IntraText Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Un'opera d'arte bisogna accettarla qual è45, senza cercarvi l'attuazione delle teoriche dell'autore, se queste son note.
È riuscita bella? Tanto meglio per le teoriche e per l'artista. È in contraddizione con esse? Tanto peggio per le teoriche. L'importante è che un'opera d'arte sia una bell'opera d'arte.
Secondo me, l'artista può mettersi in piena contraddizione col critico, nella stessa persona. Discutere intorno ai principii estetici è funzione molto diversa dall'adoperare l'immaginazione nel creare. E pensavo appunto questo, leggendo i primi capitoli di Il Vecchio.
La lunga agonia della moglie del senatore Alessandro Zeno; il triste via vai dei parenti, degli amici, degli indifferenti; le estreme cure date dal marito e dal figlio al cadavere della morta; tutti i minuti particolari, fino al ritorno dall'accompagnamento al cimitero, che dànno vivissima la sensazione della nauseabonda realtà, mi richiamavano alla memoria le invettive contro i così detti realisti, accusati di compiacersi di descrizioni repugnanti. E il non aver voluto evitare d'incorrere nello stesso biasimo, e l'aver anche calcato un po' la mano su certi punti, mi sembravano begli atti di coraggio e di sincerità artistica dell'autore.
"Fece uno sforzo supremo; premette col fazzoletto le gote fredde (della morta); ma sotto la pressione troppo forte, il siero all'improvviso pullulò dalla bocca rigida, quasi fermentando, formò una bolla come un velo viscido tra labbro e labbro sui denti, e la bolla scoppiando sprizzò sul volto del vecchio..."
"Ne guardò il volto curiosamente. Le labbra erano ormai esangui, del color della prima cera, e nei due angoli insisteva quel solco rosso che il succo gastrico vi aveva sùbito dopo la morte segnato scorrendo."
Un realista non avrebbe potuto dirlo con maggiore evidenza.
E per ciò già credevo di trovarmi di faccia a un'opera d'arte schietta, che non voleva essere nè realistica, nè ideologica, nè idealistica, nè simbolistica, ma viva rappresentazione di caratteri, di sentimenti, di impressioni; di faccia a un'opera d'arte dove le preoccupazioni stilistiche non cercavano di sopraffare l'espressione più diretta e più immediata del concetto; insomma di faccia a qualcosa di fresco, di giovine, di rigoglioso, non ostante la tristezza del soggetto; ma l'autore si era affrettato a disingannarmi.
Parecchi splendidi paesaggi; alcune belle scene ma brevi, quasi egli se le fosse lasciate sfuggire dalla penna con rincrescimento; e, qua e là, certi penetranti accenni di osservazione psicologica, non mi avevano all'ultimo compensato della monotonia di quella specie di soliloquio di quasi trecento pagine, a cui si era ridotto, dopo i primi quattro capitoli, tutto il romanzo.
Ricordavo qualcosa di simile pel concetto, una novella del Tolstoj, che appunto descrive il terrore della morte nella persona di un uomo di età matura; ma non volevo fare confronti. Là tutto era rappresentazione, azione; qui il movimento, la rappresentazione, l'azione rimanevano esteriori al personaggio, pretesti di un continuo maniaco rimuginamento della stessa idea. E poi, nel senatore Alessandro Zeno non era tanto il terrore della morte, quanto l'odio della vita degli altri quel che formava il pernio della morbosa attività cerebrale. Attività vacua, astratta, perchè non rivelava niente di personale, di caratteristico, tanto da apparire, di tratto in tratto, mera esercitazione scolastica.
A un certo punto mi era sembrato che il concetto del libro doveva forse essere la lotta tra sentimenti ed idee che stanno per tramontare e idee e sentimenti che si levano su l'orizzonte con rosei trionfanti splendori.
L'autore ci dice che tra il senatore e il figlio Andrea c'erano state lunghe lotte e dolorose. Il padre, metodico lavoratore, non intendeva il lavoro libero, di artista (Andrea studiava pittura), a cui suo figlio si consacrava.
"Il miraggio della burocrazia lo occupava, come occupa ancora tutta la penultima generazione nostra e la parte più fiacca ed inerte ed amorfa dell'ultima.... La non curanza del domani per la tutela promessa dallo stato, la ricerca del minimo sforzo per conseguire, quella prestituita mercede, attiravano tutti i deboli incapaci di lotta e i servili."
E (non si sa se per conto proprio o per conto di Andrea) l'autore continua a sparlare del "governo dei Vecchi, perchè, sia in buona fede che in perfidia, essi fanno leggi e morali atte a ridurre i giovani fiacchi e degni di morte come essi ormai sono;" delle scuole "che sono un tradimento della vecchiaia contro la gioventù e tendono solo ad abbassare gli ingegni giovani audaci al livello dei maestri affraliti dagli anni e dalle desolate dottrine;" della schiavitù burocratica "causa di decadenza altrettanto potente che l'antica schiavitù giuridica e la medievale schiavitù monastica."
Si capisce però che tra padre e figlio, più che lotte, erano avvenute discussioni forse un po' animate. Il senatore "incapace di intendere non pur l'arte del figlio (Andrea era simbolista, o almeno ideologico, in pittura) ma anche l'antica fungosa arte accademica, avea finito col credersi il più liberale dei padri, poichè lasciava che Andrea a suo piacere vivesse di quel passatempo fastoso."
Di tali discussioni, o lotte che si vogliano dire, non appare più ombra nel libro. Dànno una rapida vampata in una conversazione tra un giovane poeta, amico di Andrea, e lui e il senatore, e si estinguono sùbito.
Si ragionava di un vecchio pittore, disonesto intrigante.
"Alla parola vecchio Alessandro Zeno si scosse:
- Insomma il suo massimo torto è di esser vecchio?
- No, è di essere disonesto. Ma anche la vecchiaia, quando è cieca a quel modo, è un torto che fa degno di morte e non di onori.
- Insomma, lasciando da parte l'onestà, se egli fosse stato in giovinezza un pittore eccellente, e poi, fissatosi nella sua maniera, non intendesse le vostre massime nuove, lo si dovrebbe segregare dal consorzio umano?
- Se fosse onesto, egli se ne dovrebbe allontanare da sè.... Dovrebbe lasciare il campo a noi."
E il ragionamento dal fatto particolare, balza a un concetto generale. Il giovane poeta parla del Vecchio "del Vecchio che si rinchiude nel passato e nega l'aurora solo perchè non potrà vedere il giorno; del Vecchio che, vedendo le tenebre attorno all'opera sua, dice: - Il mondo finisce. Le tenebre saranno sempre sul mondo. Il sole non sorgerà più! - E combatte chi aspetta e canta e glorifica il sole futuro.
" - Quel vecchio, - egli conchiude - se è così cieco deve ritirarsi, deve deporre le armi dalle mani inette. Voi, senatore, dite che non lo vogliamo lasciar vivere. Vivere? Ma egli deve lasciar vivere noi. Noi, lo lasceremo tranquillamente morire."
Ragionamento specioso, per non dire illogico. Il poeta così e non vuole la lotta, e anche pretende che un cieco faccia atto di persona che ci vede bene; ma passi. Si deve però credere che l'autore non abbia riferito questa conversazione per niente; ci attendiamo infatti, da un momento a l'altro, qualche atto del vecchio senatore che giustifichi la necessità di quella scena, di quelle parole così severe. Il Vecchio invece non fa nulla che abbia almeno l'apparenza di un'ostilità alla giovinezza. Lascia vivere in pace gli altri, se non vive in pace, interiormente, lui.
Egli, che il giorno della morte di sua moglie aveva detto ad Andrea, con ira: - Vattene, figlio mio: tu penserai a lavar me, quando anch'io starò lì, così...... E sarà presto! - ora, vedendo Andrea lagnarsi di divenir calvo, pensa che la vita "correva anche per lui, che nelle estasi artistiche si angosciava ad arrestarla.... Non egli solo moriva un poco ogni giorno, ma anche Andrea; e anche gli altri giovani attorno..... tutti..... tutti! Via!... La vita correva!"
Allora egli si sforza di riafferrare, come tavola di salvezza, il sentimento religioso, e tenta di pregare nell'umile chiesetta di campagna dove fa celebrare, due mesi dopo la morte della moglie, un ufficio in suffragio dell'anima di lei; ma egli esce dalla chiesa più solo che mai, più scorato che mai.
Tutto l'offende, tutto lo irrita; vorrebbe che attorno alla sua vita vicina a spegnersi non sorgesse nessun altro nuovo germoglio di vita; o che le nuove cose e i nuovi uomini nascessero su dalle vecchie cose e dai vecchi uomini e fossero grati ad essi. "Invece tutti i germogli e tutti i giovani disprezzavano quelli da cui erano nati..... Nessuna gratitudine, fuori del formale rispetto; ma ribellione, disprezzo, indipendenza non ostentata ma originale e franca."
Perchè se ne meraviglia lui che aveva sentito "un soddisfacimento segreto e pensava che quel giovane ambizioso (suo figlio Andrea) dagli occhi lucenti, dalle bianche mani nervose era nato da un ignobile atto di lui, come un fiore dal fimo?"
Più di ogni altra cosa, lo cruccia la compassione. Sente dire, non visto da sua figlia Luisa e dal marito di lei, in giardino:
" - Egli pensa sempre alla mamma, e ha il colore di un cadavere.
- È vero.
- Povero babbo, se ne andrà presto anche lui!
E gli sembra ch'essi lo consegnino nelle mani della morte o lo spingano "malamente nel sepolcro sdrucciolo buio freddo profondo."
Che vuole? Che pretende? Non lo sa. Una volta aveva pensato la gioia dell'ultimo uomo che vedrà l'ultimo sole; e questa idea che lo riprende, dopo che un bagliore di coscienza sincera, gli ha fatto riconoscere che i giovani, apparentemente disprezzati, erano in realtà, invidiati da lui affralito e senescente.
Ma l'autore è proprio sicuro che tutto quel chimerizzare intorno al giorno finale del mondo sia del vecchio senatore, e non di lui, romanziere, che ha voluto compiacentemente regalarglielo? È proprio sicuro che non sia artificioso, per non dire falso, il grand'odio attribuito al vecchio contro il pastello dove il figlio aveva tentato di fissare i lineamenti della madre morta?
"All'improvviso si ritrasse, afferrò il vaso delle rose che era sul pianoforte, il vaso delle rose donde il dì innanzi erano caduti petali rossi su la tastiera logora, e lo scagliò con violenza contro il ritratto. Si frantumò il vetro, si lacerò la carta, e il vecchio in una furia di distruzione con le tremule mani ancora assalì l'opera del figlio, il ritratto della morta, calpestandolo, con basse violente parole vilipendendolo."
Egli cerca di scusarlo, di giustificarlo, e gli mette in bocca queste parole:
"Noi (vecchi) coscientemente danneggiamo il mondo. Sì, sì46, solo invidia mi respinge da Andrea, solo paura mi allontana da quel ritratto di Nannetta (la moglie morta). Ecco, ecco (Andrea) scoprirà la rovina compita da me quando stamane per un attimo sono stato sincero nel fatto, ed egli finalmente mi deriderà e intenderà la vera causa dei miei disdegni e non mi rispetterà più. Io morrò ridicolo."
E appicca fuoco alla stanza, per nascondere con l'incendio il delitto del ritratto distrutto.
Io che mi ero un po' inalberato leggendo quella specie di settecentesca visione che chiude il capitolo intitolato Arcobaleno, non mi aspettavo però di veder intervenire un sogno (l'autore non può far a meno di chiamarlo: miracoloso sogno ammonitore) perchè riuscisse meno ostico il mutamento finale del Vecchio. E a questo punto non bisogna più dire il senatore Alessandro Zeno, ma soltanto il Vecchio. Egli è divenuto una entità astratta, da personaggio vivente che era nei primi capitoli. Si è venuto di mano in mano assottigliando, ed ora non ha più niente delle nostre miserie umane; è un ragionamento puro e semplice. Ci voleva quel miracoloso sogno ammonitore perchè egli, che odiava tutte le creature viventi, tutte le cose esistenti per l'unica ragione che vivevano ed esistevano e sarebbero vissute ed esistite dopo sparito lui; ci voleva proprio un miracolo perchè egli che ieri si rallegrava al pensiero che creature e cose avevano però dentro di sè, al pari di lui, il germe distruttore della morte, oggi - con la chiarezza del recente sogno in cui aveva visto il suo stesso cadavere - si senta perfettamente cambiato e possa riflettere: "La vita è il mutamento continuo della materia. Perciò la vita è dovunque, anche dove non giunge la luce, dove non penetra l'aria. La Morte non esiste, e tu morendo puoi negarla."
Ma come? Non sapeva questo il senatore Alessandro Zeno? E ci voleva un miracoloso sogno ammonitore per rivelarglielo? E doveva egli arzigogolare tanto, per venire poi alla risoluzione di finirla con quella sua esistenza, che infine non era cattiva?
"Nessun odio più lo accendeva, egli era calmo e solenne come un sacerdote che compia un sacrificio comandato da Dio.... Prese, quasi a tentoni, la piccola boccia del veleno d'oro e lasciò sopra un largo pezzo di zucchero cader molte gocce finchè gli parve che lo zucchero ne fosse ben saturo. Poi lo ingoiò e corse al letto."
Poco dopo Gino, figlio di Luisa, vien mandato su a chiamare il nonno per la cena. Chiamatolo a nome e non ricevendo risposta, il bambino, toccata la mano del vecchio che era gelata, altro non osò.
"Quando entrò nella luce, in cospetto dei tre giovani (cioè nella sala da pranzo illuminata, al cospetto dello zio Andrea e dei genitori Luisa e Giorgio) disse senza timore:
Così finisce Il Vecchio e faticosamente, sarebbe puerile non dirlo.
Ho cominciato a leggerlo con animo sereno. L'ho terminato col profondo dispiacere di chi vede sciupato in malo modo molto sforzo di ingegno e di coltura. Giacchè è evidente che l'Ojetti ha composto così il suo romanzo in ossequio alla sua fissazione del romanzo ideologico e un po' simbolista. Che egli volesse mettere in un romanzo idee e simboli non era poi cosa tanto strana e insolita da dovergli sembrare anche audace. Più o meno, via, in un romanzo ci son sempre idee divenute personaggi con caratteri e passioni speciali, e personaggi e sentimenti che possono, con un pochino di buona volontà, passare per simboli. Solamente per fare un'opera d'arte, le idee non bastano, o bastano per fare Il Vecchio e non mai per ridurre Il Vecchio Un Vecchio, cioè il senatore Alessandro Zeno. Questo Ugo Ojetti lo sa; ma gli è parso fosse meglio far una bravata fingendo di averlo dimenticato; e che lo sappia lo dimostrano i primi capitoli del libro e alcune scene, qua e là, sobrie ed efficaci nei capitoli Il piccolo abbandonato, La tentazione e in parecchie descrizioni notevolissime per colorito, non ostante che, con meraviglia, nella forma semplice, e schietta, si notino certi residui stilistici contro cui egli ha gridato a ragione.
Ho polemizzato qualche anno fa con l'autore di Il Vecchio, e parecchi, che per ragioni diverse, non gli vogliono bene, mi hanno biasimato di aver discusso con lui, quasi mi fossi ingenuamente messo al servizio della sua smania di far rumore in tutte le occasioni e con tutti i mezzi.
Quantunque l'Ojetti sia stato poco garbato, anzi insolente con me, io non mi pento di quel che ho fatto. Bisogna perdonar molto all'età; e i giovani a me piacciono (che che egli ne pensi) specialmente quando, assieme coi pregi, mostrano tutti i difetti della loro condizione: l'orgoglio, l'entusiasmo, la fede cieca.
Molto orgoglio, molto entusiasmo, molta fede cieca traspariscono dalle trecento ottantaquattro pagine di questo volume, cioè molta giovinezza, inficiata però da inopportuna serietà, da voluta gravità nella scelta del soggetto e dei mezzi per svolgerlo. Se è vero, come asseriscono, che noi così detti veristi o realisti abbiamo uggito il mondo dei lettori, non mette conto diventare ideologi e simbolisti per uggirlo allo stesso modo e anche peggio!
Siano sinceramente e schiettamente giovani i giovani!
È consiglio disinteressato di un vecchio.