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LA CHIMERA.
Quando sento dire d'un giovane: - È serio, assennato, non ha chimere pel capo - subito mi domando: - Ma è proprio giovane costui? - Mi sembra impossibile: non so figurarmi la giovinezza senza chimere pel capo.
La chimera ordinariamente è l'ideale; il nuovo che sta per schiudersi e che si fa intravedere appena: il sogno che si agita per divenire realtà; il feto che si matura nel seno oscuro, dove succhia tutti gli elementi della vita e dà nausee, dolori, malessere sui generis, alla creatura gestante di cui è sangue del sangue, carne della carne. Una giovinezza che non rincorre l'alata chimera dell'ideale, che non sogna e non si agita dietro i primi luccicori dell'avvenire che sta per schiudersi, che non sente in sè il malessere intellettuale di una gestazione potente, è inferma, senza rimedio, di vecchiezza precoce.
Per ciò io mi sento attratto in singolar modo verso tutti coloro che si mostrano giovani davvero e inseguono con foga e temerariamente una qualunque chimera. Non già perchè io sia convinto che sempre e in ogni caso la chimera di oggi sarà la realtà di domani, ma perchè quella rincorsa dietro un'ideale è buon segno di vitalità, di forza, e perchè da questa confusa e talvolta pericolosa agitazione di discordi elementi la sapienza organatrice della Natura trae l'artista, il grand'uomo, il genio che darà vita a un capolavoro.
Che importa se per molti la chimera sarà stata alla fine una dolorosa delusione? Che importa se il cammino percorso trionfalmente da pochi o da uno solo è funestato dallo spettacolo di tanti che sono caduti fra i tormenti di terribile agonia a metà di strada, maledicendo la chimera che non si è lasciata raggiungere? La vita è così; ha la sua legge, la sua ferrea necessità, ed è stolto pensare che avrebbe potuto essere costituita diversamente.
O Romanticismo, chimera della generazione che precedette la nostra! O Verismo o Naturalismo, che sei stato anche la mia chimera quando avevo folti capelli scuri e baffi neri e non sospettavo di dover scrivere un giorno due volumi di Fiabe, che allora mi sarebbero parse vigliacca rinnegazione della mia fede!
O Idealismo, o Simbolismo, chimera della generazione presente! O sogno di bellezza estetica che dinanzi al vocabolo raro, al periodo armonioso e voluttuosamente snodantesi come collo di cigno o come corpo di serpe che rinnova la sua spoglia sotto i raggi canicolari, dimentichi che il vocabolo è segno e confondi l'essenza della musica con l'essenza della parola!
O unica e sola Chimera, che assumi diversi aspetti, iridando le penne delle tue ali ad ogni nuovo riflesso di luce, e che sei stata Romanticismo e poi Verismo e oggi Idealismo o Simbolismo e assumerai domani chi sa quale inattesa e più lusinghiera sembianza! Noi tutti abbiamo bisogno di te, anche quando arriviamo a comprendere che tu sei l'inafferrabile, l'irraggiungibile e, spesso, anche nient'altro che l'inganno!
Io fantasticavo così poco fa, terminando di leggere il libro di un giovane32 che avevo visto già correre con forte lena dietro l'attuale Chimera, in due suoi lavori precedenti. E mi vedevo davanti agli occhi un altro scrittore, giovane anch'esso e non nostro, che la stessa Chimera aveva allettato e fatto fuorviare, ma che si è poi sottratto vigorosamente al mortale miraggio fatto balenare da essa agli ansiosi sguardi di lui, quando lo allettava a scrivere La course à la Mort, Le sens de la Vie, Les trois coeurs, tre romanzi di idealismo trascendente, dove era tentato l'assurdo di ridurre l'opera d'arte a pura opera di pensiero; dove i personaggi erano semplici nomi, semplici segni, senza carne nè ossa. E pensavo al poderoso sforzo che Edoard Rod aveva dovuto fare per sbarazzarsi dalle allucinazioni della Chimera idealista e simbolista, e arrivare all'ultima, sana e rigogliosa manifestazione del suo ingegno, a Le Ménage du Pasteur Naudié apparso appunto in questi giorni.
Veramente Enrico Corradini non era andato tant'oltre, come33 lo scrittore francese, tra le nebbie dell'idealismo e del simbolismo, o dell'intuitivismo come il Rod lo chiamava.
Nel Santamaura stava ancora molto vicino alla realtà e i suoi personaggi erano quasi tutti solidi e robusti; se non che si smarrivano un po' nel labirinto dell'azione e, di tratto in tratto, si scolorivano, non sembravano più persone vive o almeno ben organate, quasi fosse venuta meno la vital forza della immaginazione che li aveva messi al mondo.
Dopo, era uscita fuori La Gioia preannunciando una trilogia, un trittico narrativo, come oggi è di moda; e molte pagine di questo nuovo romanzo raggiavano di lieta luce, sorridevano; e i personaggi di esso, se mostravano ancora qualche rapporto di fratellanza (come no?) con quelli di Santamaura, avevano aria di miglior salute, quantunque meno robusti e anche meno attraenti di quegli altri, dotati di una simpatica rustichezza, di una strana vigorìa di sentimenti che li fissava nella memoria del lettore. In La Gioia mancava infatti una figura da poter stare in confronto col vecchio sognatore umanitario Romolo Pieri a cui il misero villaggio di Santamaura deve la sua trasformazione industriale; e il protagonista Vittorio Rodia che vuole ricercare «soltanto nel proprio spirito il piacere della vita» perchè è convinto che «dallo spirito nasca ogni desiderio e ogni visione di felicità»; non vi fa intravvedere in che modo egli diventerà Il Signore della vita (seconda parte della trilogia) nè quali potranno essere i risultati della sua esperienza negli Ultimi giorni di Vittorio Rodia, terza parte della trilogia.
La chimera, che meglio si scorgeva proseguita in quei due primi romanzi, era quella dello stile, con una preoccupazione insistente; un po' chimera propria, un po' quella di un altro che già affascina parecchi e toglie a molti giovani l'impronta della loro personalità. Mentre però si scorgeva in La Gioia uno sforzo, spesso vittorioso, di liberarsi dalla malìa della chimera altrui per questo riguardo, vi apparivano pure i segni della sopraffazione di un'altra chimera appunto nel protagonista Vittorio Rodia, che richiamava spesso alla mente l'Andrea Sperelli, il Tullio34 Hermil e il Claudio Cantelmo dei noti romanzi del D'Annunzio.
Ma nè Santamaura, nè La Gioia facevano sospettare, neppure in rapido baleno, La Verginità ultima arrivata.
Quando si tratta d'un ingegno non comune, com'è quello del Corradini, non c'è da impaurirsi tanto pel suo avvenire. Io, per esempio, che ho seguìto attentamente tutti i suoi passi, non temo che egli voglia ripetere, all'inverso, tra noi, il caso letterario del Rod: non temo di vederlo smarrire irrimediabilmente tra la nebbia dell'idealismo e del simbolismo, non ostante che in La Verginità egli abbia calcato la mano o, meglio, si sia lasciato andare troppo oltre verso queste due azzurre chimere che infestano il cielo dell'arte narrativa odierna, proponendo ai giovani scrittori, come la mitica Sfinge, enimmi insolubili o che paiono tali, e colpendoli fatalmente se non riescono a risolverli.
Chi ben guarda, trova in La Verginità l'ingrandimento, l'esagerazione di certe tendenze manifestate dal Corradini nel suo dramma Dopo la morte e nei due romanzi citati. Ma mi sembra sia un caso naturale, come il necessario germoglio di certe cattive erbe non strappate da un campo, e riproducentisi con invadente vegetazione maligna. Altre cattive erbe - e si scorge - il Corradini ha strappate, impedendo loro di riprodursi in questa sua nuova opera di arte: affettazioni di stile, imitazioni, forse irriflesse, di stile altrui, eccessi d'immagini, eccessi di colorito inopportuno: ed è qualcosa. La rinnovazione procede così, dall'esterno all'interno: dalla parola, dalla frase, all'organismo dell'opera d'arte. Quando si vede che uno scrittore caccia via dal suo stile quel che è falso, quel che è inutile, e cerca di dare alla parola la limpidità, la trasparenza che la riducano tutta una cosa col concetto, c'è da scommettere che opererà lo stesso lavoro di rimonda, di semplicizzazione, di inveramento, come direbbe il Vico, anche nell'organismo della sua concezione. Perchè cancella una parola, e muta e rimuta una frase, e le martella e le ripulisce fino a che non corrispondano a quelle che devono essere? Senza dubbio, perchè comincia a convincersi che la semplicità, la schiettezza, la sincerità sono le vere doti naturali dello stile, e che la semplicità, la schiettezza35, la sincerità diventano, secondo il concetto, forza, colore, tutto.
Così avverrà a poco a poco coi suoi personaggi; li vorrà semplici, schietti, sinceri, perchè non potrà più tollerare una stonatura tra essi e la forma. E capirà che semplicità non significa povertà; nè schiettezza e sincerità, ingenuità.
Attilio Palagonia, l'attrice Saveria ed Ercole Grabba, i tre personaggi di La Verginità, appaiono creature complicate per effetto d'una illusione di ottica d'arte. In se stessi sono, non solamente semplici, ma dirò quasi poveri. Sono creature sensuali, voluttuose; nient'altro. La complicazione la vuole e la ricerca l'autore a furia di analisi, o meglio prestando ai suoi personaggi la sua ricchezza. Per riempire il loro vuoto, ha dovuto ricorrere a mezzi di messa in iscena, anzi di scenario che, se provano la sua abilità descrittiva, scoprono maggiormente la deficienza delle sue creature. E che sforzo per illudersi sul conto loro e illudere il lettore! Basterà leggere gli splendidi capitoli Nel sole, La passeggiata notturna: splendidi non tanto per quel che sono, quanto per quel che fanno scorgere della forza artistica del loro autore. Attilio Palagonia, Saveria, Ercole Grabba sembrano degli agitati, dei malati che non scorgono più la realtà delle cose e dei sentimenti; ma la veggono mostruosamente sviluppata per qualche infiammazione che, dopo avere alterato i loro organi visivi, si sia comunicata alle loro menti.
Perchè mai Enrico Corradini, che ha creato Romolo Pieri, suo figlio Mauro e la brutale campagna socialista di lui; che ha concepito e delineato bravamente la spigliata figura di Natalia, le grottesche sorelle Florimo, la sensibile Concettina Croce (cito a caso e di memoria) nei due romanzi precedenti, qui, in La Verginità, ci ha fatto intravedere soltanto a sbalzi qualcosa di umano, di non voluto, di non troppo ricercato?
Ed io ne capisco tutte le seduzioni e non mi sdegno e non ne faccio un rimprovero alla giovinezza dell'autore.
Creare un'opera d'arte dove lo stile, i personaggi, la natura, le sensazioni, i sentimenti, le idee siano, tutt'insieme, un'armonica luce di bellezza; dove il reale e l'ideale si confondano e si compenetrino talmente da far risultare la concezione artistica verità materiale e simbolo in una!... Come resistere agli incanti di tale Chimera?
Eppure io credo che Enrico Corradini resisterà. Sarebbe proprio una disgrazia, se egli dovesse rimanere tra quelli che agonizzano a metà di cammino, nella via dell'arte, prima di aver stretto fra le braccia la forma sognata e adorata.
Nel paese della Chimera, che qui significa dell'idealismo, del simbolismo, dell'intuitivismo, Edoardo Rod si era inoltrato più arditamente e più spensieratamente di lui, e n'è tornato addietro sano e salvo e più vigoroso e più forte. Non è male avventurarsi in questo viaggio; qualcosa dell'ideale inseguito si trasfonde sempre nell'opera d'arte, quando si possiede ingegno solido e ben organato. Per esempio, quanta idealità, quanta serenità in quest'ultimo romanzo del Rod. Le ménage du Pasteur Nandié! E quanta passione vibrante e profonda! Si vede bene che la Chimera non è stata inseguita inutilmente.
E questo vorrei poter dire del Corradini e di un suo prossimo libro.