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A proposito della rappresentazione del Gian-Gabriele Borckman38 dell'Ibsen è stata rammentata la risposta di Ermete Zacconi ai critici tedeschi che lo accusavano di eccessivo verismo patologico negli Spettri dello stesso autore.
Confesso sinceramente che la ignoravo (non siamo obbligati di sapere tutto) e aggiungo non meno sinceramente che essa mi sembra una risposta sbagliata.
Se lo Zacconi si fosse contentato di dire soltanto: - L'Ibsen ha voluto così quel personaggio di Osvaldo - e, ove gli fosse sembrato necessario, si fosse spinto fino a dimostrarlo, la risposta sarebbe stata degna di quel grande artista che egli è.
Invece si è compiaciuto di manifestare la sua particolare teorica intorno all'interpretazione rappresentativa di certi lavori drammatici, e si è lasciato scappar di bocca, o meglio, dalla penna, un'incredibile enormità che contraddice quanto poco prima egli aveva affermato.
Egli soggiunse (ripeto le sue parole su la fede altrui, ma non ho nessuna ragione per sospettare che non siano riferite esattamente):
«Nella interpretazione dei capolavori dei sommi non bisogna arrestarsi sempre davanti alla semplice opera d'arte. C'è il pensiero che va più in là dell'arte. Così nell'Ibsen bisogna distinguere prima il filosofo, poi il simbolista, e soltanto in ultimo l'artista. Egli è grande per la forza del pensiero, non per la forza artistica».
Tradotto in parole più semplici e più chiare, questo significa: Vi sono opere d'arte sbagliate, dove il concetto non è riuscito ad assumere la forma che gli spettava. Le opere drammatiche dell'Ibsen sono di questa categoria. Nella rappresentazione di esse si deve quindi badare più al pensiero che alla forma...
In che modo, io sarei curiosissimo di apprenderlo dallo stesso Zucconi.
Ho assistito più volte alla sua mirabile incarnazione nell'Osvaldo degli Spettri, e non mi è parso di scorgervi quell'eccesso di verismo patologico rimproveratogli dai critici tedeschi. Osvaldo è malato moralmente e fisicamente; la sua intelligenza vagola in mezzo alle nebbie incipienti della follia alcoolica ereditaria; la sua lingua incespica, come le sue gambe che si risentono della debolezza della spina dorsale. A poco a poco, quelle nebbie della mente si fanno sempre più dense, il suo tormento è atroce; egli ha coscienza dello stato in cui si trova; ha strappato al medico la verità. E negli ultimi luccicori dello intelletto, rinfaccia alla madre quella vita che gli è stata malamente data senza che egli l'avesse chiesta. Tutt'a un tratto, chiude l'uscio a chiave; nessuno deve più uscire di là, nessuno può più entrarvi!... La madre, spaventata, tenta di calmarlo. Intanto spunta il sole e indora le cime delle montagne che si scorgono dalla finestra aperta. Osvaldo, immobile su la seggiola, si è già sperduto nella tenebra della pazzia.
- Mamma, dammi il sole! - balbetta.
E alle parole disperate della signora Alving ormai egli non saprà rispondere più altro: - Il sole! Il sole!... - disfatto, ebete, con gli occhi quasi spenti che guardano nel vuoto.
Dov'è qui il pensiero che va più in là dell'arte? Il concetto dell'eredità è divenuto personaggio vivente. Osvaldo non discute una teorica scientifica, la mostra. Così, più o meno, tutti gli altri personaggi dei lavori drammatici dell'Ibsen. La stessa Nora delle ultime scene di Casa di bambola è, se vogliamo, una persona che ragiona male, unilateralmente, ma forse per questo schiettamente donna più di quel che non si creda.
In ogni modo, è strano che un attore faccia la distinzione di tre Ibsen, uno filosofo, l'altro simbolista, il terzo l'artista, e dica che questo è il meno a cui si deve badare.
L'Ibsen, al contrario, chiede di essere considerato principalmente come artista. Per lui tutta l'opera drammatica consiste nell'azione, nei caratteri. Se sotto quell'azione, sotto quei caratteri formicolano idee, è naturale che sia così. Un'opera d'arte è un concetto astratto materializzato nella forma.
Il dovere dell'attore è quindi soltanto quello di cooperare con essa per mezzo di efficace interpretazione.
Certamente in questa interpretazione ogni attore dovrà dare, secondo le sue facoltà, maggiore o minore rilievo ad alcuni particolari caratteristici, ma non gli è lecito di spingere tale suo diritto fino al punto di svisare, di disfare la concezione dello scrittore.
So che oggi cominciano a prevalere criteri diversi. Attori ed attrici si credono liberi di abbandonarsi alla così detta creazione del personaggio, senza tenere gran conto delle precise intenzioni di chi primamente lo ha messo al mondo. E mi sembra grave errore. L'opera d'arte drammatica è esposta, per sua natura, a questo pericolo. La deficienza di un attore o di un'attrice può influire sulla sua sorte presso il pubblico, che spesso non è tanto colto e tanto avvisato da distinguere il valore dell'opera d'arte da quello della rappresentazione che essa riceve.
Così, per esempio, si è potuto vedere ad essere bene accolta dal pubblico e dalla critica un'interpretazione che trasformava Margherita Gautier quasi in personaggio simbolista. Bisognava invece indignarsi, protestare.
In Francia, dove il senso dell'arte è meno corrotto, si è fatto altrimenti. La Dame aux Camélies, dopo quasi cinquanta anni di vita, è stata riputata un'opera di arte storica. Costumi, sentimenti, azione sono parsi talmente lontani e dissimili dagli attuali, da far comprendere la necessità di accordare ad essa il privilegio delle opere classiche, cioè la riproduzione esatta coi costumi dell'epoca. E si è venuto a questo lentamente, di mano in mano che certe stonature col presente si sono rese più visibili. Anni addietro, quando il Dumas viveva, per evitare il ridicolo al personaggio di Armando, si erano dovute elevare le somme di denaro ch'egli spende per la sua amante. Poi neppur questo piccolo ripiego è parso sufficiente. Armando sembra un collegiale di fronte agli amanti nostri contemporanei: il padre di Armando, un buon borghese; Margherita, un'ingenua in confronto delle attuali cocottes e orizzontali che invadono la società e quindi la scena.
Bisognava dunque riportare la commedia nel suo ambiente; vestire gli attori coi figurini dell'epoca; spogliare Margherita dei ricchi costumi odierni, indossarle il modesto scialle di allora e il cappellino a cuffia (non so se mi esprimo bene) che le ho veduto in testa nei ritratti riprodotti in un interessante studio intorno a lei e pubblicato, quattro o cinque anni addietro, nel Livre. E se ancora Sarah Bernhardt non ha saputo sacrificare a questo scopo le sue eleganti toelette, vuol dire che la vanità femminile è qualche volta superiore anche al genio di una grande artista.
E stato notato che, per certi capolavori drammatici, arriva un'epoca che potrebbe dirsi dell'età ingrata; stanno come a cavallo di due fasi di vita civile, non a bastanza invecchiate da farle chiamare antiche, nè a bastanza giovani da permettere di crederle del nostro tempo. Durante questo spazio di anni esse perdono valore.
Ci vuole un pervertimento di senso artistico nell'attore, una deplorevole mancanza di cultura nel pubblico per permettersi e per applaudire una profanazione artistica come l'idealizzazione simbolica della Margherita Gautier.
Vien naturale su le labbra la domanda: Chi crea il personaggio? L'autore o l'attore? La risposta non può essere dubbia. E appunto perchè la creazione vien fatta dall'autore, che ha le sue belle ragioni di produrla nel tale e tal modo, l'obbligo dell'attore è unicamente di renderlo quale quegli lo ha formato. Un personaggio è simile a un individuo vivente; non può essere ridotto irriconoscibile dal nevrotico capriccio di un attore o di un'attrice. Essi si mostrano tanto più grandi, quanto meglio arrivano a riprodurlo in tutti i minimi particolari quale l'autore lo ha concepito. L'individualità di quel personaggio implica una serie di gesti, di espressioni del viso, di inflessioni di voce, di rivelazione di sentimenti e di passioni che non debbono poter essere confusi neppure con quelli di un altro individuo che ha qualche apparente rassomiglianza con esso. Quanto maggiormente l'attore riesce a rappresentare integra quella personalità, e tanto più elevatamente fa opera di artista.
L'autore, scrivendo, ha la realtà di quel personaggio davanti agli occhi; lo vede muoversi, gesticolare, ne sente la voce; per via di questo sforzo di suggestione, arriva a immedesimarsi con esso, a strappargli il segreto della sua vita. Ma, disgraziatamente, il potere dello scrittore è limitato. Quando egli ha messo su la carta, per esempio, un Ah! non può andare più oltre. Quell'Ah! gli è risonato nell'orecchio con la sua precisa intonazione, che nella scrittura va perduta; così tutte le inflessioni del dialogo. Spetta all'attore il ritrovare nuovamente, a forza di studio, quell'intonazione, quelle inflessioni e pure quegli atteggiamenti, quei gesti che lo scrittore ha udito e visto scrivendo e che non ha potuto notare, come avrebbe fatto un musicista. Quell'Ah! in quel dato momento dell'azione, può avere soltanto un'inflessione, perchè si tratta di una situazione particolare, impossibile a ripetersi due volte. Bisogna trovare, a ogni costo, quell'inflessione; non è lecito sostituirla con un'altra che, alla men peggio, si riduce a un misero press'a poco. E quel che accenno per le minutezze, vale maggiormente per la massa del carattere e della stessa figura del personaggio.
Nel 1865, a Firenze, l'attore Samson della Commedia francese mi diceva che in quel teatro non si rappresentava da quarant'anni il Burbero benefico del Goldoni perchè non c'era stato un attore, durante quel tempo, che avesse le phisique du rôle. Scrupolo che può forse sembrare eccessivo, e non è.
Tutto questo non mi ha allontanato troppo dal mio soggetto, cioè dalla risposta di Ermete Zacconi ai critici berlinesi.
Dicendo che nell'lbsen l'ultima cosa da considerarsi era l'artista, Zacconi si dava la zappa sui piedi. Un lavoro teatrale dove la forma sia l'ultima cosa da considerarsi, non è opera d'arte. E i critici berlinesi avrebbero potuto soggiungere: Ma, in questo caso, è assurdo che voi lo scegliate per rappresentarlo... o avete la grande superbia di credervi capace d'infondere la vita in una cosa morta.
Invece Ermete Zacconi giudica male e razzola bene.
Era tanto più semplice e più esatto il dire:
- Io rappresento Osvaldo Alving così, perchè da ogni atto, da ogni frase, da ogni parola di questo personaggio risulta che l'autore lo ha voluto così! Ho fatto il mio dovere e nient'altro.