Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Cronache letterarie
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FELICE CAVALLOTTI DRAMMATURGO E POETA.

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FELICE CAVALLOTTI

DRAMMATURGO E POETA.

 

 

I.

 

Si dava, per la prima volta, al Valle La luna di miele del Cavallotti. Teatro affollatissimo. Un occhio esperto avrebbe però facilmente capito che il pubblico di quella serata era, in gran parte, pubblico di occasione. Infatti gli amici politici dell'autore avevano creduto di dover fare atto di fraternità accorrendo ad applaudire la nuova produzione del recente promotore del Patto di Roma.

Il manifestino teatrale portava stampato con grossi caratteri il titolo della commedia e il nome dell'autore; da piè, in carattere minuscolo, avvertiva che lo spettacolo sarebbe cominciato con la recita della commediola dello Scribe: La camera affittata a due.

L'orchestra diede l'ultima strimpellata d'un valzer, il sipario fu tirato su; e sùbito si fece nella sala gran silenzio di vivissima attenzione. Sin dalle prime scene un'ingenua ilarità cominciò a serpeggiare per la platea, scoppiando di tratto in tratto, più che in risate, in applausi mal frenati. Dalle poltrone, parecchi si voltavano meravigliati di quella fermentazione di entusiasmo per una commediola stravecchia; le signore dei palchi guardavano le persone delle sedie e le altre in piedi, cercando di spiegarsi quel buon umore che di mano in mano aumentava e accennava di prorompere.

Proruppe infatti, con fragorosissimi applausi e chiamate: Fuori l'autore! Fuori l'autore! appena la tela venne giù.

Si udì una voce:

- Zitti, cretini!

Era quella di Ettore Socci, allora non onorevole, ma sempre colta e brava persona, che arrossiva e s'indignava pei suoi confratelli politici e pel suo amico Cavallotti. Gli associati al Patto di Roma non si erano accorti che la Camera affittata a due non aveva niente che fare con La luna di miele: e, venuti col proposito di applaudire a ogni costo il Cavallotti, avevano sincerissimamente applaudito... Eugenio Scribe!

Ricordavo quest'aneddoto accettando l'invito di scrivere uno studio intorno al Cavallotti drammaturgo e poeta. La tragica fine di lui mette in imbarazzo chi vuole ragionarne spassionatamente, senza sottintesi politici. La pietà che ispira l'uomo così immaturamente spento consiglierebbe di attendere ancora prima di pronunciare un giudizio su l'opera letteraria di colui che fu un perpetuo combattente nella vita e nell'arte, che fece per lo meno altrettante polemiche quanti duelli, e che mise nei duelli e nelle polemiche gli stessi elementi di foga, di eccessi, di sincerità e di partigianeria, quantunque i resultati ottenuti con gli uni e con le altre siano stati diversamente inefficaci. Io mi son sentito in buone condizioni. Ho scritto una sola volta intorno a un suo lavoro; e siccome allora, a proposito della Sposa di Mènecle, non esitai di dire a lui vivente quella che mi pareva la verità, così non temo che si possa sospettare che ora approfitti della sua sparizione per dire quel che mi sembra la verità intorno alla sua produzione teatrale e poetica.

Come in quella sera al Valle, il drammaturgo e il poeta non sono stati giudicati finora senza che intenzioni politiche, senza che amori o rancori di parte non si siano mescolati ai criteri puramente artistici che avrebbero dovuto ispirare la critica. Non era cosa facile mentre l'autore viveva. Mancava a lui la serenità dell'artista che crea ed abbandona alle discussioni del mondo l'opera sua. Appena si stimava frainteso, voleva sùbito difendersi. Ma la polemica letteraria nelle sue risposte s'inaspriva facilmente, e minacciava di finire o finiva talvolta con un duello; non era il miglior mezzo per avere ragione. E poi c'era nel Cavallotti una contraddizione che sembra inesplicabile a molti e che pure non è rara. Uomo di idee e di sentimenti avanzati in politica, era quasi codino in arte, precisamente come parecchi altri, moderatissimi in politica, sono audaci rivoluzionari da artisti.

Le polemiche del Cavallotti riescono però documenti importanti: permettono di riassumere i principii da cui scaturivano le sue opere, e dànno spesso la opportuna misura per giudicare fin dove le intenzioni sono arrivate ad attuarsi; fin dove sono rimaste semplici intenzioni e nient'altro. In questi ultimi tempi la politica lo aveva assorbito tutto. Si diceva appunto che egli voleva riposarsi dopo le agitazioni e forse dopo i disinganni sofferti, dedicandosi nella solitudine della sua villetta di Dagnente a un'opera drammatica. Una triste fatalità ha distrutto per sempre i suoi disegni. L'uomo sparito ci ispira un senso di compassione profonda; ma l'opera dell'artista così malamente interrotta non ci desta nell'animo nessun rimpianto. Niente faceva prevedere che la nuova concezione del drammaturgo dovesse essere qualcosa di diverso da quel che era stata finora; un dramma storico o una commediola di più, poco o nulla avrebbero aggiunto al valore della vecchia produzione.

E intorno al valore artistico della sua opera letteraria gli spuntava forse un dubbio nella mente matura; esso trasparisce da alcune parole della prefazione al Libro dei versi pubblicato pochi mesi avanti la sua morte.

Egli parla di questo volume, dove ha raccolto quel che gli è parso il fior fiore della sua molta suppellettile poetica, più come di una testimonianza del suo intimo io, che di un'opera d'arte; lo chiama la sintesi di tutta una produzione lirica, in rispetto unicamente al soffio che l'animò, ai sentimenti che la destarono, un libro vissuto, il compendio in versi delle memorie di un poeta. E, con amarezza, premette alle strofe del Ritorno notturno: Fra la lotta politica e l'arte, viene l'ora in cui pur troppo bisogna scegliere, ossia scegliere fra gli aspri doveri contratti nella vita e i godimenti della fantasia.

Forse avrebbe detto meglio e più chiaramente: o le ansie tormentose della forma. Ma egli queste ansie le conosceva poco. Nella lirica come nel dramma, la forma è l'ultima sua preoccupazione; e dicendo forma non intendo parlare soltanto delle minuterie dello stile, ma dell'intiera concezione, dell'organismo dell'opera d'arte. Un giorno che, per capriccio, vuol darsi lo svago di fare un'ode saffica per provare al Chiarini che non è assurdo scrivere versi italiani nei quali si possano conciliare le leggi metriche italiane con quelle del ritmo latino vero, è preso da congestione cerebrale, stramazza per terra, e gli rimane un'invincibile e prudenziale avversione, egli dice, contro i metri barbari.

Ma io credo che anche senza la paura di nuove e meno dannose congestioni cerebrali, egli avrebbe avuto uguale avversione contro ogni difficoltà di forma, contro ogni tentativo di novità da cui potesse sentirsi troppo infrenato. Se si scorre, anche sfogliandolo, questo volume di versi, si ravvisano a occhio, senza lèggere, le sue preferenze pei metri facili ben sonanti, ben rimbombanti o ben fluenti: quinari doppi, senari doppi, decasillabi, strofe quasi cantabili di settenari, quartine di endecasillabi alternati con piani e tronchi.

E come nella lirica, così nel dramma. La concezione di tutto il lavoro, le passioni, i caratteri, la distribuzione delle scene, il dialogo non escono un istante dalle usate forme teatrali. Non c'è un lontano accenno di tentativo per vincere gli impacci di una delle tante convenzioni che sono gli organi atrofizzati di un organismo vivente e non più necessari alla esistenza: convenzioni che altri combattevano già, che altri hanno già abbattute e vinte. Per ciò tutta la sua opera drammatica, che pure dimostra un ingegno dotato di buone qualità teatrali, rimane quasi non avvenuta, non lascia orma nella storia della forma, come non lascia un personaggio, un carattere, una creatura sopravvivente.

Eppure poche persone hanno tentato la lirica e la drammatica con migliore e più soda preparazione di lui; poche persone hanno teorizzato nelle polemiche con criteri più spassionati e più giusti dei suoi, sia trattando le questioni dell'idealismo e del verismo nei giorni in cui lo Stecchetti le aveva suscitate con Postuma e con Polemica, sia trattando il soggetto dei metri barbari, dei quali aveva, come ho accennato, un prudenziale orrore. E di questa polemica, ora dimenticata, ma che può insegnare o rammentare parecchie cose buone anche oggi, mi piace staccare il seguente tratto:

 

"Questo bisogno di rinnovamento che è, direi, nel sangue e nell'aria, e travaglia gli artisti e via li porta nella sua rapina, si traduce ai più incoscienti in una ricerca quasi morbosa del nuovo e del bizzarro, come tale. Del processo intimo che la letteratura attraversa costoro sentono vagamente il soffio: intendono che qualcosa intorno ad essi, non nei tipi eterni, ma nelle forme dell'arte, si modifica, si trasfigura: e non avendone che una nozione confusa, tementi solo di rimanere in ritardo, o di parer fuori del movimento, corrono dietro affannosamente, come i fanciulli alle farfalle, ad ogni larva non veduta o strana, ad ogni luccicchio che passi loro davanti agli occhi, per l'aria. Ciò che nello ingegno dei migliori è un presentimento gagliardo di nova via e ragioni dell'arte ancor non note, ch'essi vanno tentando ed esplorando con orme insieme mal sicure ed audaci, aumenta l'impazienza smaniosa di tutti quelli che dietro a loro si affollano a far coda, aspettando che i novi sbocchi si aprano. Dove i primi mettono, tastando il piede, e tutti corrono; se uno si addentra a capriccio in un viottolo, solo per vedere ove vada a por capo, e tutti dietro, credendo ch'egli abbia imbroccato la via; se quello sotto un andito si mette a cantare per sentir se c'è l'eco, e tutti a far coro, credendo che sia quella la poesia nuova. Quell'altro avrà poi un bel tornare indietro ad avvertire che il viottolo era chiuso e che sotto l'andito egli stava solamente provando la voce!

"Così i tentativi, i capricci stessi dei migliori alimentano questa smania della novità per la novità... si bada se dall'intima opera rinnovatrice si afferrino invece soltanto le accidentalità fuggevoli, i tentativi ingannevoli dell'esplorazione."

 

Tutto questo è ben osservato e ben detto, quantunque non si tratti di un fenomeno nuovo e speciale dei nostri tempi, tale da dover suscitare sdegno o meraviglia. Se non che il Cavallotti non sentiva il bisogno di quei tentativi, e neppure quello, meno lodevole, dei capricci di cui egli parla. E la ragione della sua tranquillità acquiescente io la trovo nel concetto che egli ha dell'arte, strana confusione tra forma e concetto; nella pedestre interpretazione dell'aforismo: L'arte non deve avere altra finalità che sé stessa.

Questa confusione tra forma e concetto e questa che io chiamo pedestre interpretazione dell'aforisma l'arte per l'arte ci daranno la chiave per spiegarci in che modo un ingegno così riccamente dotato non sia potuto uscire nella drammatica nella lirica fuori di quel limbo della mediocrità che Orazio chiamò aurea non saprei dire perchè.

 

 

II.

 

Per conoscere gl'intenti del drammaturgo, non saremo impacciati. L'autore ci ha risparmiato il fastidio di andare a racimolarli qua e , a cavarli fuori dalla stessa opera d'arte quale si presenta agli spettatori e ai lettori. Prefazioni, note, prologhi ne son pieni; basta quasi aprire a caso uno dei volumi delle sue opere pubblicate dalla Tipografia sociale E. Reggiani e C. di Milano. Nella notissima lettera al Ferrigni (Yorich figlio di Yorich) sull'Alcibiade, La critica e il secolo di Pericle, c'è un credo in regola, che può benissimo applicarsi a tutta la sua produzione teatrale.

Io l'accennerò tanto più volentieri, quanto più voglio limitare questo studio ai lavori di soggetto greco, che sono la parte più caratteristica della sua opera drammatica e senza dubbio la più importante.

Al signor Roberto Stuart che gli avea rimproverato di non aver avuto nessun intento nello scrivere le scene greche dell'Alcibiade, egli rispondeva trionfalmente:

"Anzi ne ho avuto parecchi.

"Primo: Un intento drammatico... È una mia idea che dramma voglia dire contrasto di passioni e che questo contrasto, questa lotta possa succedere tanto fra più individui, quanto in un solo...

"Una ragione storica, critica e filologica: offrire agli studiosi una pittura, dei quadri, delle scene della vita greca del secolo di oro, colta nella sua fase forse più caratteristica e culminante....

"Terzo intento del lavoro: Un intento morale....

"Infine, una considerazione storico-politica".

Troppi, se si vuole, ma non guasterebbero, se l'intento drammatico fosse rimasto davvero il primo; e doveva essere l'unico.

La lettera a Yorich figlio di Yorich è splendida per calore, per ironia di buona lega, per erudizione. Essa e le note al dramma, spesso spesso eccessivamente prolisse, dimostrano con quanta cura coscienza il Cavallotti si sia preparato a scrivere il suo lavoro. Ma prima di parlarne particolarmente, mi piace ripetere, intorno alla tesi generale di queste interpretazioni artistiche di un fatto storico, quel che scrivevo sedici anni fa a proposito della Sposa di Mènecle.

"Quando penso che noi, generazione venuta su dopo il 48, non intendiamo più quasi nulla del gran complesso di sentimenti e di idee che formarono quella gloriosa rivoluzione; quando penso che il secolo decimottavo, del quale possiamo studiare da vicino qualcuna delle reliquie viventi, ci fa lo stesso effetto delle epoche greca e romana, tanto ci apparisce diverso da tutto quel che costituisce la nostra vita presente, mi meraviglio che si possa tentare con animo sereno una interpretazione artistica (la parola non è eccessiva) di epoche che per costumi, sentimenti, religione, scienza, filosofia furono quasi agli antipodi di quel che siamo ora noi.

"Dicono: C'è il documento scritto, c'è il documento archeologico. Noi facciamo delle ricostruzioni meravigliosamente esatte. Per ogni parola, per ogni frase, vi presentiamo un testo, venti testi che potranno servirvi da controlli. Abbiamo i poeti lirici, gli storici, i comici, i tragici; abbiamo le statue, le pitture, le ruine, e poi tutto il grande arsenale archeologico, una infinità di arnesi domestici e di gingilli che ci mettono sotto gli occhi l'esteriore della vita antica in modo da non poter prendere nessun abbaglio. Quella vita intima d'allora, così diversa per chi la guardi alla superficie, studiata dappresso e minutamente, somiglia in moltissime cose, come due gocce d'acqua si somigliano, alla vita intima di oggidì; molti di quei tipi, di quei caratteri, di quegli affetti della commedia greca del IV secolo, trovano ancora oggi, negli affetti e nei tipi della società nostra, riscontro meraviglioso6... A prima vista, la prova è, come suol dirsi, schiacciante. Quei personaggi non pronunziano una sola parola che non abbiano già detto Aristofane, Demostene, Menandro, Andocide, Platone, Eschine, Iseo, Luciano, Plutarco, Aristotile, Senofonte, Euripide, Alessi, Calisseno rodio, Teofrasto, Alcifrone, Eubulo, ecc., e che tutti gli scolasti e tutti gli interpreti non possano, all'occorrenza, confermare o schiarire..."

 

Facevo però osservare che:

"la vera vitalità di un personaggio consiste nei suoi sentimenti, nelle sue passioni; e la realtà storica di queste passioni sta tutta nella loro caratteristica che li rende diversi dai sentimenti e dalle passioni di un'epoca precedente o posteriore. Senza dubbio l'amore di oggi ha molti punti di contatto con lo stesso sentimento provato dai greci e dai romani e anche dagli uomini primitivi; ma l'amore di oggi contiene, innegabilmente, elementi che allora non esistevano affatto, e non ha nelle stesse proporzioni di allora, gli elementi che una volta dovettero essere predominanti. L'artista che, volendo darci la rappresentazione dell'amore, non riesce ad afferrare la caratteristica propria di una data epoca, fa opera sbagliata. E questa caratteristica sta tutta nella differenza, non nella rassomiglianza..."

 

E citavo come esempio la tristezza, la malinconia, quel che di vago, di sfumato del sentimento che la parola stenta a rappresentare. E ammettendo che i greci antichi avessero dovuto provare anch'essi in certe ore, in certe circostanze della vita, la tristezza, la malinconia e, forse pure un po' di sentimentalità, soggiungevo:

 

"Soltanto a giudicarne dalle testimonianze letterarie che ci restano, le proporzioni di tali sentimenti erano assai diverse presso di loro e per moltissime ragioni. La misura noi la sentiamo e la giudichiamo leggendo Eschilo, Aristofane, Euripide, Pindaro, Anacreonte, Menandro: è come un profumo, come qualcosa di imponderabile che si stacca da quelle opere immortali e ci la sensazione delle sensazioni dell'antichità.

"I riscontri con la vita moderna vi s'incontrano di tratto in tratto e sorprendenti; ma sono più esteriori che intimi o, per dir meglio, che organici e fondamentali. Sarebbe proprio meraviglioso che non fosse così. In questo caso bisognerebbe convenire che l'opera di due civiltà, la romana e la cristiana7 (senza voler contare quella delle influenze intermedie) sia stata a dirittura o inutile o inefficace per lo spirito nuovo, e dovremmo dare una solenne smentita e alla storia e alla scienza"8.

 

Queste ragioni il Cavallotti non voleva intenderle. Aveva detto, nella prefazione all'Alcibiade, che la natura umana è sempre la stessa in ogni tempo; e in una lettera a me diretta, credo nel Secolo, zeppa al solito di citazioni, tentò di persuadermi che stavo dalla parte del torto pensando diversamente da lui. In fondo anche lui era convinto che, se lo studiare coscienziosamente un'epoca dovea essere obbligo dell'artista, l'aver adempiuto quest'obbligo non bastava per l'opera d'arte.

"L'artista anzi tutto studii di immedesimarsi con quell'età; e alla verità delle passioni ritrovi gli accenti e le corde nella verità completa dell'ambiente. Allora l'illusione artistica sarà perfetta; allora le figure che l'artista evocherà saranno vere e vive, rappresenteranno uomini e non nomi, persone e non personaggi9".

 

Certamente egli si lusingava d'aver raggiunto lo scopo, se ha risposto a certe critiche invocando per sua difesa l'esempio dello Shakespeare. Poteva andare più in : il barbaro inglese non aveva gli scrupoli di lui riguardo alla storia. Se gli faceva comodo, metteva un'università a Vittenberga ai tempi di Amleto, spingeva il mare fino in Boemia (Novella d'Inverno, atto III, scena III), faceva molto a fidanza con la vivacissima immaginazione degli spettatori, si serviva di tutte le libertà che l'organismo, ancora in formazione, dell'opera drammatica gli concedeva; ma nello stesso tempo creava uomini di carne e ossa; e se ogni parola dei suoi personaggi non poteva essere giustificata con l'autorità d'uno storico, d'un cronista, di un autor comico o tragico, non importava; essi parlavano secondo la loro vita interiore, avevano sempre un motto profondo che rivelava gli abissi del loro cuore, che metteva a nudo le loro anime non con un ragionamento, non mostrando, per dir così, il filundente su cui aveva ricamato l'autore, ma dandoci il resultato della nascosta operazione dello spirito, come nella vita reale.

Lo Shakespeare sapeva il suo mestiere. L'autore drammatico non è uno storico, non è obbligato alla scrupolosa esattezza dei fatti che mette in azione: è solamente obbligato, o almeno, innanzi tutto, è obbligato a creare personaggi viventi, a interpretare perciò la storia quando le chiede in prestito un soggetto: il resto è cosa secondaria. E in questa interpretazione lo Shakespeare è sovrano; l'illusione della realtà, se non la realtà. La Venezia dell'Otello, la Roma del Giulio Cesare, la Danimarca dell'Amleto sono resurrezioni, evocazioni che ci fanno stupire. L'erudizione non ci darà mai qualcosa di simile, con tutta la sua precisione, con tutta la sua scrupolosità. E quando essa verrà a dirci che documenti ora dissepolti dimostrano Desdemona una donnaccia e il povero Otello il più tradito dei mariti, noi sorrideremo ma non muteremo opinione. Questa Desdemona degli archivi non c'interessa; per noi la vera Desdemona sarà sempre quella dello Shakespeare, cioè una purissima e dolce creatura innamorata - a dispetto di tutti i documenti, a scorno di tutti gli eruditi.

Il Cavallotti che non si vuol persuadere della necessità di circoscriversi alla rappresentazione del proprio tempo, sente però involontariamente di essere del suo tempo: la grande cura di conformarsi alla storia, di giustificare con un'infinità di note ogni parola e ogni azione dei suoi personaggi non significa altro. Il Manzoni aveva detto che il dramma storico vive calcolando molto su la ignoranza degli spettatori: e il Cavallotti, in omaggio al positivismo odierno, non vuole che si pensi ch'egli abbia, per conto suo fatto quel calcolo. Occorreva un ben piccolo sforzo per fare un passo più innanzi, e riconoscere che il circoscriversi nella rappresentazione del proprio tempo sarebbe stato omaggio migliore al positivismo contemporaneo; e che il verismo, il materialismo non erano capricci di teste bislacche, scuse di artisti pigri, incapaci di idealizzare, ma conseguenze della riflessione matura, da cui è stato riconosciuto che un'opera d'arte è il prodotto di un tempo, di una razza, di una civiltà, e che la storia, il passato ricostruito dalla fantasia postuma è una fantasmagoria passata a traverso quegli elementi e da essi modificata, trasformata e deformata. Si sarebbe risparmiato parecchie volgarità; per esempio: che il verismo, il naturalismo pretendano che l'arte debba essere soltanto "la fotografia di quello che esiste in natura e come vi esiste; e che i suoi uomini non debbano portare che il frach, e le sue donne non debbano vestire che colle mode dell'ultimo figurino10". Si sarebbe risparmiato di ripetere le sciocchezze che "fantasia, poesia, idealizzazione del vero" siano oggi stimate "roba scolastica da far dormire,"; e che l'arte odierna consiste tutta in "un po' di spirito di osservazione, per riprodurre, tal quale, quel che succede ogni , in un po' di raziocinio per coordinarlo, in un problema sociale ed economico da risolvere, o in un adulterio pudico da legittimare! 11".

Che ridurre il presente in opera d'arte non sia tanto facile quanto egli credeva, lo dimostra l'opera drammatica sua stessa, quando, lasciati in pace i greci del tempo di Alcibiade, i Messeni della 28.a olimpiade e quelli della 100.a mette su la scena passioni e personaggi contemporanei. Lo sforzo dell'erudizione qualche parvenza di vita a quei greci, e Alcibiade, Timandra, il parassita Cimoto, Aristomene, Laodamia, Mènecle e Aglae la vincono su la contessa Bice delle Lettere d'amore, su la Lea del dramma che ne porta il titolo, su l'Emma della Figlia di Jefte, sul Povero Piero, sui cugini del Cantico dei Cantici, per nominare soltanto quei personaggi che mi vengono in questo momento alla memoria. I greci guadagnano nel confronto perchè non possiamo fare riscontri con la realtà; dobbiamo contentarci del press'a poco che l'erudizione ci permette. E se la creazione ci sembra insufficiente, siamo proclivi a scusare il poeta, a tenergli conto dello sforzo che ha dovuto fare per imbastire quelle figure, per dar loro un che di organico, servendosi di frammenti, di accenni, di materiali diversi faticosamente raccolti qua e . Coi personaggi moderni il compito è facile; la loro manchevolezza, la loro falsità, la loro convenzionalità saltano agli occhi. Possiamo riscontrarli con noi stessi, coi nostri vicini, coi nostri amici, con le persone che incontriamo per via, e misurarne subito il vuoto, l'inefficacia.

Il Cavallotti dovea certamente sentire questa deficienza di forza creativa, se non ebbe mai il coraggio di affrontare su la scena la rappresentazione di un qualche alto fatto della vita moderna: se lui, così mescolato nelle agitazioni sociali, così penetrante indagatore della putredine parlamentare, così inesorabile censore di giornalisti affaristi, di ministri da lui creduti dilapidatori del pubblico danaro, osservatore e parte (quorum pars magna fuit) di commedie, di drammi e di tragedie contemporanei, si sia soltanto rifugiato presso i greci: e abbia preferito di dipingere i grandi quadri della splendida decadenza della repubblica ateniese, l'eroica guerra dei messeni su per le rocce del Dentelio o Deltanio che debba dirsi, e fra le gole di Ecalia, quando ha voluto uscire dai piccoli fatti, dalle piccole passioni; quando ha amato piuttosto farci sorridere e intenerirci coi casi familiari del vecchio Mènecle e della sua giovane sposa Aglae, che tentare il problema del divorzio nella società in cui egli viveva, o altri problemi morali e sociali non meno elevati e non meno attraenti di questo.

E sarebbe studio interessante il ricercare per quali ragioni un uomo come il Cavallotti, che non è vissuto rinchiuso nelle quattro pareti della sua biblioteca, svolgendo nella solitudine le polverose pagine dei classici greci, che anzi ha passato tutta la sua giovinezza in continue agitazioni di amori, di odii, di polemiche, di duelli, e che ha pagato miseramente con la vita questa irrequietezza e questa smaniosa rincorsa di ideali, diversamente giudicabili ma degne di essere rispettate dopo ch'egli le ha suggellate col sangue a Villa Cèllere. E nelle circostanze della sua vita si troverebbero certamente molte scuse, molte dilucidazioni intorno ai pregi e ai difetti dell'opera di lui; si vedrebbe quanto gli abbia nociuto la fretta per quella ch'egli chiamava scherzando, in una delle sue ultime lettere, la fabbrica dell'appetito; e si ammirerebbero maggiormente la sua cultura e il suo ingegno. Giacchè, è innegabile, ingegno egli ne aveva parecchio, e si può scorgere dalle circostanze in cui fu scritto, per esempio, l'Alcibiade, l'opera sua più vasta e più poderosa.

Negli ultimi di giugno del '73 pubblicando il volume delle sue Poesie e temendo rappresaglie da parte del Procuratore del Re e della polizia, egli va ad annidarsi nel granaio di una casa di campagna presso Meina, in riva al Verbano: e istituito un eccellente servizio di informatori, pel caso che la polizia fosse venuta a ricercarlo lassù, lavora per quasi due mesi, dalle sei di mattina alle dodici, spendendo le ore del pomeriggio nel consultare i classici e nel prendere note; quelle note che poi metterà a piè di pagina, per dimostrare che i suoi personaggi non hanno detto un'esclamazione, non hanno formolato un pensiero che Aristofane, Menandro e i minori comici, Platone, Plutarco, Luciano, Aristenete non abbiano espresso quasi con le stesse parole. E in quel granaio che serviva per l'allevamento dei bachi, il suo spirito non è tutto di Alcibiade e degli ateniesi e spartani che formicolavano attorno a lui insieme con gli sciti di Patti su l'Ellesponto; il padre e un amico lo tengono informato delle cose di Milano, degli avvenimenti politici, e dell'improvvisa morte del Billia che gli era amicissimo e compagno di lotte nei fortunosi tempi di Lissa e Mentana, del processo Lobbia e nella redazione del Gazzettino rosa, ricordato dai milanesi, credo, ancora con terrore.

 

 

III.

 

L'Alcibiade, dopo la Sposa di Mènecle, è il lavoro del Cavallotti in cui si mostrano meglio certe sue qualità di immaginazione e, stavo per dire, di creazione, se la parola non potesse sembrare eccessiva trattandosi di organismi rimasti a mezzo, più accennati, che sviluppati. La vastità del quadro impòstosi lo costringe a far questo. I personaggi passano davanti ai nostri occhi come le bizzarre figure di un caleidoscopio; non abbiamo tempo di fissarle; appariscono e si dissolvono; meno il protagonista che è, naturalmente, sempre in vista e unità all'azione.

Unità però che è aggregamento, non organismo. Sarebbe stato meglio, per esempio, che il drammaturgo non si fosse scusato di aver confuso in uno due momenti della vita del suo eroe, peccato neppur veniale, e avesse sviluppato più un carattere genialmente concepito e abilmente tratteggiato, quello del parassita Cimoto che, da misero ricercatore di pranzi a ufo, da punto coscienzioso agente elettorale, come diremmo oggi, si eleva a poco a poco ad altezza di eroe nella scena finale.

I soldati di Lisandro, circondata la povera casa colonica in Frigia dove Alcibiade e i suoi si sono ricoverati, vi hanno appiccato il fuoco. Alcibiade tenta un'ultima resistenza, ma torna indietro ferito, barcollante, quasi soffocato dal fumo. Timandra, la fedele cortigiana che è stata il buon genio di lui, lo accoglie morente tra le braccia.

 

Alcibiade. Timandra, un bacio!... Cimoto, a te la raccomando; non distaccarti da lei.

Cimoto (piangendo e singhiozzando). Oh, mio padrone! mio padrone!

Alcibiade. Quando tornerai in Grecia, di' ad Atene che spirai col suo nome su le labbra.... e racconta a Socrate come son morto!... Addio!... Ricordati di Alcibiade! (ricade e muore).

 

E allora la cortigiana si purifica; vuol morire con l'amato, come olocausto alla Dea sotterranea da lei invocata. Le fiamme crepitano da ogni parte.

 

Timandra. Cimoto, vanne! Le fiamme incalzano! Ancora un istante e non sarai più in tempo.

Cimoto (cupo). E tu?

Timandra. Io... io compio il sacrificio... ed infioro la vittima... vanne! Le fiamme son qui.

Cimoto. Timandra, hai ben sentito che egli mi ha detto di non lasciarti? Dal che Alcibiade mi chiamava a , egli non offerse mai vittima ai Numi, senza che io ne avessi la mia parte. Qui si fa un sacrificio in suo onore. Sono il suo parassita. Ci resto!

 

E si avvolge nel suo mantello, attendendo, ritto e fermo, che le fiamme lo avvolgano insieme con Alcibiade e Timandra.

C'è un: Vanne! c'è un quel , e il ci resto che può indurre in equivoco, se Cimoto vuol restare suo parassita o restare per prender parte al sagrificio: piccoli nèi di forma che abbondano in tutti i lavori del Cavallotti e che più stonano qui dove la perfezione dello stile dovrebbe essere degna del soggetto greco. Ma questi altri nèi impediscono di ammirare la concezione, come l'ammirazione non impedisce di rimpiangere che il carattere di Cimoto non abbia potuto disegnarsi completamente per giustificare il mutamento avvenuto in lui.

Il poeta ha una scusa e l'ha detta: La vastità delle proporzioni della tela. Ma è scusa insufficiente. Chi gli ha imposto quella vastità? Chi gli ha imposto di dare a tutto il suo lavoro una forma vieta, sorpassata, quantunque sia stata la forma adottata dallo Shakespeare pei suoi drammi che racchiudono parecchi secoli della storia d'Inghilterra? Allora certe convenzioni erano perdonabili. Lo Shakespeare se ne serviva perchè non repugnavano a lui ai suoi contemporanei, e se ne serviva (bisogna aggiungerlo) da pari suo. Voglio pure ammettere, come larga concessione, che il Cavallotti le adoperasse in quella riduzione dell'Alcibiade destinata alla rappresentazione; ma avrebbe dovuto farle sparire dal lavoro destinato alla lettura. Bisognerebbe esaminare minutamente il quarto quadro, quello della spedizione in Sicilia, per convincersi quanto il Cavallotti abbia abusato di certi mezzucci convenzionali, quasi che dallo Shakespeare in qua l'organismo drammatico non si sia sviluppato, perfezionato in niente: quasi sia lecito a un artista del secolo XIX ignorare questi svolgimenti e perfezionamenti o, per lo meno, disdegnarli.

Per questa ragione La sposa di Mènecle rimarrà il miglior lavoro di tutto il teatro cavallottiano, accettato il genere a cui appartiene.

Il prologo è una bellissima trovata. Il poeta comico Eudemonippo, un Felice Cavallotti greco εύδχιμων, felice, ιππος, cavallo) ha osato porre in iscena Mènecle, tesmotèta due volte, ambasciatore ai Corinti per parte degli Ateniesi, governatore in Lesbo, e attribuirgli un'azione che, secondo l'accusatore Beoto, capovolgeva ogni concetto della famiglia e della virtù. Il poeta è citato a difendersi nell'aula del Batrachio, davanti al Tesmoteta e ai giudici estratti a sorte. Assistiamo a una seduta con arringhe dell'accusatore e dell'accusato, con tutte le minute particolarità dei processi giudiziari ateniesi. Durante l'ultima parte dell'arringa di Eudemonippo, il Tesmoteta e i giudici dànno visibili segni di stanchezza sonnolenta. Quando l'oratore ha finito e si leva la corona, il Tesmoteta rialza, scotendosi vivamente, il capo.

 

Tesmoteta. Finito?... Ah! Passeremo dunque, prima dei voti, alla recita della commedia in atti... Or quindi, o giudici, l'arringa che udiste...

Il Cancelliere (additando i giudici) li ha persuasi. Dormono.

Tesmoteta. Davvero? (vivamente all'accusato) Recita che il momento è buono.

 

E cade la tela.

Nella Sposa di Mènecle i caratteri sono disegnati e coloriti con garbo. Quel po' di convenzionalismo che qua e si scorge non giunge a dispiacere; sembra un riflesso, un'eco della commedia menandrea arrivati a noi a traverso di Plauto e Terenzio, e passati un pochino pel Marivaux. Qualche volta il Cavallotti dimentica un po' i suoi greci, come nella scena X.a dell'atto terzo, dove Aglae, pur fingendo, pur esagerando, se si fosse meglio ricordata della sua origine ateniese dell'anno secondo della 100.a olimpiade, non avrebbe dovuto dire:

"Alla mia età, c'è qui dentro un cuore che batte, c'è un'anima che ferve, che soffre, che s'irrita, che ha bisogno del suo lembo di mondo e di cielo!... E quando la povera anima piange trovandosi al buio, quando piange perchè trovasi al chiaro... la si compiange! Bel conforto! tenetevelo."

E infatti qui non c'è nota, non c'è richiamo di testo antico di sorta alcuna.

Note e richiami invece troviamo dove forse non erano necessari. Non occorrevano un testo di Alessandro e un altro di Euripide per giustificare questo dialogo:

 

Mènecle:. E un amico come te...

Crobilo. Per tutti e dodici gli dei! Voglio credere!...

Mènecle. Val più d'un tesoro.

 

Eppure il Cavallotti ha cura di annotare:

"Meglio un amico sulla terra e innanzi ai nostri occhi che un tesoro sotterra e lungi da noi (Alessandro, Citarista fram. 3). Nulla è più prezioso di un amico sicuro: ricchezze, regno. (Euripide, Oreste, v. 1155).

Il convenzionalismo drammatico apparisce, come ho accennato, più evidente nei lavori di soggetto moderno. Per la Lea, in un altro prologo a bastanza originale, che mette in scena parecchie macchiette di avventori del caffè del Teatro Manzoni di Milano - una specialmente caratteristica, quella di Fulvio, ameno e onesto boème a cui tanti vogliono bene, autore di libretti melodrammatici, sempre in cerca di cinque franchi o di un francobollo che gli fa più comodo invece d'un sigaro che gli viene offerto - il Cavallotti che ha profuso prologhi in azione o in versi, per la Lea dunque fa dire e dice:

 

Fulvio.

 

... Eh, mi sembra, scusa se mal mi appiglio,

Che il tema abbia la barba lunghetta un mezzo miglio.

La va, capisco, al modo di svolgerlo... e poi, se

Il tema è vero...

 

Autore.

 

È storico...

 

Fulvio (incredulo).

 

Storico?

 

Autore.

 

Eh, altro che!

Ti basti che nei fogli fu raccontato un fatto

Preciso tale e quale lo narro al secondo atto.

 

Fulvio.

 

Ne dicon tante i fogli! E poi non è ammissibile

che un fatto, perchè vero, debba anch'esser possibile.

 

Fulvio avrebbe, forse, voluto dire: possibile in arte, cioè reso tale.

E tale non è reso in Lea. Per ciò la catastrofe risulta violenta o meglio melodrammatica.

Riccardo Verneda ha rapito Lea ed è andato a passare la luna di miele in un villaggio remoto, per sfuggire alle ricerche dei parenti di lei che avversano quell'unione. La madre di Lea infatti le tende un tranello: si finge moribonda e richiama la figlia al letto di morte. Riccardo non può impedire ch'ella parta. Lea dai suoi genitori vien rinchiusa in un convento.

Riccardo, per otto mesi, ne ricerca invano le tracce, e all'ultimo riceve l'atto di morte di lei. Un anno dopo egli sposava Ida, e ne aveva un figlio. Passati sette anni, proprio il giorno in cui nella villa di Riccardo fanno i preparativi per festeggiare il suo onomastico, ecco Lea ancora viva, ancora innamorata, miracolosamente fuggita dalla sua prigione monastica! Ci vuol poco ad accorgersi che arriva terza molto incomoda nella famiglia del suo rapitore. Da principio ella vuol farsi forte del suo diritto, riprendere il posto di sposa; la legge sta dalla parte di lei. Ma un grido del figlio di Riccardo: - Mamma! Mamma! Non piangere! - e un rimprovero rivolto a lei, Lea: - Signora cattiva, se facessero piangere la mamma tua... - le mutano a un tratto il cuore. Anche lei ha fatto piangere la sua mamma fuggendo dalla casa paterna con un uomo, e l'ha fatta morire di dolore! Quel che ora, ritrova, dopo sette anni, è il suo gastigo. Riccardo le si getta ai piedi:

 

Riccardo Lea!... perdonami!

Lea (chinandosi su lui e prendendogli la testa nelle mani, gli susurra all'orecchio con accento rapido a fior di labbra).

Mi ami ancora?... Mi ami?

Riccardo. Sì.

Lea (c. s.) Verresti meco?

Riccardo. Sì.

Lea. Ah! era ciò che volevo!... Ora sì che l'andarsene è bello! No, no... Vivi a tuo figlio! Il passato sta nella tomba... Ebbe torto ad uscirne... e ci ritorna!

 

E si precipita dal balcone prima che Riccardo potesse trattenerla.

In tutte le sue produzioni di soggetto moderno non c'è un carattere, una figura che possa star a paro col Cimoto dell'Alcibiade; non c'è una scena che si elevi dalla mediocrità, che possa attestare una concezione, uno svolgimento fatti con elevate intenzioni di arte e con novità di tecnica. Alessandro Dumas il giovane, l'Augier, insomma, l'arte moderna è rimasta come non avvenuta per lui. la stessa Sposa di Mènecle è tal lavoro che possa lasciare una lieve orma nella storia dell'arte drammatica, anche restringendoci alla sola arte drammatica italiana. Un lavoro che, pur attaccandosi al passato, non porge addentellato per l'avvenire, è cosa nata morta.

Componiamolo nel sepolcro, e la terra gli sia lieve.

 

 

IV.

 

E ripensando all'eccessiva scrupolosità delle note ai suoi tre lavori di soggetto greco (Nicarete non ho potuto vederlo, credo non sia stato ancora pubblicato) voglio qui rammentare un tratto caratteristico dell'uomo, l'unica volta che l'ho conosciuto da vicino, due anni fa.

Facevo parte, col Panzacchi e lui, della commissione esaminatrice degli scritti per la gara finale dei Licei del regno, nella quale il Ministero della Istruzione pubblica concede una medaglia di oro. Ci riunivamo in una sala della Minerva due volte il giorno. Gli scritti da esaminare erano una sessantina. Il Panzacchi aveva fretta di tornare in Bologna, e appena gli capitava in mano uno scritto che dalle prime tre o quattro pagine si palesava molto mediocre, tale da non presentare nessuna probabilità di esser preso in considerazione, subito proponeva:

- Smettiamo di andare avanti; non perdiamo il nostro tempo.

Io ero di accordo con lui; ma il Cavallotti si affrettava a dire, quasi balbettando:

- No, no! Chi sa?... Vediamo. E poi, è dovere nostro.

Si leggevano altre due, tre, quattro pagine; il lavoro peggiorava.

Il Panzacchi, impaziente, alzando le spalle, brontolava:

- Ma insomma, che dobbiamo più vedere? Non va. Smettiamo, passiamo a un altro.

Io ero di accordo con lui. Ma il Cavallotti insisteva:

- Ancora un po'. Chi sa?... Non precipitiamo il nostro giudizio...

E quando si era finito di leggere, il Panzacchi protestava:

- Hai visto? Ti sei persuaso che noi due avevamo ragione? E così abbiamo perduto due preziose ore di tempo!

- Non importa. Ora sono tranquillo.

E per giustificare le sue esitanze, soggiungeva:

- C'è del buono, qua e : ha un concetto patriottico... È vero?

E si rivolgeva a me che, sorridendo tranquillo e rassegnato, rispondevo:

- Il patriottismo non è una ragione per malmenare la lingua e lo stile.

E si passava a un altro scritto; e si tornava rifare la stessa scena, quasi con le stesse parole, e con identico risultato. E non ci fu caso che l'esperienza di otto o nove scritti inducesse il Cavallotti a cedere, a non andare fino in fondo.

Faceva di più: nelle ore pomeridiane tornava alla Minerva un'ora prima dell'ora fissata. Aveva paura che non si fosse lasciato illudere da una lettura frettolosa, da una discussione in cui non avesse saputo tener testa contro il Panzacchi e me, e tornava a rileggere da solo quegli scritti. Il giudizio non mutava, ma egli si sentiva più tranquillo. E al nostro arrivo, ci rileggeva qualche brano non mal riuscito, specialmente quelli dove lo studente aveva infilato una serie di belle frasi patriottiche.

- Peccato! Se fosse andato avanti così!

- Tu hai tempo da perdere! - tuonava baritonalmente il Panzacchi, e rideva.

Rideva anche lui, il Cavallotti, e poco dopo eravamo daccapo:

- Vediamo!... Chi sa?... Forse, avanti...

Pareva un'esagerazione, una posa, e non era. Proprio come sembrano un'esagerazione, una posa da erudito quelle note, quei riscontri, quelle citazioni a piè di pagina, che raddoppiano e anche triplicano il volume dell'Alcibiade e quello dei Messeni e della Sposa di Mènecle nell'edizione del Reggiani.

Io credo che il Cavallotti sia stato, tra gli autori drammatici italiani, colui che abbia ricavato un maggior compenso dai suoi lavori. Mi è stato detto che non si contentava dei decimi; richiedeva anticipazioni a fondo perduto, sicuro che le sue commedie e i sui drammi potevano contare su la benevolenza del pubblico. Non sarà malignità aggiungere che l'influenza dell'uomo politico giovava all'autore drammatico, ma stimo che si possa aggiungere ch'egli non la sfruttasse per progetto. La politica s'infiltrava, non ostante la puritaneria di lui, nei larghi successi dei suoi lavori. La misera fine dell'autore ha prodotto in questi mesi una rifioritura di rappresentazioni e di successi clamorosi. Le ragioni dell'arte però non hanno niente che vedere con essi. Le Rose bianche, Lea, Le lettere di amore, Agatodemon, il Povero Piero, non vivranno. Dei Pezzenti e dell'Agnese, drammoni in versi, non è da parlare.

La sera d'ogni prima rappresentazione il Cavallotti aveva la febbre; sembrava quasi stèsse per ammattire. A ogni impuntatura di attore, trasaliva, si agitava convulso, si arrampicava a una quinta, mandava fuori qualche moccolo, si versava intere catinelle di acqua fredda su la testa.

Alle prove, non era meno agitato. Un suo amico narra piacevolmente:

 

"Bisogna sentirlo ora come legge le sue commedie, e come rifà la parte dell'amoroso o del primo attore, servendosi alternamente dei suoi due registri vocali. Vedetelo adesso, piantato a gambe larghe nel centro della scena - come direttore sceno-tecnico preferisce il centro alla sinistra, che gli spetterebbe - togliendo al suggeritore la vista degli attori, che pendono dalle sue labbra; vedetelo rosso in viso, con lo sguardo intento e l'orecchio teso ad ascoltare, tormentando quell'infelice baffo destro, che deve alla sua posizione topografica sotto il naso il continuo esercizio depilatorio, al quale, non so come, resiste, con meraviglia del suo omonimo fortunato di sinistra.

"Ora sentitelo: interrompe la prova con un formidabile - No! - e si sforza di recitare a memoria, e con la dovuta intonazione, il periodo che qualche attore non ha inteso bene o gli ha storpiato; ma nella foga, spesse volte, replica ripetutamente una mezza frase che non riuscì a tirargli in mente l'altra metà. Allora si arrabbia con stesso, suda, si sbottona il vestito, getta via il cappello e strappa il copione dalle mani del suggeritore. Quando poi, con la scorta del manoscritto, ha rimesso in tono e raddrizzato i periodi, respira, si asciuga il sudore, si riabbottona, cerca il cappello, lo rimette nella consueta posizione e torna al posto".

 

Lo stesso amico, a proposito della prima rappresentazione dei Pezzenti a Milano, racconta il seguente aneddoto:

 

"Il Conte di Rysdal dorme in una delle due celle occupanti la scena. Svegliatosi, deve recitare una preghiera. Alzatosi il sipario, arrivato il momento, l'attore incaricato della parte non si move, non segno di vita. Il Cavallotti, che poco prima non aveva saputo spiegarsi un rumoroso e cadenzato respiro, al mormorio del pubblico capì subito di che si trattava. Slanciarsi contro lo scenario di fondo, darvi un solennissimo pugno accompagnato da un rabbioso e meneghino: Porco sciampin! e rompere il sonno al malcapitato attore fu tutt'uno! Il pubblico non si accorse di niente e la rappresentazione proseguì senz'altri incidenti."

 

 

V.

 

Probabilmente, nella lirica Felice Cavallotti non lascerà orma più profonda che nell'arte drammatica. Il Libro dei versi è quasi il suo testamento poetico e una piccola biografia insieme, divisa in sei parti con titoli diversi: La mia Arte, Il mio Paese, La mia casa, Sogni e sorrisi, Malattie, Ricordi scenici. Dal volume delle Poesie, dalle Anticaglie, dai drammi e dalle commedie, dove il Cavallotti non ha mancato mai d'introdurre qualche personaggio che scrive o recita versi, da riviste e giornali, fin da galanti ventagli, egli ha scelto, secondo il consiglio del suo editore Aliprandi - com'egli narra nella prefazione - quei componimenti che il cuore ripete più volentieri, quelli ai quali egli vuol più bene, non perchè migliori degli altri, ma anche perchè, a differenza degli altri, vi è appiccicato della sua vita, un qualche cosa il cui ricordo lo fa triste ed allegro, una qualche memoria che il tempo non ha cancellato.

E di questa prefazione è notevole la chiusa:

 

"Questo libro vorrebbe essere, per ciò che rispecchia, un libro sui generis: il libro cioè che il poeta, passato per molte lotte, arrivato a un dato punto della via, quando il crepuscolo si avanza, vorrebbe trovare vicino a nell'ora dell'andarsene, e lasciare di e dell'opera propria - quando il resto andasse perduto - come il più sereno dei ricordi, al figliuolo, come lui nato ad amare, come lui nato a lottare. E cioè vorrebbe essere come la sintesi di tutta una produzione lirica, in rispetto unicamente al soffio che l'animò, ai sentimenti che la destarono; un libro vissuto, il compendio in versi della memoria di un poeta. Ivi non saranno tutte le battaglie combattute: ma echi delle note che squillarono in tutte; ivi non saranno tutti i sogni sognati, ma parole e lavoro dei sogni che il poeta più amò. Sicchè coloro che non sciuparono il tempo nel tener dietro alla varia sua opera o nel leggere i volumi suoi possan dire, senza errore, di conoscerlo da questo: e quando ci sia passato fra i più, e data la molta sua suppellettile all'oblio, gli sorrida la lusinga di vivere in taluna almeno di queste pagine, e che a qualcuna di esse si arresti il sorriso di labbra gentili o il pensiero di qualche anima buona."

 

Malinconiche parole che rendono pensosi e inducono a credere che un confuso presentimento della sua prossima fine attristasse l'animo del poeta, se si ricordano le altre parole riferite dai giornali e da lui rivolte a un suo collega di deputazione poche ore prima dello infausto duello: Prepàrati a fare anche la mia commemorazione!

Certamente in questo volume sono raccolti i versi del Cavallotti che più volentieri si rileggono. Con bonomia tutt'ambrosiana, nell'autunno dell'anno scorso, in faccia agli ultimi raggi del sole che indoravano la collina di Dagnente, fra due bicchieri di ottimo Miradolo, il suo editore - com'egli riferisce - gli diceva:

- Quei versi , così a naso, mi pare che sian quelli che si capiscono di più e che girano meglio per le mani della gente. Lei ha gridato tanto la croce contro i versi che la gente non capisce!...

E sembra che abbia voluto dirgli:

- Negli altri suoi versi c'entra troppa politica, troppa partigianeria. Nati in circostanze eccezionali, hanno tutti i difetti delle produzioni che prendono occasione di un fatto politico particolare, di cui, nel momento che esso avviene, non si può dare un giudizio equo e sereno. Quando sopravvengono altri fatti che lo commentano e lo spiegano, la spiegazione e il comento affrettati, monchi, ingiusti ne diminuiscono il valore, specialmente se quei versi non hanno tale eccellenza di forma da ridurli immortali. Lasciamo che li ricerchino coloro che vorranno rintracciarvi i sentimenti e le idee dell'uomo politico. Costoro non si arresteranno a un'epoca, frugheranno qua e , potranno cavarsi il gusto di trovare il poeta di un tempo in contraddizione con quello di tempi posteriori. E avranno torto di scandalizzarsi di certe contraddizioni tra i sentimenti e le idee del giovane e quelli dell'uomo maturo - l'uomo tutto di un pezzo è quasi innaturale - purchè gli entusiasmi di una volta non siano meno sinceri degli entusiasmi di dopo. La politica è deleteria. Lo sa per prova un altro poeta. Pochi critici riescono a mantenersi nei limiti della discussione puramente letteraria, quando un concetto estraneo all'arte vi si è infiltrato per dividerne gli animi, per eccitarli, per offuscare le menti. Se occorrerà, se la forma ha avuto tanta potenza da elevare la poesia di circostanza, anche appassionata, anche ingiusta, anche maligna, a un'altezza sublime; se occorrerà, se sarà il caso, quando le passioni, gli eccitamenti, gli odii, i rancori, le invidie troppo personali non turberanno più gl'intelletti, la critica saprà fare e farà il dover suo, guarderà soltanto l'opera d'arte e la giudicherà unicamente come tale. Diamo per ciò tempo al tempo. Intanto facciamo un volume che riveli l'uomo nel poeta, o meglio, il poeta nell'uomo, se c'è; è più prudente, più pratico. -

Ecco quel che mi è parso d'intravedere in quelle parole di bonomia tutt'ambrosiana, e che ho riferito apposta perchè anche io non voglio ricercare il poeta lirico nei canti politici, ma circoscrivermi a studiarlo nel libro dei versi.

Non già che qui siano soltanto componimenti con contenuto dove la politica non faccia capolino e non lo invada intero con tutti i suoi sdegni, con tutte le sue ire, con tutte le sue contraddizioni; sarebbe quasi un miracolo, trattandosi di un uomo come il Cavallotti.

E a Giuseppe Garibaldi egli dirà:

 

Altra Italia sognavi! un'altra meta

Accarezzavi nell'ingenua testa!

Povero vecchio! il desiderio acqueta!

Ecco l'Italia dei tuoi sogni è questa!

 

Non pei suoi figli, tu ne' giorni rei

Dolce speravi d'una patria il vanto?

Vuota formola Italia or più non sei,

Tutto ora copri del tuo nome santo.

 

Guarda le nude, le tetre pareti!

Chiudono ancor le squallide dimore

I generosi, i matti ed i poeti...

Ma almen veglia alla porta il tricolore!

 

Ve' tra gli inermi, come un , si sbranca

Torma di sbirri per le dense strade!

Lavorano le daghe a dritta e a manca...

Ma almeno, almeno, son d'Italia spade!

 

Oh dolce orgoglio! Non più lo straniero

C'insulta nei cruenti parapiglia!

Le prepotenze son le stesse, è vero...

Ma almeno, almeno, son fatte in famiglia!

 

La forma non eleva l'ironia troppo volgare; e questo difetto fa pensare che gli Dei hanno voluto bene al poeta, evitandogli il pericolo di esser ministro e di trovarsi in circostanze che avrebbero permesso, a qualche altro non meno volgarmente, di ripetere che anche sotto il governo di lui altri generosi, altri matti ed altri poeti, o pretesi generosi, o pretesi matti e poeti, come si vorrà, avevano abitato le squallide dimore; che altre daghe non meno sbirresche avevano lavorato a dritta e a manca per le dense strade; giacchè la politica gioca simili e peggiori tiri ai suoi adepti, e non c'è abilità che possa evitarli.

Nella poesia Dijon, in morte del fratello Giuseppe, egli si lascerà sfuggire:

 

Oh, la notte che all'Alpi scoscese,

Solo, in vetta, sostando fra i geli,

Lungi il guardo oltre i limpidi cieli

Sospingevi la Francia a cercar

 

Di che lauri mai fosse cortese

Questo suol che a difender volavi,

E qual messe superba ignoravi

Tanto sangue dovesse inaffiar!

 

Non pensasti la gallica boria.

Curva ancor sotto l'asta germana,

Pei tornati guerrier di Mentana

Ritrovante l'oltraggio di un ;

 

E spartirsi l'ausonia vittoria

Quei che al Prusso voltarono il dorso.

E i paffuti fuggiaschi del Còrso

Scagliar fango a chi vinse e morì!

 

E annoterà: Non è inutile per la storia il rammentare di che gratitudine imperialisti, legittimisti, pseudo-repubblicani e clericali rimeritassero in Francia il soccorso magnanimo del vinto di Mentana. Ma sùbito la politica della sua parte repubblicana gli farà soggiungere: "Per fortuna... il vero popolo francese... ricorda con ammirazione e gratitudine il nome del vincitore di Dijon," quasi imperialisti, pseudo-repubblicani, legittimisti e clericali non appartenessero al vero popolo francese e non ne formassero la maggioranza!

Sarà meglio rifuggiarsi spassionatamente nella critica letteraria e, innanzi tutto, prender nota di una preziosa confessione del poeta:

 

A me polito e terso

Nel furiar de l'ore

Non concessero il verso

Le Pierie canore:

E di squisiti carmi

E d'armonia gentil

L'estro ignorò fra l'armi

Il delicato stil.

(La lucerna di Parini).

 

Infatti, proprio nel componimento che inizia il volume, nella prima strofa, c'imbattiamo in questi versi:

 

Ma già già l'ombre fasciano il piano,

Espero luccica ne lo zaffiro...

Il lampionaio comincia il giro

Per i viottoli de la città!

(Tramonto).

 

E nell'ultima strofa:

 

Or tu, fanciulla, che nel tripudio

Dei cari aprili mi chiedi un canto,

Tu, se dell'arte gentile incanto

Perenne fascino rida a' tuoi .

 

Nei tardi vesperi, su questa pagina

Se un melanconico sguardo ritorni,

Del fior più bello che il crin t'adorni

Lieve una foglia posala qui.

 

E più in in questi altri, nella lirica Alla Doccia perenne di Dagnente:

 

Ecco, or fantasima somiglio bianca

Che vada errando per la montagna...

Di qualche morto l'anima stanca

Che di alcun torto forse si lagna...

 

Senti, Giovanni, quando in lenzuolo

Simile a questo porranmi un ,

In qual sia trovimi lontan suolo

Di' la mia bara la portin qui.

 

Non voglio affermare che uguale trascuratezza s'incontri in tutte le sue liriche, ma è raro che qualcosa di trasandato, di dimesso, di comune non dia a quasi tutte l'aria di facili improvvisazioni. I metri troppo musicali lo affascinano, lo fanno trascorrere, gl'impediscono di scegliere fra le tante immagini che gli si presentano davanti, di indugiare su un aggettivo, di esitare intorno a una rima. L'eccitazione lo spinge innanzi senza dargli tempo di voltarsi addietro; le strofe sgorgano una appresso all'altra, lusingandogli l'orecchio, ed egli cede volentieri alla loro malìa.

Certe volte la trovata è geniale, ma la verbosità per poco non la sciupa; è gentile, ma fa rimpiangere che la forma non sia gentile altrettanto. La sincerità spesso lo salva, giacchè dov'egli appare anche più manierato si mostra pure sincero. In bocca a un altro questa strofa oggi farebbe ridere:

 

Oh melodi! o fantasime

Superbe del pensiero!

Santi dell'Arte fascini.

Caste Pimplee del Vero!

 

Triste chi osò di adùlteri

Amplessi i vostri altar,

Di servil carme i dèlubri

Di Pindo profanar.

 

In bocca sua fa appena sorridere, perchè c'è sempre un dissidio tra la sua forma e il suo concetto, quasi egli abbia gettato addosso a questo la prima veste capitatagli sotto mano, senza badare se gli si attaglia o no; forse, per la convinzione che il concetto, bene o male, più o meno efficacemente, si farà intendere; e questo gli sembra l'importante.

Infatti le naturali attitudini del suo ingegno sono ricche: l'impeto, lo slancio, la commozione, la tenerezza, il sorriso, l'ironia, la satira violenta si alternano, si mescolano, si confondono con vena abbondante.

Quella monotonia che scorrendo il volume si fa vivamente sentire è più nei mezzi ch'egli adopra, che non nella sostanza; nel verso, nel metro, nella costruzione della strofa, e anche un po' nella concezione generale. Si vede bene che, se egli non avesse avuto troppa fretta, se non avesse sentito alle spalle l'urgenza di altre bisogne specialmente politiche, l'opera sua avrebbe potuto riuscire assai ben diversa. Ma a lui, che scorge soltanto gli eccessi di certe ricerche di stile e giustamente le sdegna, anche il limæ labor sembra, o almeno pare che sembri, un eccesso. E perciò si fa dire dalla Musa:

 

Fra pergamene logore, astruse

Che andresti, misero vate, cercando?

Astrusi ritmi, strofe confuse,

Gergo dai vivi fuggito in bando?

 

Odon gli stitici metri di notte

L'ombre: te i cuori ch'odano io vo':

O scegli il plauso di scimmie dotte,

O scegli i baci ch'io sola do.

(L'Addio alla Musa).

 

Ma forse quand'egli rimpiange, con insolita bellezza

di forma,

 

I bei razzi lucenti

Lanciantisi alle stelle,

In fasci aurei spioventi

E in scintillanti fior!

 

Per mille goccie belle

Di color mille splende

La pioggia ignea... discende

Lenta ne l'aria... e muor

 

nella quale felicissima immagine adombra i fervidi giovanili sogni che

 

Spingean superbi voli

Incontro all'avvenir:

 

forse egli pensa quel che sarebbe stata l'opera sua letteraria, soggiungendo con amarezza:

 

Luce più lunga ed altro

Solco ne l'aria scura

S'era il mio cor più scaltro

Segnato avria il cammin!

 

Cercando la ventura

Per altre vie gioconde,

Avria più liete sponde

Raggiunto il mio destin!

 

E altri rimpianti, e altri dubbi intorno alla vitalità dell'opera sua gli sfuggono frequentissimi, assieme con accenni al riposo finale, quando il suo cuore avrà cessato di battere e la sua mente di lottare. E questo senso di scoraggiamento e di tristezza rende simpatico l'uomo anche a coloro che non amavano il partigiano politico e il polemista irruente. L'arte non è eccelsa, ma il carattere fa impressione; e qualche volta anche la persona prende rilievo e apparisce viva, come nella lirica I miei discorsi alla camera.

Egli si leva a parlare:

 

E sovra italiche labi e vergogne

De l'ire chiuse puntando l'arco

L'aspra parola, frenata al varco.

Tenta di arguzie vestita uscir.

 

Ma i forse, i quasi, i periodi corretti, i cauti motteggi gli sembrano una triste concessione, una viltà; e la parola scatta arroventata.

 

Ma inquieto l'occhio del presidente

Attento, vigile sopra gli sta,

 

Fatto a l'orecchio la man riparo

Ansio ogni sillaba segue il vegliardo;

Or bieche lanciagli rampogne il guardo,

Ora par preghilo...: Per carità!

 

Ed egli s'infrena, s'infrena; e il Biancheri lo ringrazia sorridendo. Ma di a poco, una forte scampanellata:

 

Allora... allora... dal cor profondo

Un non so cosa sal di molesto...;

E la man destra fa un certo gesto...

Come di cetra corde toccar.

Conclude in furia... finisce il fondo

De l'acqua e zucchero... poi corre via...

 

E infatti parrà di vederlo a tutti coloro che hanno assistito a qualcuna delle sue sfuriate parlamentari.

E per questa schiettezza di rappresentazione che ci mostra il poeta calmo, sorridente, in un momento di galanteria anzi di marivaudage, certe sue poesie minori, riunite nella parte IV appunto sotto il titolo di Sogni e Sorrisi, hanno probabilità di vita più lunga delle altre, anche perchè più accarezzate, in grazia forse della serenità del momento, dal lato della forma.

Oh, egli sa benissimo di essere stato un combattente, un agitato, un inesorabile; e la sua coscienza12 gli fa prevedere che neppur quando sarà morto i suoi avversari gli daranno pace! Ma egli protesta, e invoca l'amico Primo... perchè difenda la sua memoria dalle bieche ingiurie che tenteranno di sterpare i fiori dalla sua fossa:

 

Tu, che da questi carmi udirai

Note a te fremere pugne dal cor,

Tu al buon Tersite dirlo potrai

Se furon tinti del suo livor.

 

Tu che gli sdegni vedevi e l'ire,

E il giambo uscirne, beffardo suon,

Tu al buon Tersite lo potrai dire

Se vi eran lagrime nella canzon!

(A l'amico Primo...)

 

E quantunque questi versi siano del giugno 1879, non mi è parso inopportuno ripeterli come chiusa di questo scritto.

 

 

 





6 F. Cavallotti: La sposa di Mènecle, Pref. XIII.



7 Nell'originale "cristana". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



8 L. Capuana, Per l'Arte, pag. 15 e seg.



9 F. Cavallotti, pref. all'Alcibiade, pag. 11. Ediz. citata.



10 Cavallotti, Alcibiade, la critica e il secolo di Pericle, pag. 269 edizione citata.



11 Ivi, ivi.



12 Nell'originale "coscenza". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



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