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Il suo ultimo libro s'intitola: Letteratura di eccezione; ed è un'eccezione anche lui, l'autore, che si è formato una specialità della critica letteraria ed artistica, senza mai invadere altri campi. Per ciò è riuscito un critico che sa molto bene il suo mestiere, cosa rara tra noi.
Si può anzi dire che un eccessivo scrupolo di coscienza lo abbia indotto a limitare lo spazio dei suoi studi d'arte letteraria alla sola letteratura francese contemporanea, e, in questa, particolarmente alla produzione che ha lo spiccato carattere della ricerca del nuovo a ogni costo e, appunto per tale smania, invece dell'originalità, trova spesso la caricatura di essa, lo strano, l'assurdo. Giacchè si è originali senza volerlo e quasi senza saperlo, per naturale conformazione dell'ingegno, come si hanno quella fisonomia, quei gesti, quel tono di voce, quei modi di sentire e di esprimersi che costituiscono la individualità d'ogni creatura umana, e la distinguono da tutte le altre. Questa originalità naturale, istintiva, organica, non mostra nessuno sforzo, nessuna deliberata intenzione di voler essere tale; non architetta anticipatamente teoriche che debbano regolarla e giustificarla; si manifesta genialmente, vivendo, operando, cioè producendo l'opera d'arte più conforme ai suoi mezzi di creazione.
Di questo è convinto pure Vittorio Pica, e lo dà a vedere con la moderazione dei suoi giudizii, anche quando la sua tormentata curiosità gli fa preferire lo studio di quelle opere letterarie da lui chiamate di eccezione, alterando un po' il significato di questo vocabolo, e dandogli un senso di scusa indulgente.
Egli si lascia attrarre più volentieri da certi caratteri morbosi, da certe mostruosità psicologiche o di forma, con le quali si rivelano in ogni opera d'arte l'aspirazione a qualche cosa che esca dall'ordinario e il faticoso vano processo per raggiungere quello scopo.
È simile a un medico che si compiace dei bei casi di malattie complicate, a un chirurgo che si entusiasma davanti a una bella piaga purulenta e cancrenosa. Certamente, come nel medico, c'è in quel compiacimento di lui il pensiero dell'opera d'arte sana e piena di rigoglio; c'è, come nel chirurgo, l'idea sottintesa dell'abile operazione che farà rimarginare quella piaga.
E per questo il lettore dei sei lunghi e minuziosi studii intorno al Verlaine, al Mallarmé, al Barrès, al France, al Poictevin, al Huysmans, gli perdona facilmente quel compiacimento e quell'entusiasmo quasi inerenti all'ufficio di critico, come li perdona al medico e al chirurgo in grazia della scienza della salute.
Senza l'entusiasmo ed il compiacimento del nuovo e dell'esotico, che spinge il Pica a traverso la letteratura decadente francese e l'arte dell'estremo Oriente, noi non avremmo questi studii letterari nè gli altri intorno alla pittura moderna che ne formano il compimento, ispirati e spinti come sono da identica intenzione verso le varie ricerche di nuove forme e di nuovi processi, sia per mezzo della parola, sia per mezzo del disegno e dei colori.
Qualcuno gli fa una colpa della sua preferenza per la letteratura moderna francese. Dice:
- Se vuol trovare dei malati, dei cancrenosi, perchè non cercarli anche fra noi? Mancano forse?
- Non mancano - potrebbe rispondere il Pica - ma sono malati di contagio, di suggestione nevrotica. Io faccio come quei dottori che, volendo studiare il colera, sono andati nell'India, per meglio osservarlo nel paese dove l'infezione è di prima mano. I nostri decadenti sono derivazioni, riflessi, - nella lirica, nel romanzo, nel dramma - dei decadenti stranieri; e, al pari di tutti gli imitatori, se hanno importato il morbo, ne hanno anche alterato il carattere, esagerandone le qualità cattive, non mantenendo le buone, se di qualità buone può parlarsi trattandosi di malattia. E le derivazioni, le imitazioni, i riflessi non mi interessano punto.
Egli ha ragione. Nella stessa artificiosità dei decadenti francesi c'è un che di spontaneo che la rende interessante; c'è, per lo meno, una logica necessità di circostanze particolari che le danno un'espressione di sincerità personale in ogni suo primo e valido campione. Negli imitatori, no. Per ciò avviene che i primi, non ostante le loro strane esagerazioni, lascino dietro a sè qualcosa che sopravvive e che forse non sarebbe sopravvissuto senza la stranezza di quelle esagerazioni. Lo ha notato il Pica, parlando dei Parnassiani. Essi vollero esiliare a ogni costo la passione dalla poesia, tenersi paurosamente lontani dal tumulto della vita contemporanea che ferveva attorno a loro, dedicarsi esclusivamente al culto esagerato della forma, fin a detrimento dell'idea; ed ebbero torto. Ma il loro disinteressato e religioso amore per l'arte ha prodotto una perfezione di fattura nel verso francese non mai raggiunta prima di oggi. La loro voluta impassibilità davanti al dolore volgare
è sparita, come spariscono le esagerazioni di ogni sorta; le loro conquiste tecniche sono, in gran parte, rimaste. Così Teofilo Gauthier, Leconte de Lisle, il Banville non ci dicono più niente come poeti, ma il verso francese non potrà mai più cancellare l'impronta profonda segnatavi dalle loro abilissime mani. Così il Mallarmé sarà per gli avvenire più incomprensibile che non sia ora pei suoi stessi ammiratori, ma qualche lembo del suo sogno di esteta non è morto per sempre con lui, e forse diverrà bellissima realtà domani, tradotto, nel verso, nel romanzo, nel dramma, da uno che saprà dargli forma organica e viva.
Ora io comprendo, in qualche modo, che possa applicarsi la qualifica di letteratura di eccezione alla produzione del Verlaine e del Mallarmè. L'eccezione, nella natura e per ciò anche nell'arte, è il vigoroso sviluppo di certe qualità rimaste insignificanti o soffocate negli esseri e nelle creature ordinarie; e questo sviluppo, nel Verlaine e nel Mallarmè, sarebbe rappresentato dal senso vivissimo della musicalità e del colorito della parola; dal bisogno del raro, del raffinato, come oggi si dice; dal concetto della idealizzazione della forma in maniera che possa essere simbolo anche essa di quel gran sogno che noi chiamiamo stoltamente realtà. Non so comprendere però per quali ragioni egli annoveri tra le opere letterarie di eccezione quelle del Barrès, del Poictevin, del France e di Joris-Karl Huysmans. In queste, la eccezione non riguarda la forma o almeno la riguarda in parte secondaria: l'eccezione è nel concetto; pel Barrès, nella teorica del culto dell'io: pel Poictevin, nello studio di ciò che «vi ha di vago, di misterioso nell'intimità dell'anima, studio che gli fa creare, non di rado (cito le parole del Pica) a bella posta, delle complicazioni per poterle sbrogliare, delle difficoltà per poterle superare, in modo da passare inconsapevolmente dall'osservazione semplice e sincera ad una specie di arbitrario acrobatismo metafisico;» pel France, «nell'egoistica civetteria cerebrale di critico», nella ironia, nella scettica crudezza dell'osservazione, nella continua propensione al paradosso, nello spensierato dilettantismo filosofico; per l'Huysmans, infine, nella irrequieta tristezza della coscienza religiosa.
Eccezioni di concetto, forse, certamente riflessi, derivazioni di speculazioni filosofiche o di ipotesi scientifiche che pervadono le intime fibre del pensiero moderno; ma eccezioni di arte letteraria in che cosa mai?
È questo il solo appunto che si può fare al bel volume del Pica.
I sei studi, del resto, sono condotti con straordinaria accuratezza, mescolando la biografia alla parte critica, con larghe e opportune citazioni perchè i lettori abbiano anche essi sotto gli occhi qualche documento da aiutarli a riscontrare le osservazioni e le affermazioni del critico; fin con indicazioni bibliografiche da soddisfare quei meticolosi che danno molta importanza a un'edizione, a una data.
Certe volte il suo entusiasmo lo trascina un po' oltre. Non nega, per esempio, che il Mallarmè abbia spinto le circonvoluzioni del suo stile fino alla più completa oscurità e che i suoi ammiratori abbiano torto di ammirarlo là dove è più incomprensibile; ma le dubbie tenebre nelle quali qualcosa si può intravedere lo seducono fortemente. E a proposito del frammento del dramma o tragedia, Erodiade - l'unico pezzo che il Mallarmè ne abbia scritto - il Pica ci rivela quella sua debolezza pel raffinato, pel malato in arte a cui ho accennato da principio.
«Intendo benissimo - egli dice - che, alla prima lettura di questo frammento di poesia anche gli spiriti sottili e comprensivi (dei mediocri e dommatici non è neppure il caso di parlare) debbono rimanere un po' smarriti e debbono sentire una specie di ostilità contro il linguaggio prezioso, le metafore strane, le imagini arditissime di questo dialogo in versi, e sopra tutto contro la generale intonazione sibillina; ma se lo rileggeranno attentamente e pazientemente (sottolineo io) si sentiranno a poco a poco conquidere da un arcano fascino e si convinceranno che anche quelli che a bella prima paiono difetti (sottolineo ancora io) contribuiscono possentemente al mirabile effetto totale» (p. 147).
In queste poche righe c'è intero il carattere del volume Letteratura di eccezione e c'è la immagine netta della fisonomia di critico dell'autore.