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– No, caro amico – disse il dottore rivolgendosi al giovane avvocato, che finiva di parlare tra le compiacenti approvazioni di molti. – La psicologia non è ancora scienza positiva; le manca una delle piú vitali condizioni: l'esperimento. Essa studia certi fenomeni, certi fatti, ma non può riprodurli a piacere per sottometterli all'esame provando e riprovando. Ignora il processo creativo, vitale; poggia tutta su ipotesi. E quando si trova davanti a certi fatti che la mettono in imbarazzo, o li nega o li salta sprezzosamente; ma i fatti non esistono meno per questo, e rimangono là irremovibili, attendendo una spiegazione, che forse non verrà mai. Sono cosí limitate le nostre forze e i nostri mezzi d'investigazione! Ci vorrebbe però tanto poco per dire: «Ignoriamo!». E questa umile confessione sarebbe tanto piú scientifica dell'affermare: «È assurdo!». L'assurdo esiste soltanto pei matematici. E anche! E anche! Io, per esempio, ho conosciuto...
– Ah!... Ecco una storiella! – lo interruppe il giovane avvocato, ridendo.
– Sì, una storiella malinconica – riprese il dottore – come possiamo saperne soltanto noi vecchi che abbiamo avuto il non invidiabile privilegio di aver visto troppe cose tormentatrici della mente e del cuore. Non dimenticherò mai la scena a cui ho assistito quattro anni fa, e mi sento venire i brividi ripensandoci. Lei, or ora, ha negato il valore di parecchi presentimenti oscuri, arcani, che ci ammoniscono di un fatto di là da venire. Ha accennato a tanti piccoli particolari che passano inavvertiti e che, accumulati, sviluppati da un lavoro interiore di cui non abbiamo coscienza, si schiariscono tutt'a un tratto e ci danno arie di profeti, di indovini.
Ma nel caso che sto per raccontare niente di questo.
Vent'anni fa – noti, vent'anni! – io mi trovavo a pranzo dal mio amico Batocchi che non vedevo da un pezzo. Compagni di collegio e di università, ci eravamo poi perduti di vista. Io in America, lui in provincia. Io avevo dovuto conquistare una posizione, un po' di fortuna; egli, ricco, stimato pel suo carattere e pel suo ingegno, era uno dei pochi felici della terra che non debbono far altro che desiderare per essere subito appagati. Bisogna aggiungere che il mio amico aveva cosí modesti desideri, da farsi perdonare da tutti la piena felicità della sua vita. Unico suo difetto era una invincibile indolenza che lo rendeva disadatto a qualunque energica azione. Infatti egli stesso si qualificava, sorridendo, un dilettante della vita.
Ci trovavamo dunque a tavola, uno di faccia all'altro, lietissimi di esserci riveduti quando meno ce lo aspettavamo, perché il nostro incontro era stato fortuito. Di discorso in discorso, riandando il passato, rammentando vecchi amici spariti dalla scena del mondo, presi tutt'e due da un sentimento di malinconia, anche perché dovevamo presto dividerci, si venne a parlare di quella terribile cosa che è la morte; forza cieca, benefica e malefica senza ragione apparente; che dimentica spesso quaggiù esseri dai quali viene invocata, e porta via altri degni di vivere lungamente, e ne tronca i disegni, ne interrompe le opere con grave disastro per le famiglie e anche per le nazioni, secondo l'importanza degli individui.
Io dissi:
«Il peggio è che la morte arrivi sempre inattesa».
«Oh! Per questo – esclamò il mio amico – io sono fortunato. So, da un pezzo, l'anno, il giorno e l'ora in cui dovrò morire».
Sorrisi, incredulo, scrollando la testa.
«Sí, sí – egli riprese. – Io morrò nel 1883, il quarto giovedí di maggio, alle cinque di sera».
«Chi te l'ha profetato?».
«Un presentimento. Guarda, l'ho notato in un libro».
E si levò da tavola per andare a prendere nel suo studio il volume a cui aveva accennato.
«Tu però non credi a questa sciocchezza – gli dissi dopo di aver letto. – Come ti è passata per la mente?».
«Non lo ricordo. Un bel giorno mi sono sentito dire da una voce interiore: "Tu morrai nel 1883, il quarto giovedí di maggio, alle cinque di sera". E da allora in poi questa voce si è fatta cosí insistente, che ho voluto prenderne nota perché gli altri verifichino se il mio presentimento si sarà avverato».
Parlava tranquillamente, da uomo convinto della possibilità del caso.
«Sciocchezza o no – soggiunse –, questo presentimento mi giova. Fidando in esso, io ho potuto affrontare con indifferenza molti pericoli, in terra e in mare. Mi sono trovato in circostanze...».
«Tu scherzi!» lo interruppi.
«Prevedo – continuò – che non sarà divertente, se raggiungerò quell'anno, quel giorno. Ma, per ora, ci penso con viva curiosità soltanto. Ho vent'anni davanti a me; siamo nel 1867».
«Senti – diss'io – se nel maggio dell' 83 sarò ancora vivo, accorrerò qui da qualunque parte del vecchio o del nuovo mondo io mi trovi. Dopo le cinque, mi pagherai un pranzo luculliano di cui ti darò la lista un mese avanti per le varietà e le primizie che dovrai ordinare!».
«E se il presentimento si avverrà a puntino?».
«Non si avvererà!».
«Penserai tu ai miei funerali?».
«Penserò io ai tuoi funerali».
«E me li farai splendidi?».
«Bada a campare! Se no, dirò che sei morto per non pagare la scommessa».
«Bada a campare anche tu!...».
E mi fermai. Non avevamo preveduto il caso ch'egli morisse prima dell'83. Avrebbe perduto egualmente la scommessa; e glielo feci notare.
«Aggiungerò oggi stesso un codicillo al mio testamento. Sta' tranquillo – mi rispose. – Sarà compensato».
«Che discorsi, eh!».
«Paura, no; ma ti confesso che preferisco la vita. Almeno non ha misteri!».
«A me invece la vita sembra piú misteriosa della morte».
Sapendo che il mio amico si compiaceva di certi paradossi, lo lasciai dire senza interromperlo. E poi, parlava cosí bene! Ed io fumavo cosí deliziosamente un suo exceptional Rothschild mentre egli parlava!
Da quell'anno, fino al gennaio dell'83 l'amico Batocchi mi aveva dato, di quando in quando, sue notizie, rammentandomi sempre la scommessa. Stava bene, sano di corpo e di mente, com'egli ripeteva scherzando, senza un dolore di capo, senza un raffreddore. Si lamentava soltanto d'ingrassare un pochino; e scherzava anche intorno a la incipiente pinguedine. «Un po' di pancia, per ora, non disdice a la mia statura!». Era alto, aitante della persona, bell'uomo insomma.
Nell'aprile di quell'anno però improvvisamente mi scrisse:
«Mi sento finito! Mangio quanto una formica e non riesco a digerire. Non sono più un uomo, ma una larva di uomo; stenteresti a riconoscermi!».
E questa volta non parlava della scommessa.
Nei primi di maggio andai a trovarlo.
Era roseo, fresco, quasi ringiovanito a sessantatre anni, sembrava la salute in persona.
«Ho voluto farti paura!» mi disse, abbracciandomi e ridendo allegramente.
La sua allegria, la sua indifferenza, mi parvero simulate, ostentate. Riflettevo: non si porta in mente per piú di trent'anni un lugubre presentimento come quello del mio amico, senza sentirsene un po' scosso. E lo interrogai.
«No – rispose. – Attendo con curiosità; è un bel caso, ne convieni? Intanto ho dato gli ordini pel pranzo, secondo la tua lista. Saremo una diecina di amici... o sarete – si corresse – se mai! Gli antichi banchettavano dopo avere assistito a un funerale».
Nel pomeriggio di quel quarto giovedí di maggio, eravamo infatti una diecina in casa sua, e tentavamo di mostrarci allegri: ma questa volta l'ostentazione riusciva evidente. Ci sentivamo impacciati, quantunque tutti scettici; nessuno di noi aveva mai osato guardare l'orologio, quasi non volessimo punto accorgerci dell'apprestarsi dell'ora fatale.
Io raccontavo una mia strana avventura nelle pampas americane, tra le pellirosse, e tutti ascoltavano con grande interesse.
A un tratto, Batocchi scattò dalla poltrona dov'era seduto, pallido, con gli occhi sbarrati.
«Eccola!» balbettò.
«Chi?» esclamammo tutti.
«La morte!».
E, barcollante, egli si mosse verso un uscio del salotto, come chi va incontro a qualche persona arrivata all'improvviso. Fece due o tre passi, e si rovesciò indietro, agitando le braccia, fulminato.
L'orologio a pendolo suonava lentamente le cinque –.