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NUOVI IDEALI D'ARTE E DI CRITICA1
Ogni volta che sento ragionare o sragionare di arte - e a me accade spesso, bene o male, essa è il mio mestiere - mi torna in mente una mirabile pagina di Francesco De Sanctis a proposito della Divina Commedia. Con arguta genialità, egli dimostra come Dante, volendo fare un'allegoria etico-religiosa, sia stato costretto dalla sua natura di poeta a ribellarsi contro il concetto astratto, a dargli forma viva e solida, a farne una creazione immortale. La favola lo scalda, lo soverchia - egli dice - e vi si lascia indietro come innamorato, nè sa creare a metà, arrestarsi a mezza via. Nel caldo dall'ispirazione, non gli è possibile starsi col secondo senso dinanzi (il senso etico-religioso) e formar figure mozze che si rispondono appuntino, particolare con particolare, accessorio con accessorio, come riesce ai mediocri. La realtà straripa, oltrepassa l'allegoria, diviene sè stessa; il figurato scompare in tanta pienezza di vita, fra tanti particolari. Indi la disperazione dei commentatori: egli fece il suo mondo, e lo abbandonò alle dispute degli uomini.
Fare il suo mondo e abbandonarlo alle dispute degli uomini, ecco quel che mi sembra debba essere l'ideale di ogni artista. In altri termini, questo vuol dire che l'essenza dell'Arte è la forma, nel più alto significato di questa parola, e che tutto il resto è sostrato, materia inorganica, di cui essa deve servirsi pel suo scopo creativo, e nient'altro. Per ciò io mi sento invadere da un profondo senso di tristezza e di scoramento ogni volta che nelle discussioni odierne intorno al concetto dell'Arte odo ragionare di ideali nuovi, che poi sono astrattezze estetiche o filosofiche, e mettere in seconda anzi in ultima linea la quistione della forma.
Capisco benissimo che in un secolo quale il nostro, tutto pervaso di positivismo e di riflessione, in un secolo che cerca ansiosamente nuove vie nelle industrie, nelle scienze, nella costituzione sociale, il problema dell'Arte s'imponga alla meditazione di coloro che studiano i fenomeni dello spirito umano e vogliono rendersene ragione. Mi stupisce però il vedere la confusione che avviene in questo studio pieno di tanto interesse, lo scambio che suol farsi di quel che costituisce la intima ed essenziale natura dell'Arte con altri elementi, indispensabili certamente, ma secondari, se non si vuole ridurla qualcosa d'irriconoscibile, di mostruoso, di ambiguo, Arte insomma e nello stesso tempo non Arte.
È strano intanto che oggi questo non accada soltanto tra coloro che sono critici, scienziati, pensatori; sarebbe spiegabilissimo. Accade pure - e per ciò genera maggiore imbarazzo - tra coloro che hanno chiesto o chiedono all'Arte le più elevate soddisfazioni e cercano di farla vivere e prosperare rinnovandola, mettendola, dicono, a paro con le altre funzioni dello Spirito, con la Scienza o con la Religione, quasi l'Arte abbia qualcosa da spartire con queste due grandi forze della vita civile.
Si dimentica con facilità che nell'Arte il pensiero opera, sì - e non potrebbe accadere altrimenti - ma soltanto con una delle sue forme, l'immaginazione. Che se egli dovesse operare da riflessione, vi verrebbe a fare cosa fuori luogo, perchè Arte e concetto astratto sono incompatibili tra loro. Chi ha voluto così è la Natura, la Legge suprema dello Spirito, e noi non possiamo arbitrariamente mutarlo. Tentandolo, commettiamo un sacrilegio o una sciocchezza, come meglio piace. Ed è quel che mi sono proposto di accennare, ingegnandomi di abusare il meno possibile della loro cortese indulgenza.
Che cosa è l'Arte?
Se lo è domandato, per quindici anni, Leone Tolstoi, e alla fine il grandissimo artista ha conchiuso la sua lunga inchiesta con la condanna di quasi tutte le opere d'arte antiche e moderne, cominciando, come Bruto, dall'ammazzare i suoi figli.
Terminata la lettura del suo ultimo libro, che ha per titolo quella domanda, si rimane perplessi. Chi ha ragione? Lui o la storia? Lui o l'umanità che non si sazia di ammirare le opere d'arte antiche e moderne, e di chiederne ancora altre ai poeti, ai romanzieri, ai pittori, ai musicisti?
Il suo libro, in certi punti, è di una logica così stringente che, se per poco gli si mena buona una delle premesse2, bisogna accettarne, per non cascare in contraddizione, le conseguenze.
Fortunatamente, l'arbitrarietà di alcune premesse può sfuggire a pochissimi lettori; e non ostante il rispetto che si ha per l'autore dei due o tre capolavori che onoreranno, con pochi altri, presso i posteri l'arte narrativa del morente secolo, si finisce con vincere la perplessità d'un istante e sentire compassione del potente ingegno di artista immiserito dal misticismo da cui è stato vinto in questi ultimi anni. Compassione ed ammirazione in una; giacchè si capisce quanta fortezza ed elevatezza di animo ci sia voluta per avere il coraggio di condannare quel che ha cinto d'un nimbo di gloria il proprio nome, la parte migliore del proprio pensiero divenuta creazione vivente.
Si è parlato a questo proposito di Alessandro Manzoni; ma il paragone non regge. Alessandro Manzoni rinnegava, tutt'al più, un genere di opera d'arte, il romanzo storico e anche, logicamente, tutte le opere d'arte dove i fatti immaginarii s'innestano sur un fatto reale: il dramma, la tragedia. L'artista ripudiava un genere d'arte in nome d'un principio d'arte. Forse, nel momento che s'induceva a scrivere la severa e giusta sentenza, egli ripensava il processo di creazione con cui erano venuti fuori nei Promessi Sposi i diversi personaggi: Don Abbondio, Perpetua, padre Cristoforo, don Ferrante da un lato: l'Innominato, la Signora di Monza e il Cardinale Borromeo dall'altro; gli uni tutti di un pezzo, organici, figli soltanto della sua immaginazione; gli altri messi insieme con elementi imposti dalla cronaca e dalla storia.
Forse ripensava la spontaneità con la quale i primi3 gli erano balzati davanti agli occhi, con fisonomia, gesti e linguaggio proprii, simili agli individui incontrati nella vita reale: e allo sforzo, allo stento che gli erano costati gli altri, pei quali aveva dovuto interpretare, indovinare molte cose, traendole da dati, da accenni che egli non poteva troppo mutare secondo gl'intenti della sua opera d'arte. Anche a lui don Abbondio è dovuto sembrare più vivo, più reale del cardinale Borromeo del quale intanto egli poteva vedere il ritratto. Insomma il Manzoni, parlando da critico, non cessava di essere artista; il critico anzi mostrava, in modo più notevole, la sua coscienza di artista.
L'unico punto di contatto tra il Tolstoi e il Manzoni può trovarsi nel frammento pubblicato dal Bonghi, nella famosa opinione intorno all'amore nell'opera d'arte: ma questa opinione è ragionata in modo da far capire che l'autore dei Promessi Sposi pensava, più che ad altro, alla eccessiva sensibilità o sensualità italiana che non ha bisogno di stimoli ma di freni, e che può quindi essere facilmente indotta al peccato dalla vivace rappresentazione dell'amore. Anche generalizzandola, si vede bene che il Manzoni la dava quale timida sua opinione particolare e di pochi che la pensavano come lui; infatti con essa non osa biasimare o condannare l'Arte che ha preso, sin dal suo apparire nel mondo, a soggetto delle sue creazioni la passione amorosa. S'intravede che, se il moralista non esita nell'esprimere il suo convincimento, l'artista ne sente la enormità e non si spinge fino a cavarne fuori tutte le conseguenze. Ossequiente alla sua idea, egli ha tolto via dai Promessi Sposi le scene di amore che nell'atto quasi inconsapevole della creazione gli erano venute fuori e che egli aveva accarezzate (lo confessa) anche meglio delle altre; ma l'aver lasciato inedita quella dichiarazione fa sospettare che in lui l'artista non dava completamente ragione al moralista cattolico. Questi, in un certo momento, ha sopraffatto l'artista; l'artista però gli ha tenuto il broncio pel sacrifizio a cui era stato costretto; e vedremmo che l'artista aveva ragione, se l'autografo dei Promessi Sposi contenesse le scene passionali tolte vie e queste venissero pubblicate.
Nè si dica che il Manzoni è meno esplicito, meno ardito del Tolstoi nel manifestare le proprie convinzioni; la condanna del Romanzo storico è là per smentirci, senza contare la Morale Cattolica ed altri suoi franchi recisi giudizi intorno a diversi soggetti. Quella dichiarazione sembra unicamente fatta per tranquillare i rimorsi della sua coscienza di artista, quasi Renzo e Lucia, ridotti due larve incolore, da amanti appassionati che erano nella prima redazione del romanzo, non cessassero dal rimproverarlo della crudele operazione fatta su loro.
Infine, col Manzoni si tratta della soppressione, di un sentimento nelle creazioni dell'arte della parola, non delle soppressioni delle varie manifestazioni dell'Arte con la parola, col disegno e il colore, e col suono, se esse non sono asservite direttamente a uno scopo di moralità religiosa o di insegnamento civile.
Qui, tra il Manzoni e il Tolstoi, non c'è più nessuna relazione, nessuna lontana concordanza.
L'idea dell'elevato scopo dell'arte radunerebbe invece attorno al Tolstoi una folla di scrittori che egli scomunica e maledice. Qual artista ha mai sostenuto che l'Arte non debba servire a nulla, o servire a corrompere piuttosto che a purificare il cuore e la mente? Gli stessi esagerati partigiani della teorica Bellezza si fondano su l'influenza, vera o supposta, della bellezza nella educazione del cuore e dello spirito; e per loro essa è scopo supremo in quanto la semplice bellezza della forma vien reputata capace di destare negli animi bellezza di sentimenti, cioè produrre effetti di raffinamento spirituale.
L'Arte, o Signori, non è una cosa convenzionale; ha avuto ed ha la sua funzione nella storia della umanità: prima, certamente, una funzione più grande, perchè era e Arte e Religione e Scienza nello stesso punto: poi - quando la Religione e la Scienza si scissero dal primordiale organismo per svilupparsi a parte, con organismi più vasti e più propri alla loro natura - una funzione meno complessa ma più determinata; forse meno importante, perchè prodotto, principalmente di facoltà inferiori - immaginazione e sentimento - ma non superflua o inutile; e molto meno dannosa, come giudica il Tolstoi.
Si direbbe che, per lui, l'Arte non ha storia.
Egli mette l'arte antica allo stesso livello della moderna nella funzione sociale. Secondo lui, un poeta dovrebbe essere anche oggi sacerdote, profeta. Che questa innocua illusione possa averla qualche odierno poeta, passi. I poeti non sono obbligati4 ad essere storici, critici di arte come colui che vuole occuparsi d'un problema di storia e di critica d'arte. Un artista che intenda di sciogliere quel problema, deve, innanzi tutto, sapere che egli entra in una funzione molto diversa da quella da lui praticata facendo unicamente il romanziere o il poeta, il pittore o il musicista. Leone Tolstoi, mente superiore, lo ha capito ed ha voluto per ciò mettersi in condizione di esercitare con pienezza di mezzi la sua funzione di critico. Se non che, egli si è accostato al problema con un'anticipata soluzione in tasca. Ha detto: Stiamo a sentire quel che hanno ragionato intorno alla mia domanda - Che cosa è l'arte? - e critici e filosofi e scienziati e uomini del mestiere. Sono convinto che hanno scritto un ammasso di contraddizioni e di sciocchezze. Si trovano tutti fuori di carreggiata, non hanno la divina idea direttrice del sentimento religioso che guarantisce la verità del mio concetto. Pure, stiamo a sentire.
E ci presenta la sfilata delle definizioni dell'arte dal Baumgarten, fondatore dell'estetica, al Guyan, al Kralik, a Julius Mithalter; una vera babele, secondo lui. Egli non si accorge che tutte quelle definizioni sono vere e false perchè guardano l'arte da uno speciale punto di vista e ne mettono in rilievo un lato solo, per via del sistema da cui scaturiscono. "Dopo un secolo e mezzo di discussioni - egli esclama - intorno al significato della parola bellezza, esso rimane tuttavia un enimma." Che importa? Di tante forze della Natura noi non conosciamo l'essenza, e questo non impedisce di servircene e di applicarle ai nostri bisogni.
È appunto l'uso dell'arte, quale vien fatto nella società moderna, quel che più irrita il Tolstoi. Egli non vorrebbe riprendere la tradizione di Socrate, di Platone, di Aristotile, dei filosofi buddisti e proscrivere l'Arte dal vivere civile, come pensano oggi i maomettani e i pii contadini russi. Dice anzi che costoro fanno male ripudiando qualunque genere d'arte, perchè così si privano del più importante fattore di quell'unione senza la quale l'umanità non potrebbe vivere. Semplicemente egli vorrebbe ridurre l'Arte a un mezzo di propaganda religiosa, un che di simile a quei raccontini illustrati che i protestanti fanno distribuire per le vie per ottenere la conversione dei peccatori. Com'è al presente, l'arte, non che essere un aiuto al progresso, n'è anzi il più grande ostacolo, egli conchiude. "Tutti gli sforzi - sono sue parole - degli uomini che vogliono fare il bene devono tendere alla soppressione dell'arte moderna, che è il più terribile male dell'umanità. Domandate a un vero cristiano se sia meglio perdere, assieme col po' di buono che c'è, tutto il falso dell'arte moderna, ed egli non potrà esitare di rispondere, come Platone, come i Padri della Chiesa, come i maomettani: Meglio non avere nessuna specie di arte, che continuare a soffrire l'influenza deleteria di quella che ora abbiamo."
E questo che ora abbiamo non bisogna intenderlo ristrettamente per la odierna produzione artistica, ma pure pei criterii che formano la nostra guida nell'ammirazione dell'arte di tutti i secoli. Quest'ammirazione, secondo lui è cosa tutta convenzionale. I tragici greci, Dante, Raffaello, Bach vengono stimati grandi perchè così fu detto da principio. Quali invenzioni più grossolane di quelle dei tragici e dei comici greci, di Aristofane soprattutti? E Shakespeare, e Milton e Michelangelo, col suo assurdo Giudizio Universale, sono forse qualcosa di meglio? Da questa stolta ammirazione nasce il contagio artistico che produce l'enorme folla degli imitatori.
Non si può tener dietro al vertiginoso movimento di questa discussione che si smarrisce spesso in discussioni incidentali, che dà importanza uguale ai piccoli e ai grandi fatti, e che subordina tutto al concetto religioso e morale, non tenendo conto del fatto che la vita spirituale dell'umanità è molto complessa, nè riconoscendo che la vera umanità è quella nella quale tutte le forze intellettuali hanno raggiunto il massimo grado di svolgimento.
Per ciò egli ha potuto scrivere che l'Arte, per essere stimata buona "dovrà soddisfare i bisogni di tutte le masse popolari che vivono in condizioni naturali, e non le fantasie dei privilegiati chiusi in un ambiente fittizio. E per ciò egli intravede nel futuro la generalizzazione della facoltà artistica, perchè l'arte, sdegnando le complicazioni tecniche attuali che richiedono lungo studio e gran perdita di tempo, allora non chiederà altro agli artisti all'infuori della limpidezza, della semplicità della concisione" quasi la limpidezza, la semplicità, la concisione non fossero le più alte e più difficili qualità della tecnica artistica!
Dopo tutto questo, in che modo meravigliarsi nell'udirgli proporre come unici modelli dell'arte narrativa moderna Les Misérables e le Pauvres Gens di Victor Hugo, i romanzi del Dickens, la Capanna dello zio Tom della Beecher-Stowe, e l'Adamo Bede di Giorgio Eliot? Come meravigliarsi vedendolo indignare della pretesa che pel giudizio di un'opera d'arte occorre qualche preparazione, se non proprio un'iniziazione? Allora si capisce come la leggenda o storia di Giuseppe ebreo rimanga per lui il modello di tutti i capolavori artistici. "La gelosia dei suoi fratelli, la vendita di lui ai mercanti, il tentativo di seduzioni da parte della moglie di Putifar, l'assunzione del giovinetto a un'alta carica governativa, la sua pietà pei fratelli, etc. sono fatti - egli dice - che provocano uguali sentimenti nel contadino russo, nel cinese, nell'africano, nei ragazzi e nei vecchi, nell'uomo istruito e nell'ignorante; e tutto il racconto è scritto con tanto riserbo, con tanta assenza di particolari, che si può trasportare la sua azione in qualunque ambiente, senza che essa perda per questo di essere comprensibile e commovente."
È inutile discutere. L'eccesso salta agli occhi; e dicendo eccesso voglio essere moderato. Ma pure in quella farraggine quante osservazioni argute, profonde; quante sincere premesse dalle quali è poi sviata la conseguenza!
Fortunatamente per lui, e più per noi suoi contemporanei e pei nostri posteri, la fama di Leone Tolstoi non è soltanto affidata ai suoi libri di propaganda religiosa e sociale nè a questo che cosa è l'arte? derivazione da essi o variazione sul tema. Non ostante il ripudio dell'autore, La Guerra e la Pace, Anna Karenin, e La Sonata per Kreutzer rimarranno nel patrimonio dell'arte mondiale, e faranno dimenticare che nella vecchiezza l'illustre autore preferì di essere un santo al continuare ad essere un meravigliosissimo artista.
Ho voluto dilungarmi intorno a questa strana opinione del Tolstoi anche perchè essa dimostra come non valga essere artisti - e fin grandi artisti - per ragionare con giusti criterii intorno all'Arte.
Altre persone poi, e non meno autorevoli, profondono consigli e ammonimenti a quanti oggi si occupano a scrivere romanzi, novelle, liriche, drammi; e i loro discorsi ci rivelano quali dovrebbero essere, secondo essi, i nuovi ideali d'arte, i nuovi ideali di critica che debbono guidare la produzione letteraria futura.
- Voi scrittori - essi dicono - avete un gran torto: vivete tra le nuvole, vi turate volontariamente gli orecchi per non udire, chiudete gli occhi per non vedere. Vi siete formati nell'immaginazione un mondo a parte, che ha poco o punto riscontro coi bisogni della società che ci circonda, e vi deliziate in esso quasi esso fosse la vera realtà, e la realtà, invece, ne dèsse un fantasma falso e disformato. La gran corrente d'idee e di sentimenti che pervade il mondo attuale e lo agita e lo tormenta e lo travolge non ha presa su voi. Dite di possedere non sappiamo quale ideale di bellezza e volete attuarlo; bellezza di concezione, bellezza di forma (con lo speciosissimo pretesto che l'arte vostra consista soltanto in quella creazione, in quella forma) e non vi curate di altro. E poi avete il coraggio di lagnarvi che i lettori vi abbandonino, che non v'intendano più!
Perchè dovrebbero seguirvi? Voi fingete d'ignorare, o ignorate davvero, quel che ora avviene nelle menti e nei cuori, quel che sobbolle in alto e in basso. La politica vi mette orrore; le quistioni sociali vi sembrano indizii di brutali appetiti avidi di saziarsi nel modo più spicciativo possibile. I tentativi, le conquiste della scienza vi lasciano indifferenti; le stesse speculazioni del pensiero filosofico, ora condotte con metodo meno arbitrario di una volta, non hanno potenza di attrarvi. Ve ne state chiusi dentro un'immensa solitudine, in compagnia dei vostri fantasmi di bellezza o pretesi fantasmi di bellezza (dovete permetterci di dire così perchè non è provato che non vi inganniate intorno al valore di essi) e guardate la gente con aria di compassione e di disprezzo. Ah, è proprio questo il momento di non occuparci d'altro che della bellezza!
Se volete che l'arte vostra sia qualcosa di vitale, che eserciti una funzione efficace nell'organismo della società moderna, scendete dalle nuvole, sturatevi gli orecchi, aprite gli occhi; siate apostoli, profeti o poeti, come vi piace, giacchè è tutt'uno; ma ogni vostra pagina sia un'eco dei nostri dolori, delle nostre aspirazioni, delle nostre lotte, delle nostre vittorie. Gridate, urlate con noi, piangete, esaltatevi con noi! Le libertà politiche non sono cosa vacua; le quistioni sociali non significano discussioni tecniche; la scienza, che non è mai stata un giuoco, oggi non è tale più che mai; la riflessione filosofica che rimescola i più alti problemi dello spirito non rappresenta soltanto l'orgoglio e l'impotenza della mente umana.
Noi non troviamo nessun riflesso, nessun accenno di tutto questo nei vostri lavori di arte, e per ciò buttiamo via il volume appena scorgiamo di che si tratta; non lo apriamo neppure ormai, certi come siamo di non trovarvi niente che possa interessarci. Ah, sì! Le nostre passioni, le eterne passioni, sotto le mutabili influenze della razza, delle circostanze passeggere, degli usi, dei costumi, della moda anche; grazie tante! Come non vi accorgete che, con lievi apparenti modificazioni, ci ricantate sempre la stessa storia? Sono secoli e secoli che voi artisti ci parlate di amore, di gelosie, di tradimenti coniugali e cose simili! Ne siamo stanchi, ne siamo sazii. L'amore? Abbiamo già Giulietta e Romeo; non ci avete più saputo dare niente di meglio. La gelosia? Abbiamo Otello e non vi siete ancora stancati di ricopiarlo. L'adulterio? Ma non vi sembra che bastino, per non parlare degli antichi, Madame Marneffe e Madame Bovary?
Tutta questa folla di creature appassionate, irrequiete, degenerate, come oggi è moda di dire, che voi vi affannate di gettare in pascolo della nostra fame spirituale, ci lascia, se abbiamo il coraggio d'ingollarla, più affamati di prima. Mutate registro! Ruit hora! -
Non sono persone volgari coloro che parlano così. Sono anzi persone colte, serie, e credono di discorrere seriamente, ragionevolmente. Infatti, se uno di loro stèsse a sentire qualcuno che dicesse, per esempio, a un sarto: - Eh, mio Dio, non sai far altro che vestiti! Ma pensa che l'uomo non ha bisogno soltanto di essi; ha bisogno di mangiare, di albergarsi in una casa, di scaldarsi, l'inverno, di rinfrescarsi l'estate; ha bisogno di mezzi per coltivare i campi, di macchine per condurre le sue industrie, di strade, di carrozze, di teatri, di tante e tante urgentissime cose per tirare avanti la vita in società. Per te l'importante consiste soltanto nel taglio degli abiti, nella foggia, nella eleganza e nel lusso dello guarnizioni... In che mondo tu vivi? - se uno di costoro stèsse a sentire qualcuno che parlasse così, si stupirebbe, ne riderebbe, lo giudicherebbe un po' leso nelle facoltà della mente. Ora, tali brave e intelligenti persone non si comportano diversamente di fronte all'artista, e intanto s'immaginano di ragionare a fil di logica.
- Eh, mio Dio! Voi artisti non sapete fare altro che opere d'arte, cioè opere di creazione e di bellezza! Ma siate politici, sociologi, scienziati, filosofi! E non a modo vostro, pelle pelle, per pretesto di mettere un po' di sale e di pepe nella solita sciapa minestra; ma realmente, profondamente, in modo che quel che ora è la lustra, il pretesto, diventi scopo principale. Siate uomini, non fanciulloni. Il regno dell'immaginazione è finito da un pezzo. Sostanza ci vuole oggi, non apparenza: e la forma e la bellezza sono soltanto apparenze. Le fiabe bisogna lasciarle ai bambini, in ogni caso; le nonne e le balie bastano per l'ufficio di raccontarle al loro minuscolo uditorio e farlo star cheto. Non siamo arrivati al XX° secolo per nulla!
Oh, perfettamente! Ma parlate chiaro, si potrebbe rispondere. Dite che l'Arte non è più di questo tempo, che è diventata una superfetazione, e forse potremmo ragionare, discutere. Abbiate la sincerità del Tolstoi, maleditela quest'arte che vi sembra una vanità, se non volete arrivare fino alla esagerazione del neo-mistico russo e chiamarla a dirittura una calamità. Gli artisti, i veramente degni di questo nome, non lavorano per l'oggi, per la moda passeggera. Ecco perchè si affaticano a cogliere le caratteristiche più intime e più durature dell'uomo; non vogliono fare opera effimera.
La politica? Ma quale? Quella di ieri non somiglia a quella di ieri l'altro; quella di domani non sarà quella di oggi. Volete dunque che l'artista introduca nella sua opera d'arte un elemento così mutabile che ne abbasserebbe il valore in poco volgere di anni e forse di mesi? Il romanziere, il drammaturgo italiano, per esempio, pensa alla sorte dei romanzi del Guerrazzi e delle tragedie del Niccolini, e si guarda bene dall'imitarli.
La sociologia? Ma tutto è ipotesi provvisoria in essa, se non volete dire fantasticheria sentimentale. Come? Questa scienza, o pretesa scienza, non riesce a risolvere degnamente i problemi che si pone davanti, e voi pretendete che se ne impossessi l'artista, e ne accetti e ne propaghi coi suoi mezzi le conchiusioni campate in aria? Per questo scopo, c'è la Repubblica di Platone, o la Città del sole del Campanella, o i recenti volumi del Bellamy e di qualch'altro. Sorbiteveli. Non vi sembrano sufficienti?
La scienza? Ma essa nega oggi quel che ha affermato con gran sussieguo ieri! Nessuno peggio di lei, dà il doloroso spettacolo di credersi infallibile, di ostinarsi, per anni ed anni, in una cantonata presa, in un errore, per giungere poi a disdirsi e a ricominciare daccapo. C'è stato un artista, o quasi, che si è baloccato a mettere un po' di scienza in romanzo; viaggiate nella luna col Verne, passeggiate con lui ventimila leghe sotto il mare, e lasciate in pace tutti gli altri!
La filosofia?... La religione?...
Ma come non vi accorgete che l'Arte dev'essere tutt'altra cosa? Come non capite che i veri artisti si disinteressano soltanto in apparenza di tutte le grandi quistioni che affannano l'umanità, perchè loro dovere è unicamente mettere al mondo creature ideali, le quali poi non sono per questo meno reali di quelle che sogliamo chiamare più specialmente così; e che ognuna di tali creature è un'idea, un sentimento fatti carne, ossa, sangue, non una vanità che par persona; e idea fondamentale, sentimento perenne?
Voialtri, però, non volete andare oltre quella carne, quel sangue, quelle ossa; badate soltanto all'esteriore. E se voi avete perduto il giusto senso dell'Arte, che colpa ne hanno gli artisti? Essi debbono fare opera d'immaginazione e di forma, e voi chiedete, all'incontro, opera di riflessione, di puro pensiero; o, per lo meno, qualcosa che stia nel mezzo, dove la forma non celi interamente il pensiero astratto, il concetto. Voi chiedete l'assurdo; per ciò gli artisti vi lasciano dire e continuano a produrre quel che debbono produrre.
Non pretendiamo affermare con questo che nella loro produzione siano adempiute tutte le condizioni che costituiscono una pura opera d'arte. Deficienze, stonature vi sono pur troppo e sarebbe miracolo quasi incredibile se non ci fossero. Nella produzione artistica avviene, come nella produzione naturale, un eccesso, quasi essa sia una serie di prove e riprove, di tentativi e anche di aborti, per raggiungere finalmente una altezza, una compiutezza che non è mai la perfezione assoluta, l'ideale, ma qualcosa di approssimativo all'ideale. Accettiamo come una necessità inevitabile questa ricchezza, questa prodigalità generativa e, se così volete, questo sperpero inutile di forze. Di cento romanzi, di cento novelle, di cento drammi, uno o due soltanto supereranno la prova della sopravvivenza; è stato sempre così; sarà sempre così. Ruit hora! Sì, per noi misere apparizioni di un momento; ma per una letteratura, per una nazione, per l'umanità quelle due parole latine non hanno senso. Lasciamo che le cose vadano pel loro verso: che l'Arte sia arte e la Scienza scienza.
Quando verrà il momento, se dovrà venire (nessuno di noi può prevederlo con certezza) se l'Arte dovrà cedere il posto alla Scienza o trasformarsi e divenire qualcosa di essenzialmente diverso di quel che ora è, la trasformazione avverrà per forza fatale di circostanze; ma non potremo chiamarla più Arte, come non potremo mai chiamare nero il bianco, nè il bianco5 nero, se prima non ci metteremo di accordo che nero vorrà dire bianco e viceversa. Avremo mutato il vocabolo, non la cosa; e non mette conto di rifare per così piccolo scopo il dizionario.
Pur ora dobbiamo riconoscere che creare forme di bellezza artistica non è poco. La Grecia antica è immortale per aver fatto questo soltanto. Le sue battaglie, le sue conquiste, i suoi sistemi filosofici, le sue scienze embrionali hanno ormai un valore molto relativo nel presente. Le divine opere di Omero, di Eschilo, di Sofocle, di Aristofane sono qualcosa di così importante che, se fossero andate perdute, ci mancherebbe la miglior parte di noi e il danno sarebbe irreparabile.
Così parlando, non vogliamo fare presuntuosi o stolti confronti, nè metter fuori vanitose pretese; l'artista di oggi è quel che dev'essere; ed appunto perchè è qualcosa di diverso ha ragione di esistere.
Sventuratamente una delle più evidenti caratteristiche di oggi è la confusione delle idee. Forse, da questo caos verrà fuori il nuovo mondo futuro; ma neppure questo nuovo mondo potrà fare che una cosa sia e non sia nello stesso tempo; e possiamo quindi anticipatamente proclamare che anche nel più lontano avvenire l'Arte sarà semplicemente Arte o non sarà più. Da questo dilemma non si esce.
Quale potrà essere l'Arte e in un non lontano avvenire, me lo prediceva seriamente, mesi fa, un mio amico a cui la serietà degli studi filosofici, scientifici e anche teologici non ha ammortito la vivacissima fantasia.
Io ho trascritto per mio gusto, la sua improvvisazione di quel giorno, quando egli, dopo aver divagato per più di un'ora intorno all'Arte cosmica, preistorica, finì con fare un salto straordinario fino all'Arte avvenire. E se avessi potuto riassumerla con tutto l'abbagliante splendore della sua parola, spanderei un sorriso di luce su la grigia intonazione della mia conferenza.
Siccome il pensiero umano e le sue forme e le sue facoltà esistevano sin dall'inizio, sin dall'eternità, sin da quando lo Spirito di Dio s'immerse nella materia imponderabile o etere che vogliamo chiamarlo, così domanderà quale ha potuto essere allora la sua attività funzionale come arte.
- Non possiamo figurarcela, altrimenti che paragonandola a un'attività di sogno, anzi a una attività, per un certo lato, minore di quella del sogno e dall'altro lato infinitamente maggiore perchè organica e creativa.
Che altro possono essere stati se non una specie di sogno dello Spirito, quel fermento di atomi, quell'aggregarsi, quel distinguersi, quel combinarsi, e le consecutive formazioni sempre più addensantesi, sempre più moltiplicantisi, fino al prodursi delle nebulose, fino al condensarsi di essa in Soli immensi, fino al disgregarsi di questi Soli in sistemi solari, fino alle formazioni particolari di ogni singolo mondo di quei sistemi nei quali, forse, anzi senza forse, nessuna delle combinazioni chimiche aveva qualche analogia con quelle conosciute oggi; nessuna delle forme qualche lontana rassomiglianza con le forme di oggi; sistemi solari, mondi, creature viventi morte e sparite migliaia e migliaia di secoli prima che qualche indizio apparisse dell'infinito universo attuale, che l'occhio nostro scorge nelle notti stellate e che i nostri telescopii intravedono di mano in mano che la loro potenza visiva si accresce.
L'opera d'arte allora, in quei lontanissimi secoli di secoli, era la stessa creazione; e noi possiamo chiamarla tale perchè era forma, forma materiale, incosciente, forma aggregativa, forma combinativa, chimica, vegetale e anche vivente, quantunque chimica, vegetale, e vivente in modo assolutamente diverso da quanto noi indichiamo oggi con questi aggettivi.
E così dobbiamo supporre altre luci, altri paesaggi, altre figure, altri profumi, altri suoni; e nelle creature viventi, altre facoltà, altri sensi, altra intelligenza. Per quanto la nostra immaginazione volesse sbizzarrirsi nelle concezioni più complicatamente strane ed assurde, probabilmente non raggiungerebbe la mirabile diversità di tutte le manifestazioni della forma e della vita che possono e debbono essere apparse prima di queste da noi conosciute.
E ammettendo la ipotesi di creature vi venti, ammettendo in queste creature sensi e facoltà di spirito diversi dai nostri, quale avrà potuto essere la loro opera d'arte? Certamente in corrispondenza di quelle facoltà, un'applicazione, un'estrinsecazione di esse, una riproduzione idealizzata di quella loro natura esteriore e interiore.... E dobbiamo arrestarci a questa affermazione; e dobbiamo contentarci soltanto di pensare che la loro evoluzione ha dovuto seguire le stesse norme della nostra: salire da una forma inferiore alla immediatamente superiore: cioè, prima, sensazione, immaginazione, poi riflessione. Se non che questi tre elementi possono essere stati contemperati in modo da produrre qualcosa che ci colmerebbe di stupore e di meraviglia, se, per fortuna, potessimo averne un saggio, e se le nostre facoltà potessero adattarsi a sentirla e a intenderla per poterla ammirare.
Qui la nostra intelligenza si confonde.
Da questi secoli iniziali, se pur si può parlare d'inizii ragionando d'eternità, noi possiamo slanciarci fino alla fine dei secoli, alla maturità, alla vecchiezza, alla decrepitezza del nostro sistema solare e ricostruire con l'immaginazione, anticipatamente, quel che forse sarà o potrà essere l'opera d'arte futura.
Abbiamo pochi elementi, ma essi ci basteranno per un'ipotesi, giacchè sono elementi di fatto, quasi scientifici.
Notiamo il continuo perfezionamento dei nostri sensi. Il tatto, la vista, l'udito, tutti i nostri mezzi di rapporti con la natura esteriore si sono talmente perfezionati lungo il corso dei secoli, da permetterci di affermare che noi siamo creature affatto diverse dalle creature che furono i nostri primi progenitori.
Le evoluzioni delle arti sono un'altra prova convincentissima. Se qualche mago, sacerdote o poeta delle età primitive, per un miracolo d'intuizione le avesse annunziate agli abitatori lacustri, ai nomadi delle grandi pianure e delle grandi montagne dell'Asia, a quelle genti che ignoravano se stesse e che stimavano dovesse essere la vita una perenne lotta col mammut, con gli ittiosami, con tutte le bestie feroci brulicanti su la giovane terra - quelle evoluzioni sarebbero state giudicate assurde, parto di fantasia morbosa.
Eppure dal grido bestiale quasi inarticolato, dalla mimica, dalla danza sacra e guerresca noi abbiamo veduto scaturire a poco a poco i poemi dell'India, la Bibbia, l'Iliade, la tragedia greca, la commedia, i capolavori di Dante e dello Shakespeare, il romanzo e la lirica attuale.
Ed ecco che nuove facoltà si rivelano oggi o almeno attirano l'attenzione dello scienziato, agitano il nostro spirito e lo fanno tremare di sgomento e di curiosità. C'è un altro mondo in questo mondo, c'è un'altra natura dentro la nostra natura. s'intravedono facoltà incredibili, si scorgono bagliori di forze prima ignorate o trascurate. L'invisibile diventa visibile, l'occulto si manifesta; leggi, o quelle credute tali, da cui sembrava che il nostro organismo e la natura fossero ferveamente dominati, non appaiono più tali. Quel che ieri era tenuto per fantastico, per impossibile, per supernaturale, diventa realtà, o meglio viene scoperto realtà altrettanto naturale che quello comunemente chiamato così. Tutti i limiti cedono; non si allontanano soltanto, ma spariscono: e questo dovrà naturalmente produrre tale rivoluzione nel mondo, che qualunque superlativa nostra fantasticheria non potrà darne la misura.
Ormai nessuno può più dubitare di quella forza che il nostro imperfetto linguaggio si rassegna a chiamare psichica, perchè la scienza non sa a chi addebitarla, nè come contrassegnarla. Quel che pareva un sogno di malati comincia a venir giudicato più che una possibilità. Questo nostro pensiero che finora si è manifestato servendosi della materia, marmo, tavolozza, suono, parola scritta, pare abbia tanta potenza creativa in se stesso, da poter fare a meno di questi mezzi che non riescono a renderlo con tutte le sue sfumature.
Il marmo resiste, immobile, incoloro; la tavolozza non dà tutta la luce e tutti i colori alle forme, e per quanto si aiuti con la prospettiva e con gli scorci, è impotente a rendere il moto; la musica, con le meravigliose combinazioni delle sue melodie e delle sue armonie, rimane vaga, imprecisa, quantunque potentemente suggestiva: la parola, che riesce a dare l'illusione complessiva di tutte le altre arti e simulare la vita, si frange contro certi limiti del linguaggio, e contro certi limiti parte sormontabili perchè convenzionali, parte no, perchè inerenti alla stessa natura della sua opera.
Noi sentiamo che tutte queste arti c'impacciano, ci tormentano per la loro impotenza a creare davvero la vita.
Ora, la forza psichica, di cui già parlasi con trepido stupore, dovrà produrre nel lontano avvenire un'Arte della quale non possiamo formarci neppure un'idea approssimativa, in corrispondenza della nuove facoltà che avrà allora acquistato l'umano organismo.
Questa forza ormai la conosciamo come produttrice di moto. Sappiamo che è possibile spostare oggetti materiali con la semplice concentrazione della volontà. Sappiamo che un individuo, in certi casi di cui ignoriamo il come e la legge, può con essa oggettivare, materializzare il pensiero, dargli forma visibile e tangibile, forse esplicando poteri intimi suoi propri, forse impossessandosi di elementi circostanti e ignoti alla scienza. S'intravede però che quel che è ora accidentale potrà, anzi, dovrà essere normale, soggetto alla ragione, come sono divenute normali e soggette alla ragione tante altre forze della natura; l'elettricità, per esempio.
Immagina dunque - e il mio amico entusiasmato dalla sua idea, mi stringeva forte il braccio - immagina dunque che cosa potrà essere l'opera d'arte quando il pensiero non incontrerà più ostacoli nel marmo, nella tela e nei colori, nei suoni e nella parola; quando l'opera d'arte si esplicherà, si formerà con la stessa rapidità e con la stessa nettezza dell'idea, cioè, quando il pensiero diventerà visibile, tangibile, quantunque fuggevole, forse, e mutabilissimo, come la sua natura di pensiero comporta; quando insomma le creazioni dell'intelletto immaginativo vivranno, sia pure per qualche istante, realmente fuori di noi, quasi proiettate da un cinematografo infinitamente superiore a quello inventato dai fratelli Lumière?
Ah, io non voglio mettere a dura prova la loro cortesia, continuando a riferire lo svolgimento di questa ipotesi che la magia della parola e dell'espressione riuscirono a farmi accettare senza nessuna obbiezione, così rapida ed efficace era stata l'impressione prodottami. E siccome sono un po' sognatore anche io - altrimenti non andremmo molto di accordo con quel mio amico - confesso sinceramente che oggi, nel riferire la sua ipotesi, non ho potuto sorriderne, come il giorno in cui la udii la prima volta.
Ilo visto diventare realtà tante cose giudicate da gran tempo impossibili, che più non oso rimanere scettico neppure davanti l'assurdo.