Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Fanciulli allegri
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III

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III.

 

Il giorno dopo, Leo e i due Solerti lavoravano all'impianto del palchetto per gl'invitati. I Solerti, un tantino gelosi dei fratelli Bossi, quel giorno furono più allegri e più sottomessi agli ordini di Leo, che prendeva aria d'ingegnere dando le indicazioni delle misure. Carlo scavava le buche, Eugenio e Leo piantavano prima i pali corti, poi inchiodavano ai pali strisce di legno per traverso.

L'opera ferveva quasi in silenzio.

Più tardi sopraggiunsero Gina e gli altri due fratellini usciti a passeggio con la mamma, e aiutarono anche loro nel trasporto dei tappeti per coprire lo steccatino del palchetto. Il centro era rimasto scoperto perchè volevano mettervi un tappeto quasi nuovo, di quelli di casa, per far meglio figura.

E quando il lavoro fu finito e ammirato sinceramente da tutti, Carlo disse:

Servirà pel re e per la regina.

 

LEO.

E gli invitati dove li metteremo? Sono parecchi.

 

EUGENIO.

Faremo così: sul davanti collocheremo due poltrone pel re e per la regina; dietro, le seggiole per gl'invitati.

 

CARLO.

Mentre non abbiamo altro da fare, potremmo trasportare e mettere al posto la statua.

 

LEO.

No, devono esserci i Bossi; l'abbiamo promesso loro.

 

CARLO

(con tono sarcastico).

Oh, senza loro non si può fare niente di buono!

 

LEO.

Tu, si sa, non li puoi patire!

 

CARLO.

Intanto, stiamo con le mani in mano.

 

LEO.

Andiamo dal babbo a chiedergli il nome per la statua, e a pregarlo di prepararci il discorso; deve scriverlo lui.

Il signor Tornelli li vide irrompere tutti nello studio.

 

LEO.

Babbo...

E si fermò. Come spiegare la cosa senza svelare quel che doveva essere un segreto? Ma subito continuò:

Babbo, dicci il nome d'un grand'uomo cinese.

 

IL SIGNOR TOMELLI.

Confucio.

 

CARLO.

Che nome brutto!

 

IL SIGNOR TOMELLI.

Era un filosofo, un legislatore.

 

EUGENIO.

Con la coda?

 

IL SIGNOR TOMELLI.

Certamente, anzi forse mandarino da tre code.

 

I bambini si misero a ridere; e Giulio sottovoce disse a Leo:

— Il nostro ne ha una sola!

 

Il signor Tomelli spiegò loro che le tre code erano insegna di altissima onorificenza in Cina, e aggiunse che colà tutti i funzionari dello Stato, civili e militari, si chiamano mandarini.

 

LEO.

E noi perchè chiamiamo così certi aranci?

 

Il signor Tomelli non lo sapeva e rispose:

Probabilmente perchè vengono di .

 

LEO.

Babbo, tu dovresti scriverci il discorso per l'inaugurazione; noi non sappiamo farlo. Cortino, sai, ma bello come quello di giorni fa, quando colui diceva: Signori! Signori!... Bisogna dire: Signori! Ci sarete tutti voialtri. E anche: Signore! perchè ci saranno le mamme.

 

IL SIGNOR TOMELLI.

Perchè non lo scrivete voi, i più grandicelli, come un còmpito? Io sceglierei il migliore.

 

TUTTI.

Non sappiamo! È impossibile!

 

IL SIGNOR TOMELLI.

Lo scriverò io.

E sorrideva, vedendo come quei bambini prendevano sul serio la cosa.

 

LEO.

Babbo, dovresti farci anche un biglietto d'invito, lo stamperemo con la tipografia che tu mi hai regalata.

 

IL SIGNOR TOMELLI.

Ecco qui. E scrisse:

 

INAUGURAZIONE

DEL MONUMENTO A CONFUCIO

——

BIGLIETTO D'INVITO

 

LEO.

Così sbricio sbricio?

 

IL SIGNOR TOMELLI.

Facendolo più lungo, il carattere della tipografietta non sarà sufficiente.

 

LEO.

Hai ragione. Andiamo a stamparlo.

Corsero in camera di Leo. La tipografia era preparata sul tavolino con accanto la carta tagliata in appositi bigliettini. Leo era già tipografo esperto; ma la composizione non procedette liscia, perché ora Carlo, ora Eugenio, impazienti, prendevano questa o quella lettera, confondendo le maiuscole e le minuscole. Corsero parecchi errori: un'inaugurazone, un Confucco, un Biglieto che furono corretti da Leo. Nel punto di cominciare la stampa, egli si ricordò di avere promesso alle ragazze che l'avrebbero fatto loro, e volle mantenere la parola.

 

LEO.

Così esse saranno occupate, mentre noialtri trasporteremo la statua.

E rimisero tutto al giorno appresso, che fu proprio la gran giornata.

La tipografietta era stata trasportata in giardino. Intanto che Gina, Clelia, Lora e Laura sciupavano molti biglietti prima di addestrarsi a stamparne dieci ognuna, Leo, i fratelli Solerti e i Bossi mettevano il cinese, coperto da un panno, sopra una carrettella e procedevano al trasporto. A ogni scossa, il povero cinese traballava più forte, e Pinuccio e il fratellino e Nina Solerti, addetti a tirare le funicelle, ridevano, gridando: Viva il cinese! mentre gli altri grandicelli fingevano di spingere il supposto pesantissimo carro, come avevano visto fare una volta con un blocco di marmo da una ventina di operai. Si fermavano, si riposavano, riprendevano; così, a percorrere quella cinquantina di passi, dall'arsenale allo steccato, impiegarono più di tre quarti d'ora. E ci mancò poco che la statua non andasse in frantumi per colpa dei bambini che non sapevano frenarsi, e davano con le funicelle tirate a strappi, che facevano traballare il carrettino. Leo e Giulio li sgridavano, arrabbiati, e minacciavano di mandarli via. Il carrettino, percorsi lentamente i viali, si fermava finalmente davanti lo steccato dove il piedistallo attendeva la statua.

Leo e Giulio la rizzarono su e la collocarono facilmente a posto, fra gli applausi di tutta la brigata, a cui il cinese faceva riverenze dondolando la testa, provocando allegrissime risate.

Qui sorse una gran difficoltà: in che modo velare la statua, e come combinare per togliere a un tratto il panno che doveva avvolgerla?

Leo aveva visto la cosa, ma non aveva potuto capire per qual congegno la tela fosse venuta giù: aveva visto soltanto tirare una fune.

 

GIULIO.

Io, che sono il più alto, scoprirò la statua con le mani.

 

LEO.

Faremmo ridere i polli.

 

CARLO.

Facciamo un inviluppo di carta, appuntato con spilli. Si levano via gli spilli e apparisce la statua.

 

LEO.

No, no. Il babbo certamente saprà in che maniera va fatto.

Giulio insistette nella sua proposta; gli pareva la più pratica e la più facile, ma non contentava nessuno, neppure suo fratello Armando che gli dava sempre ragione. Tutt'a un tratto, Eugenio Solerti, che non aveva preso parte alla discussione ed era stato un pezzo con la mano alla fronte per aiutare la concentrazione del pensiero, diè un balzo ed esclamò:

— L'ho trovata!

 

GIULIO

(mezzo incredulo e mezzo ironico).

Sentiamo!

 

EUGENIO.

Prenderemo una canna, un bastone, qualcosa di simile, e vi legheremo in cima uno spago. All'estremità di esso metteremo uno spillo torto a uncinetto. Quest'uncinetto lo agganceremo al panno, proprio su la testa della statua. Al momento opportuno, tireremo in su lo spago, e la statua rimarrà scoperta.

 

GIULIO.

Eh, via!

 

LEO.

Proviamo.

E provarono. Il mezzo era ingegnoso; lo stesso Giulio dovette convenirne, ma bisognava fare con cautela, ed Eugenio prese lui l'incarico dello scoprimento; gli spettava di diritto.

Allora pensarono alla distribuzione delle altre parti.

Chi doveva leggere il discorso? Chi fare da re e da regina? Era stato detto di affidare la scelta alla sorte, e si procedette a fare le polizze. Quando esse furono in ordine e vennero buttate in fondo al cappello di Carlo, Pinuccio stava per stendere la mano, ma Leo disse:

— Un momento! Abbiamo fatto male mescolando tutti i nomi; quelli delle ragazze bisognava metterli da parte.

E si rifecero da capo svolgendo le polizzine avvolte, separando i nomi delle ragazze dai loro; e procedettero al sorteggio in mezzo al più religioso silenzio, quasi la mano di Pinuccio dovesse decidere del loro destino.

E la sorte distribuì le parti così: per rappresentare il re e la regina, Armando Bossi e Laura Sfrattini; per leggere il discorso, Carlo Solerti. Ci fu un momento di malumore e di broncio, specialmente fra le ragazze. Laura già si pavoneggiava della rappresentanza toccatale e faceva le prove del saluto, imitando il movimento della testa e il sorriso della regina, sua grande ammirazione.

 

LAURA.

Bisognerà vestirsi in abito lungo; mi farò acconciare dalla mamma.

 

ARMANDO.

Vedrete che baffi e che sgranate di occhi! Ma... dovrò vestire da borghese o da militare?

 

LEO.

Da borghese, con stifelius e cappello a cilindro. Io ho veduto il re all'Esposizione, così, a due passi; incuteva paura.

 

CARLO.

Ma che paura! Se va in carrozza pel corso e saluta tutti, poverino, da non stare un momento col cappello in capo! Se fossi re, io non saluterei nessuno e non vorrei che mi salutassero. Deve essere una gran seccatura.

 

GIULIO.

E per questo non sei re!

Tentarono di riprendere un contegno allegro; ma Eugenio Solerti invidiava il fratello Carlo che doveva leggere il discorso; Carlo avrebbe preferito farla da re; e Leo era già pentito di non aver imitato il leone della favola nella distribuzione delle parti; lui, che aveva inventato il giuoco, e Giulio che aveva lavorato più di tutti, si trovavano scartati, e dovevano contentarsi di figurare fra gli spettatori o poco meno. Ma oramai era fatta. Leo disse a Giulio, sottovoce:

— Noi rappresenteremo il Comitato; riceveremo gl'invitati; sarà meglio. Ci metteremo un bel fiocco di nastro tricolore all'occhiello, con medaglie e altro.

 

GIULIO.

Io mi metterò la croce da commendatore del babbo.

 

LEO.

Io quella di cavaliere.

 

GINA.

E noi?

 

ARMANDO.

Voialtre? Ma ci vogliono due dame di compagnia della regina; ella non va mai sola.

 

GINA.

Sì, sì, io e Clelia faremo da dame.

 

Nessuno si oppose. Lora e Nina erano troppo piccine da poter pretendere una rappresentanza qualunque. E poi, si era detto che i bambini avrebbero fatto da banda, con trombette e tamburelli; si sarebbero imbrancate coi fratellini. Tanto, elle capivano pochino di quel giuoco troppo complicato per loro; con le trombette e i tamburelli, avrebbero fatto un po' di chiasso.

 

Il signor Tomelli si era accostato senza che i bambini se n'accorgessero. Vedendoli riuniti in gruppi a parlottare con aria di malumore, domandò:

— Ebbene, che fate?

 

LEO.

Ah, babbo! Non dovevi venire.

 

IL SIGNOR TOMELLI.

Fingerò di non aver veduto niente.

 

GIULIO.

Venga anzi; ci consigli, ci aiuti.

 

CARLO.

Ha fatto il discorso? Debbo leggerlo io.

 

EUGENIO.

Io faccio da re.

 

LAURA

Io da regina.

 

IL SIGNOR TOMELLI.

Sì? In che modo?

 

LEO.

Allora senti, babbo.

E Leo, che cominciava a persuadersi della difficoltà di far tutto da loro, ora che dovevano distribuirsi gl'inviti per l'inaugurazione, espose rapidamente e confusamente il giuoco inventato da lui — la proprietà dell'invenzione gli stava a cuore — e quel che rimaneva ancora da farsi.

 

IL SIGNOR TOMELLI.

Bravi, bambini! Faremo una bella festa. E tutto pronto per domenica?

 

LEO e GIULIO.

Tutto.

 

IL SIGNOR TOMELLI.

Bisogna mettere a parte d'ogni cosa anche la mamma; lei vi aiuterà pel travestimento da re e da regina. Gli invitati non devono saperne nulla; dovrà essere una sorpresa.

I bambini si misero a saltare dalla gioia e a battere le mani.

 

LEO.

Domani leveremo via lo steccato.

 

IL SIGNOR TOMELLI.

Avete messo l'ora nei biglietti d'invito?

 

LEO.

No.

 

IL SIGNOR TOMELLI.

Mettete per le cinque di sera.

In casa Tomelli c'era ricevimento tutte le sere di venerdì. Per divertire meglio i bambini e fare le cose un po' per bene, egli aveva già pensato di organizzare una specie di garden-party o five-o-clock per gl'intimi amici dei ricevimenti serali, e ne aveva già discorso colla sua signora; volevano insomma preparare una sorpresa anche ai figliuoli e ai loro compagni di chiasso.

 

IL SIGNOR TOMELLI.

Intanto venite su dalla mamma.

Pinuccio e Lora si aggrapparono alle mani del babbo, uno a destra, l'altra a sinistra; gli altri li seguivano ridendo, spingendosi, picchiando i piedi. Soltanto Leo non era allegro; pensava:

— Sarebbe stato meglio se avessimo fatto tutto da noi.

Gli pareva che l'intervento del babbo e della mamma diminuisse il valore della sua trovata.


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