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a Rastignac:
Il tuo benevolissimo giudizio intorno al mio racconto Scurpiddu non mi ha fatto piacere soltanto perchè lusinga grandemente il mio amor proprio, ma perchè dà una soddisfacente risposta al dubbio che mi tormenta da un pezzo: Se noi siamo oggi condannati anche in arte alla nevrosi del concetto e della forma.
Ci ripensavo tristamente giorni fa, leggendo un recente romanzo italiano che avrebbe potuto essere un bel libro se non fosse stato, fra le altre cose, troppo prolisso. E durante la lettura, ricordando certe violente tirate di uno scrittore francese contro la letteratura odierna già parsemi eccessive, sentivo infiltrarmi nella mente il sospetto che fossi stato eccessivo pure io giudicandole tali.
"Noi manchiamo, egli dice conchiudendo, della serenità che rende incantevoli i classici. La nostra forma ha la febbre, la nostra ispirazione somiglia alla demenza. Nessuno tra noi raggiunge la bellezza: lo sforzo e l'entusiasmo non bastano a questo: occorre la calma che è la virtù delle anime forti. Le nostre idee, invece, scoppiano tumultuose; si direbbe che provengano dai sensi non dallo spirito. Lo stile che le riveste mostra il suo peccato di origine: non ha calore, nè limpidezza, nè splendore: ribolle, fa la schiuma, è torbido. È frutto del disordine della concezione, quando niente è chiaro, niente al suo posto. Felici quelle età che ignoravano questa precipitazione e questa febbre. L'artista allora contemplava a lungo le sue idee, le penetrava, le animava, e quando si accingeva ad esprimerle, le rivestiva di luce, di serenità, e l'anima del lettore vi beveva a lunghi sorsi il ristoro e la gioia."
Raramente, bisogna confessarlo, questo ristoro e questa gioia vengono sentite leggendo un libro d'arte moderna.
I fisiologi o i psicologi hanno proclamato che oggi noi siamo tutti malati di nevrosi; gli artisti non hanno inteso a sordo, e, dalla vita, hanno trasportato la nevrosi nell'opera d'arte. Dovevano in qualche modo, aggiungo io, fare così. Ogni periodo letterario è una involontaria pubblica confessione della società che lo produce. Ogni opera d'arte, dramma, commedia, lirica, romanzo, una specie di processo verbale dei sentimenti, delle idee che rendono affatto diversa una società da quella che l'ha preceduta e da cui è nata.
È impossibile che l'opera d'arte si astragga dal suo tempo, s'isoli, parli un linguaggio che differisce dal linguaggio usato da tutti; corre pericolo di non essere intesa, di riuscire ridicola.
Ma in questo, però, c'è modo e modo. Anche lo spirito ha le sue fogge strane, i suoi capricci passeggeri. L'artista non è davvero artista se non sa distinguere tali caratteri e scegliere. Questo è il punto per cui i classici dovrebbero rimanere sempre nostri ascoltati maestri.
Essi sono di tutti i tempi, di tutte le nazioni. Ma, indiani, greci, latini, italiani, francesi, inglesi, tedeschi, anche oggi si fanno intendere, ci entusiasmano, ci commuovono pur esprimendo sentimenti e concetti che, in gran parte, non sono più nostri. La loro narrazione è così limpida, così viva, che le disparità, le differenze rimangono inavvertite. Sita, la bella e immacolata moglie di Rama, non ha niente che vedere con la donna moderna. Ettore e Priamo, sono principe e re che non presentano il minimo punto di somiglianza coi principi e coi re delle case regnanti attuali. La reggia d'Alcinoo, donde la dolce Nausica esce col carro carico di biancheria da lavare, e dove l'edo Demodoco canta su la cetra gli intrighi amorosi di Venere a Marte, o le prodezze dei greci all'assedio di Troia, è così diversa dalle reggie odierne, che noi dovremmo sentire repugnanza e noia nel leggere i canti di Valmichi e di Omero, se la forma non producesse il miracolo di una rappresentazione così netta, così evidente da farci dimenticare, come dicevo, tutte le disparità e tutte le differenze di sentimenti e di idee che il lungo corso dei secoli ha frapposto tra essi e noi.
Sembra che in quei capolavori, tra il concetto e la sua rappresentazione, non ci sia entrato niente in mezzo; forma e concetto sono divenuti così identici che non possiamo più dividerli, nè considerarli separatamente.
Io non sono tanto sciocco e ignorante da non riconoscere e da non accettare le modificazioni avvenute da allora in poi nel modo di concepire e di esprimersi. Ma non sono neppure così ignorante e sciocco da credere che l'essenza dell'arte sia mutata.
Oggi, per esempio, ci riempiamo la bocca col tronfio42 assioma che l'arte è e dev'essere aristocratica, quasi l'arte non fosse stata tale in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Niente di più aristocratico di Omero, che pure ai suoi tempi era un cantastorie poco diverso, per certe circostanze, dai ciechi siciliani che vanno pei larghi e per le fiere a stonare le storie in versi dei paladini, dei briganti famosi, dello sbarco di Garibaldi a Marsala e della sua gloriosa entrata in Palermo. Ma la divina aristocrazia di Omero non consiste però in una nebulosità che offende gli occhi del pensiero, nè pretende di dover essere intesa e compresa soltanto da un ristretto numero di affiliati.
Consiste nella grandiosa semplicità delle linee, nella meravigliosa trasparenza della forma che rende la concezione talmente reale e viva sotto gli occhi, che la stessa realtà non potrebbe darci di più. Se questo fosse facile, se democraticamente potessimo praticarlo tutti, Omero e i pochi classici che sopravvivono immortali su l'immenso cumulo di tentativi d'arte ammucchiato dai secoli, non ci sembrerebbero più una meraviglia.
L'artista è aristocratico senza saperlo, e senza volerlo; anzi è soltanto tale quando non vuole esser tale per forza.
È sintomo d'impotenza la smania di aristocrazia che ha invasato e continua a invasare l'arte contemporanea? Sarebbe quasi da crederlo, guardando gli effetti dell'ossessione di questa idea.
Sì, è vero, noi siamo nevrotici, ma non nel modo nè nella misura, che l'arte odierna vuol darci a intendere. O, se siamo così nevrotici, l'arte moderna si inganna nei mezzi che adopra per mettercelo sotto gli occhi. L'inganno apparisce evidente dai resultati. Sovraccarica di colore, di inutili particolari, di capricciose divagazioni, essa, avrà (se così vuolsi) l'aristocrazia dell'artifizio, ma non quella dell'arte. Vi si scambia il colore col colorito, la sovrabbondanza impacciosa dei particolari con l'esattezza parca che serva soltanto a dar rilievo. Vi si cerca non l'eccezione caratteristica che è una delle supreme necessità dell'arte, ma l'eccezione foggiata di maniera, che non può ricevere il soffio vitale della creazione perchè le leggi della vita vi sono manomesse o assenti del tutto.
Io credo che niente potrebbe meglio guarire questa malattia dell'arte moderna quanto lo studio spassionato e accurato di quel che v'ha ancora nella nostra società di spontaneo, di semplice.
È facile, più non si voglia far credere, accumulare cinque sei aggettivi addosso a un sostantivo, invece di ricercare e trovare il solo, l'unico che dovrebbe sinceramente e quindi efficacemente qualificarlo. È facile con forza di arcaismi, rimessi in corso senza necessità, mascherare agli occhi della gran folla la inanità del proprio stile e sbalordire gli ignoranti.
E, a furia di così miseri mezzi e mezzucci, siamo arrivati a perdere e a far perdere al pubblico il vero senso dell'arte e della bellezza.
Lo so, tutto questo è passeggero. Lo spirito umano, presto o tardi, riprende i suoi diritti e spazza via quel che non corrisponde alle sue leggi supreme; ma il male non è meno deplorevole per ciò, e può lasciare lunga traccia.
Non vorrei intanto essere frainteso. Con te non c'è questo pericolo. Mi dispiacerebbe però se qualcuno supponesse che queste parole sono unicamente un'abile orazione pro domo mea. Io sono convinto che uno scrittore, qualunque sia la sua virtù, deve abbandonare la sua opera d'arte al giudizio del pubblico e attendere pazientemente. Le lodi dei giornali non accrescono punto il valore di un'opera d'arte; possono forse, creare una momentanea illusione; niente altro. E in tutta la mia non breve vita mi sono confermato a questo convincimento e spero non dipartirmene fino a che potrò conservare intatta la ragione.
Ho voluto semplicemente affermare che se noi siamo nevrotici, l'arte che tenta rappresentare la nevrosi non dovrebbe essere, alla sua volta, nevrotica, cioè malata.
E poi, caro Rastignac, ci sono ancora nella vita angoli intatti, inesplorati, angoli limpidi e sereni come certi piccoli laghi che riflettono il cielo e le colline dattorno meglio di uno specchio.
Non è vero che il nostro occhio sdegni oramai simili spettacoli; non è vero che il nostro cuore rimanga sordo alle suggestioni delle cose e delle creature semplici e che hanno un particolar splendore di bellezza.
L'Arte non perde affatto la sua naturale aristocrazia accostandosi ad esse; giacchè, non bisognerebbe mai dimenticarlo, l'aristocrazia dell'Arte è tutta riposta nella forma, cioè nella concezione e nello stile in una; ed è un'aristocrazia così elevata che pochi sono i fortunati capaci di raggiungerla.
Tu intanto non dire che ti ho rimeritato malamente della tua benevolenza, scrivendoti in pubblico tutto questo.