressione di malizia.
- Privilegio della vecchiaia! Quel mio professore di fisiologia aveva un gran difetto; era eccessivamente modesto.
Soleva dire: - Più la scienza va avanti e più diviene ignoranza! - Modo suo speciale per indicare che ogni mistero schiarito ce ne mette sùbito innanzi parecchi altri e maggiori. La modestia di quel grand'uomo proveniva dalla sua immensa dottrina. Diceva pure: - Una verità precoce può esser utile assai meno di una menzogna opportuna. - Ed è vero. Ma se io dovessi riferire tutti i sapienti aforismi del mio vecchio professore non la finirei fino a domani.
Per arrivare al concetto della Redenzione dei capolavori, egli era partito dall'idea che il pensiero umano, creando un'opera d'arte, non poteva agire diversamente dal pensiero divino che agisce nella natura. Secondo lui, si trattava anzi dell'identica forza creatrice, con la sola differenza che il pensiero divino opera nella natura direttamente; indirettamente, per mezzo dell'umano organismo, nell'opera d'arte.
Io, materialista in quel tempo, sorridevo sotto il naso udendo queste metafisicherie dalla bocca di un professore che, appunto per la scienza da lui coltivata, la fisiologia, giudicavo avrebbe dovuto essere più materialista di me. Lo ascoltavo però con rispetto, perchè infine le sue metafisicherie si abbarbicavano sempre a un fatto, a parecchi fatti che gli esperimenti rendevano indiscutibili. Pensavo - È un gran poeta costui! - e ignoravo di dire una profonda verità, giacchè poeta significa: creatore o, meglio, rivelatore.
Egli stimava che le figure umane dipinte dai grandi artisti o scolpite in marmo, quando raggiungevano un alto grado di bellezza, dovevano essere certamente qualche cosa di più che semplici figure con la sola apparenza della vita. Figure voluttuose, figure severe, figure pensose, figure dai cui occhi e atteggiamenti traspariscono l'anima e la volontà, no, non potevano essere soltanto un gioco di linee e di colori, se poi provocavano sensazioni e sentimenti che sono arrivati in certi individui fino alla passione e alla pazzia. Piuttosto creature con organismi incompleti, o, meglio con organismi più raffinati, più perfetti del nostro, ma rimasti come in incubazione su la tela o nel marmo, in attesa dell'alito risvegliatore della loro vita latente.
- È una bella fantasia! - gli dissi un giorno.
- Sarà una realtà, giacchè mi costringi a rivelartelo - egli rispose.
E mi condusse in una stanza appartata del suo vasto laboratorio.
A una parete era appeso un ritratto di donna. Mi parve di riconoscerlo; avevo una confusa idea di averlo visto e ammirato non ricordavo più dove, quantunque ora - per accorta disposizione di luce, credevo - mi sembrasse assai più bello. Quell'attraentissima mezza figura cinquecentesca produceva una straordinaria illusione di rilievo, quasi di stacco, dal fondo grigio oscuro. Gli occhi avevano vividi lampi, come se nella pupilla si riflettessero le persone e gli oggetti circostanti; le labbra, un umidore, come di fiato che passasse a traverso della sottile apertura della bocca, donde s'intravedeva una fila di denti bianchissimi: la pelle una colorazione, una morbidezza, come se sotto la epidermide palpitassero, con impercettibile movimento, le vene che la rendevano fresca, rosea, quasi fosforica.
- Che capolavoro! - esclamai.
- È di Sebastiano del Piombo. Siedi là e sta a osservare.
Si sedette pure lui davanti al quadro a mezzo metro di distanza, e tese le braccia con le mani aperte, al modo che usano i magnetizzatori coi soggetti da ipnotizzare.
Oh, quel che avevo notato poco prima non era stato una illusione ottica, prodotta dai chiaroscuri e dalla luce! A poco a poco, sotto la influenza della corrente magnetica che si sprigionava dalle mani del professore, la figura dipinta si animava sempre più, s'agitava con lieve fremito, prendeva un'incredibile espressione di benessere, di piacere e, talvolta, anche di sofferenza, di smania repressa o che non riusciva a manifestarsi compiutamente. Dopo un'ora, e fino a che le braccia rimasero tese verso di essa, io potei credere che la figura di donna, immortalata su la tela dal prodigioso pennello di Sebastiano del Piombo, sentisse circolare dentro di sè un alito di vita assai diverso da quello ricevuto dalla potenza dell'arte. E quando le braccia del professore, cadendo stanche ed estenuate pel lungo sforzo fatto, interruppero la miracolosa operazione, dovetti accertarmi che qualche cosa era rimasto là, su la tela, qualche cosa di più di quel che vi avevo notato entrando, quantunque assai meno di quel che era apparso sotto i miei occhi mentre l'opera di vivificazione durava.
Sfinito, col respiro ansante, col viso livido di pallore, il professore teneva china la testa sul petto e gli occhi socchiusi. Gli presi una mano; era diaccia come quella di un cadavere. Dopo alcuni istanti, però, egli si riaveva, alzava la fronte rugosa e mi guardava tentando di sorridere.
- È mai possibile? - esclamai.
- Dubiti ancora! - mi rimproverò. - Sei dunque di coloro che preferiscono di dar torto alla testimonianza dei loro sensi, se questi contradicono un'opinione da essi stimata certezza?
Non lo nego, ero di questi! Dopo un quarto d'ora di riflessione, io credevo di essermi lasciato vincere dalla violenza suggestiva di lui; ma la sicurezza di tale convincimento veniva sùbito scossa, appena volgevo lo sguardo al ritratto. L'impressione che ne sentivo era stranissima: di cosa equivoca, non più opera d'arte e non ancora persona viva.
- Dovresti aiutarmi; sei giovane, robusto, e persona seria, di cui posso fidarmi - soggiunse il professore rizzandosi da sedere.
E mi raccontò la storia di quel ritratto d'ignota. Qualcuno di voialtri forse ricorderà lo scalpore che levarono i giornali parecchi anni addietro pel furto di un quadro della Galleria degli Uffizi. Lo aveva fatto rubare lui.
- Per tentare la prova - continuò - occorreva un capolavoro che esercitasse vivissima impressione su l'operatore; mi sembrava condizione indispensabile, ed io non potevo chiedere di averne uno a mia disposizione, senza farmi giudicare impazzito. Questo ritratto lo avevo visto più volte e n'ero rimasto profondamente scosso. Ne avevo anche ordinato una copia quattr'anni prima, ma era riuscita così male che avevo dovuto rifiutarla. Quando mi fissai nell'idea di questo esperimento, la ignota di Sebastiano del Piombo mi si presentò così insistentemente davanti agli occhi, che decisi di averla qui, a ogni costo. Non ho rimorso di aver fatto commettere un furto; lo scopo scientifico assolve d'ogni peccato. Tu non andrai a denunziarmi - soggiunse. - Mi denunzierò da me stesso, quando sarà l'ora.
Ahimè, quell'ora non arrivò, perchè le cose di questo mondo sono in gran parte rette dal caso. La morte colpì all'improvviso il professore, quando il suo esperimento era appena a un terzo di strada. Due giorni avanti, io avevo potuto assistere, ancora mezzo incredulo ma stupito, alla progressiva animazione del ritratto dell'ignota; ed ero uscito dal laboratorio domandandomi: - È possibile? - e rispondendo a me stesso: - sei peggio di San Tommaso!
Infatti, avevo osato di accostare la punta delle dita a quel volto che si animava, che palpitava; e, provata la sensazione di toccare non un freddo dipinto ma carne tiepida e molle che si sollevava, come una bolla, dal fondo della tela, avevo tratto indietro la mano con rapido gesto di terrore e di ripugnanza.
Il giorno della morte del professore, dopo averlo adagiato con l'aiuto di altre persone sul lettino di ferro dove egli aveva dormito, per tanti anni, poche ore della notte - non si permetteva, da quasi mezzo secolo, più di quattr'ore di sonno - io volli rivedere il ritratto dell'ignota. Un doloroso presentimento mi agitava: che la interruzione di quella vita avesse dovuto guastare i resultati ottenuti.
Un orribile spettacolo mi fece indietreggiare.
Il capolavoro di Sebastiano del Piombo era irrimediabilmente deformato; quasi la pelle di quel florido viso femminile fosse stata ridotta una vescica sgonfiata, raggrinzita e appiccicatasi, seccando, su la tela.