Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Fanciulli allegri
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II

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II

 

Subito cominciò un po' di discordia. Leo era invadente, voleva fare tutto lui; e Giulio, che aveva due anni di più, pretendeva che i lavori difficili gli spettassero per ragione di età.

 

GIULIO.

Tu non sai scavare le buche, io sì; ne ho fatte tante nel nostro giardino per trapiantare gli alberelli.

 

LEO.

Quelle sono diverse; da' qua la zappetta. Tu Armando, Carlo ed Eugenio, pianterete i pali.

 

ARMANDO.

E staremo a guardarti! Già!

 

LEO

(conciliante).

Ne pianteremo uno per uno. Comincio io.

 

EUGENIO.

Comincio io che ho la zappa in mano.

Le bambine s'erano accostate.

 

GINA.

E noi intanto?

 

LEO.

Siete il Comitato. Andrete attorno per raccogliere le offerte e le porterete qui.

 

LORA.

Attorno da chi? Dalle panche?

 

ARMANDO.

Sicuro. Tu e Laura, per esempio, andrete a sedervi laggiù. Verranno Gina e Clelia in commissione.

 

GINA.

Ho capito: come quando le signore vengono dalla mamma per la Fiera di beneficenza. Andiamo, bambine.

E mentre Leo, Giulio, Eugenio, Carlo e Armando sudavano a scavare le buche, a piantare i quattro pali per lo steccato, Gina e Clelia facevano seriamente la questua pel monumento.

Lora e Laura, sedute sur un sedile di pietra presso la fontana, fingevano di lavorare in salotto; e Gina e Clelia, che erano andate a mettersi i cappellini e a prendere i ventagli, venivano in visita, solenni e cerimoniose; e tutte e quattro, nell'intonazione della voce e nei gesti, parevano proprio delle signore.

 

LORA.

Oh, che piacere e che onore!

 

GINA.

Veniamo a incomodarle. Si tratta...

 

LAURA.

Seggano, seggano,

 

CLELIA.

Il disturbo sarà breve.

 

LORA.

Ma che disturbo! Ci vediamo così di rado!

 

CLELIA.

Noi siamo il Comitato per la statua... — lo sanno — di quel...

 

LAURA.

Di quel cinese...

 

CLELIA.

Ma non si deve dire; non hai sentito quel che diceva Leo?

E Clelia, alzando la voce, si rivolse al fratello:

—.Leo, Leo, la statua di chi?... Come dobbiamo dire?

 

LEO.

La statua soltanto; di chi, si vedrà poi: ce lo suggerirà il babbo.

 

GIULIO.

Inventiamolo noi un grand'uomo.

 

ARMANDO.

O che lo inventano coloro che fanno i monumenti?

 

EUGENIO.

Dunque perchè li fanno?

 

LEO.

Come siete stupidi! per fare la statua. Bada, quel palo è storto. Non lo reggete in due?

 

E laggiù le bambine riprendevano.

 

CLELIA.

Per la statua. Siamo venute a chiedere la loro offerta. Loro sono così ricche, così di buon cuore...

 

LORA

(seria).

Daremo mezzo milione.

 

CLELIA

(riprendendo il tono naturale).

Bumh! Chi lo mezzo milione?

 

LAURA.

Ecco cento lire.

 

CLELIA.

Grazie. A rivederci.

 

LORA.

E la rappresentazione quando sarà?

 

GINA

(riprendendo il tono naturale).

Ma che rappresentazione! O che facciamo il teatro? Si dice... Leo, come si dice?

 

LEO.

Che cosa?

 

GINA.

Quando si scopre la statua?

 

LEO.

L'inaugurazione.

 

GINA.

Sì, l'inaugurazione. Se sarà buon tempo, domenica prossima; manderemo i biglietti; ci onoreranno della loro presenza.

 

LAURA.

Grazie! Troppo gentili.

 

GINA

(cambiando tono).

Ora andate a sedervi in altro posto.

 

LAURA.

No, andate a sedervi voialtre. Saremo noi il Comitato. E dateci i cappellini e i ventagli; veniamo in visita noi.

 

GINA

(a Lora).

Bada di non sciuparlo. È regalo della nonna questo ventaglino.

 

LORA.

Con mezza lira se n'hanno due!

 

GINA

(levandole di mano il ventaglio).

Lascialo stare, se non ti sembra degno di te.

 

LAURA.

Come sei permalosa!

 

Intervennero Clelia e Laura per rappacificare le due amiche andate a sedersi una lontana dall'altra, voltandosi le spalle.

I pali intanto erano già belli e piantati, e i cinque operai, come si chiamavano da loro stessi, ora vi inchiodavano su tavole in croce e incannucciate, aiutati dai fratellini minori di Leo, che volevan pure far qualcosa e non stare soltanto a guardare. Pinuccio, il più irrequieto, non aveva capito bene a che scopo servisse quel casotto in costruzione, e tempestava Leo con continue domande. Leo ogni volta rispondeva:

— Poi vedrai.

Il trasporto del tavolino da notte fu fatto quasi solennemente. Giulio s'incaricò della tavoletta di marmo; Leo, Carlo, Eugenio e Armando, del mobile. I piccini avevano voluto trasportare anche essi qualcosa, e Leo li aveva accontentati levando dal suo posto la cassetta e consegnandola ai fratellini. Ma si doveva fingere di trasportare grossi blocchi di travertino; quindi fermate a ogni quattro passi, e oh! oh! ah! ah! quasi ad aiutare gli sforzi per muovere il gran peso. E sudavano davvero, rossi in viso, coi capelli scapigliati e arruffati, seri quasi compissero un faticoso lavoro.

Le ragazze erano corse per vedere l'insediamento del piedistallo dentro lo steccato; ma qui sorse una lite. Leo pretendeva che l'operazione non doveva farsi sotto gli occhi del pubblico.

 

LEO.

Perchè abbiamo fatto lo steccato?

 

Allora si accorsero che mancava un uscio per impedire agli sguardi indiscreti la vista delle altre operazioni da compirsi. E corsero all'arsenale, dove in un canto stava addossato al muro un uscio che faceva proprio al caso; ma trasportarlo non era facile. Gli operai dovettero accettare anche l'aiuto delle ragazze; le quali durante il trasporto si misero a cantare come i frati quando accompagnano un morto. Leo e Armando s'indignarono, e se la presero contro Giulio che, messosi dalla parte delle amiche, cantava insieme con loro.

Il vecchio uscio fu deposto per terra a poca distanza dello steccato.

 

LEO.

No, non c'entra cantare così...

 

ARMANDO.

Leo ha ragione. Il giuoco non è questo. Ora siamo operai. Canterete in tal modo quando giocheremo al morto; ora no.

 

Le ragazze avevano subito smesso; ma Giulio continuava, per fare arrabbiare Leo e Armando e far ridere le bambine coi versacci.

 

LEO.

Smetti, Giulio! È tardi, e per inchiodare questo uscio ci vuol tempo.

 

EUGENIO.

Via, smetti, noioso!

 

Ma Giulio ci prendeva gusto a farli arrabbiare maggiormente. E siccome una volta, assistendo a un trasporto funebre, aveva visto che a un certo punto, presso la stazione, il carro si era fermato perchè facessero i discorsi, pensò bene di compire lo scherzo improvvisando un discorso con l'intonazione d'uso:

 

GIULIO.

Signori, questo morto... è morto!...

 

LEO.

Giulio, smetti!

 

GIULIO.

Signori!... Con le lacrime agli occhi e col cuore profondamente contristato...

Ma una risata gl'impedì di continuare. Poi disse:

— L'uscio debbo inchiodarlo io; se no, non ci metto un dito.

Pro bono pacis la condizione fu accettata. E da a poco, si riudì pel giardinetto il gran martellare di poc'anzi.

L'uscio non aveva toppa, ma un paletto soltanto. Leo aveva voluto a ogni costo la serratura, altrimenti chiunque sarebbe andato ad aprire ed a vedere. Nell'arsenale, fornito d'ogni altra cosa, non c'erano serrature di alcuna sorta; bisognò contentarsi del paletto.

Dentro lo steccato entrarono soltanto gli operai Leo, Carlo, Giulio, Eugenio e Armando; e mentre essi collocavano il piedistallo al posto, ragazze e piccini osservavano dalle fessure, dai buchi dei vecchi tappeti.

Quando gli operai uscirono fuori, contenti e soddisfatti del lavoro compiuto, le ragazze ed i bambini volevano entrare per osservare comodamente quel che avevano tentato di vedere dalle fessure e dai buchi. Giulio e Carlo li respinsero indietro, e Leo mise il paletto che legò con una cordicella, i cui capi Giulio inchiodò sul palo perchè nessuno potesse aprire.

Dalla terrazza la signora Tomelli fece un cenno con la mano.

Basta, bambini, venite su. Laura, Clelia, c'è qui la cameriera.

 

GIULIO.

Basta davvero per oggi; abbiamo lavorato troppo.

 

CARLO.

Ci siamo insudiciati.

 

LEO.

Andiamo a lavarci.

 

CLELIA.

Noi non possiamo venire domani.

 

GIULIO.

Verrete domani l'altro; scrivete i biglietti d'invito.

 

LEO.

Li stamperemo; ci ho la tipografietta regalatami dal babbo per capo d'anno.

 

GIULIO.

Mi viene una bella idea!

 

LEO.

Quale?

 

GIULIO.

Bisogna invitare il re e la regina.

Tutti gli altri scoppiarono in una gran risata.

 

GIULIO.

Intendo dire che uno di noi farà da re e una delle ragazze da regina.

 

ARMANDO.

Da re farò io; mi metterò tanto di baffi.

 

CLELIA:

Io da regina. So salutare proprio come lei.

 

LEO

Faremo a sorte.

 

CARLO.

Io sarò un ministro.

 

EUGENIO.

Anch'io. Ci faremo le uniformi di carta.

 

LA SIGNORA TOMELLI.

Basta, bambini.

 

LEO.

Eccoci, mamma.


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