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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I.
Ragioniamone poichè ne ragionano tanti altri.
Dunque il romanzo moderno è malato, e i dottori che si affollano attorno al suo letto, e fanno la diagnosi del male da cui è abbattuto e che ne minaccia l'esistenza, non ci sanno ancora dir niente di chiaro su la soluzione della crisi.
A dar retta alla gente, questo povero romanzo moderno è una creatura infermiccia, o uno di quegli organismi facili a prendere ogni malattia. Dev'essere però anche un organismo molto resistente, se di tratto in tratto sentiamo dire che ha lasciato il letto, che sta benissimo e che va pel mondo vispo e allegro, roseo e ringiovanito, quasi non fosse mai stato malato in vita sua.
Tempo fa aveva avuto un accesso di romanticismo; febbre a quaranta gradi, allucinazioni, delirio!
- È bello e ito! Se gli si potrà somministrare una buona dose di naturalismo e di sperimentalismo, forse, chi sa!...
E quella specie di chinino infatti fece il miracolo.
Il malato non solamente si rimise in salute, ma ingrassò tanto che non sembrava più lui. Qualcosa però gli si era guastato nel cervello; da bravo figliuolo, onesto, morigerato e col timore di Dio, che era prima era diventato assiduo frequentatore di bettole e di donnacce; sbraitava canzoni oscene, e nelle conversazioni si lasciava scappare di bocca sconcezze di ogni sorta, senza badare alle ragazze e ai bambini che si trovavano presenti. Alla fine, bevi, bevi, una sbornia oggi, un'altra domani, rieccolo all'ospedale, col delirium tremens!
- Ben gli stia! - diceva la gente pulita. - Lasciatelo morire; meglio per lui e per noi.
I dottori intanto volevano sperimentare non so qual nuovo rimedio trovato allora allora dalla scienza; tentare non nuoce, specialmente quando il male è assai grave; e tentarono. Iniezioni sottocutanee di psicologismo in tutte le parti del corpo: non gli rimase un centimetro di pelle intatta dalle punture della siringa Pravaz. E il delirium tremens fu vinto.
Il malato uscì dall'ospedale, riprese le sue faccende; ma era così mutato di carattere da riconoscersi a stento. Non più canzoni oscene, non più bettole, non più donnacce; aveva un sacro orrore del vino e delle bibite alcooliche; mostrava un'eccessiva affettazione di vestir bene, di frequentare l'alta società, misurato nei gesti, gentilissimo nelle maniere, e un po' ammalinconito. Per cose da nulla si scrutava dentro, faceva lunghi esami di coscienza; voleva indagare il perchè di ogni suo sentimento, di ogni suo atto, e farlo sapere a tutti, con cert'aria dottorale che spingeva la gente a guardarlo in viso. Dapprima, la novità di vederlo trasformato in quel modo lo aveva reso interessante; ma, a lungo andare, quei suoi sproloqui, quelle sue divagazioni divennero insopportabili. Non era cosa naturale. Si capì che il rimedio lo aveva guarito, sì, del delirium tremens, ma gli aveva inoculato un male peggiore.
Se non era stato molto divertente con le sue sconcezze e con le sue sbornie, con la prosopopea psicologica era mortale addirittura. E poi, gonfiava, gonfiava, quasi la siringa Pravaz, assieme col psicologismo, gli avesse introdotto sotto la pelle molt'aria. Dovevano vederselo, un giorno o l'altro, crepare davanti agli occhi come una vescica troppo tesa? E lo ricondussero all'ospedale.
Ed è lì ancora, non dico tra la vita e la morte, ma seriamente malato. I dottori, se sono concordi intorno alla diagnosi dell'attuale malattia, non vanno punto di accordo intorno al rimedio da somministrare. Chi propone una cura ricostituente di idealismo o di neo-cattolicismo; chi sciroppi di simbolismo e anche di lirismo. Speriamo che s'intendano finalmente tra loro, e che non accada quel che dice il proverbio: Mentre i medici si accapigliano, il malato muore.
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Una relazione, molto accurata e molto ben fatta, delle varie malattie del romanzo moderno ho letto in questi giorni in una promettente rivista napoletana8; la conchiusione è questa:
"Dal crudo naturalismo, che già pare definitivamente abbandonato e dall'idealismo assoluto, contro cui si ribella la coscienza scientifica dei nostri tempi, pare che l'arte disorientata e pur imperiosamente necessaria alla vita moderna, si raccolga in un'atmosfera di superiorità aristocratica. Già in tutta l'arte contemporanea si osserva la tendenza ad una obbiettivazione sempre crescente dei suoi fini; non forse dal sentimento che l'arte debba essere la cultura di ogni elemento di bellezza, debba prolungare l'intima necessità del sogno, deriva tutta la fortuna di cui gode presentemente la musica e la poesia che ha temperate le ali dei ritmi a delle idee musicali?
"E così quando un artista vorrà narrare agli umani, ad alleviare in loro la stanchezza della vita vissuta, qualche superbo suo sogno, scriverà un'opera dove tutte le essenze della bellezza saranno rivelate ad occhi mortali, e vi palpiterà dentro l'eco di un mondo affascinante, e ne sorgeranno in uno splendore di aurora imagini di forza, di grazia, di armonia.
"Questo sarà il romanzo dell'avvenire: un poema che si servirà d'una prosa più nitida del marmo, più fluente di qualunque regale corrente di acqua, più complessa e più varia dei cieli notturni. Aspettiamone l'evento."
Aspettiamo pure. Intanto, poichè il malato non ci sente, discutiamo del suo male.
Ho un'idea un po' stramba e la voglio dire.
Io credo che il preteso malato sia uno di quegli organismi così bene impostati da poter campar cento anni.
Ha un difetto: dà troppo retta ai consigli dei medici e si rovina la salute.
Quando i dottori credono che egli abbia la febbre tifoidea del romanticismo, prendono un abbaglio; scambiano per tifoidea una semplice febbricciuola di crescenza, e rischiano di ammazzarlo con le loro grosse dosi di naturalismo e di sperimentalismo.
Ingrassa, alza il gomito fuor di misura, si perde dietro le donnacce, parla sboccato? Dio mio! C'è da meravigliarsene? Bisogna pure che la giovinezza si scapricci e si sfoghi; non si è mai savii a venti anni. Che delirium tremens ci andate contando! Qualche scossettina di nervi; eh, via! Passerà. Le persone ragionevoli avrebbero detto così; ma fate capir questo ai dottori!
- Psicologismo ci vuole! Serietà! Non siamo per niente nel secolo della scienza positiva!
Ed ecco come l'hanno conciato, povero diavolo!
Ebbene: se lo lasciassimo stare un po' tranquillo? Se gli permettessimo di seguire liberamente gli impulsi del suo istinto, della sua natura? Se invece di parlargli di ricostituenti idealisti o neo-cattolici, di sciroppi simbolistico-lirici, ci risolvessimo a dirgli:
- Su, caro amico, vivi, agisci come ti pare e piace; mangia quel che meglio ti garba, quel che più si confà col tuo stomaco, e non dar ascolto a nessuno? Scommetto che il povero romanzo contemporaneo non farebbe più guadagnare neppure un soldo ai medici e agli speziali, e andrebbe attorno sano, bello, vigoroso come madre natura lo ha creato, con gran piacere di lui e di tutti noialtri.
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Smettiamo il parlar figurato, ragioniamo seriamente.
Che ha da spartire il romanzo con la filosofia, con la scienza, con la religione? Dopo la mala prova del romanzo sperimentale escogitato dallo Zola, avremmo dovuto capirlo.
Già io non credo che lo stesso Zola abbia mai preso sul serio la sua ricetta. Aveva bisogno di un motto, di una bandiera per mettere in vista l'opera sua; e, trovatasi tra le mani la Scienza sperimentale di Claudio Bernard, visto l'esempio del Taine che adattava, forzandoli un po', i criterii delle scienze naturali alle belle arti e alla letteratura, immaginatosi che un romanzo opera di arte e di scienza sarebbe stato certamente una bella novità, imbastì in fretta e in furia la teoria del romanzo sperimentale e la predicò ai quattro venti.
La novità c'era, senza dubbio, ma non era precisamente quella da lui bandita; non consisteva nel dimostrare per mezzo della finzione artistica un principio scientifico, ma piuttosto nell'assimilarsi il metodo di osservazione, dentro i limiti, s'intende, consentiti dall'indole e dalla natura dell'opera d'arte; anzi la precisa novità si riduceva alla coscienza più chiara, più categorica, del dovere dell'artista di dare al suo lavoro un fondamento di osservazione diretta e nel lasciare ai fatti, ai caratteri, alle passioni la loro piena libertà di azione, senza mescolarvi i suoi particolari criterii: insomma nell'imitare proprio la natura, che mette al mondo le creature e le abbandona a sè stesse e al giudizio della società.
Tale cosa era avvenuta, da un bel pezzo, nel teatro; lo Shakespeare aveva praticato quel metodo in modo supremo.
Si trattava in fine di metterlo in pratica anche nel romanzo. Non era facile. Occorreva un genio per lo meno uguale a quello del gran tragico inglese, istintivo, incosciente come lui; e la Natura non si era trovata, chi sa perchè, in caso di crearlo. Ma un'opera di arte ha più genio di tutti gli artisti presi insieme; e il romanzo, visto che il suo uomo tardava a comparire, si è risoluto a tentare parecchie prove parziali, più meno estese, più o meno riuscite, pur di raggiungere, in un modo o in un altro, il perfezionamento del suo organismo. E l'ha raggiunto.
Una cosa però è il romanzo, e un'altra i romanzieri; non dobbiamo confonderli. E non si deve credere che l'organismo di un'opera di arte sia qualcosa di astratto, perchè ha bisogno, per manifestarsi, di particolari incarnazioni nelle particolari opere di questo o di quell'artista. Niente di più reale di questa creduta astrattezza che dà forma e realtà a migliaia di opere di arte, le quali rappresentano, come direbbero i metafisici, tutte le possibità di essa, e avranno ancora molto da fare prima di giungere ad esaurirle.
I romanzieri naturalisti o sperimentalisti che si vogliano dire, mettevano in atto, esagerandola, come accade sempre, una di queste possibilità, e anche svisandola. Un'opera di pensiero - giacchè la immaginazione è una forma inferiore del pensiero - non può non risentire le influenze dell'ambiente in cui viene alla luce. Correvano i bei tempi del naturalismo scientifico, del positivismo, e sarebbe stato assurdo pretendere che i romanzieri potessero fare a meno di servire ai loro lettori pietanze materialiste e positiviste. Ma lo sbaglio lo commetteva loro, non il Romanzo. Il Romanzo li lasciava fare perchè ci aveva il suo tornaconto. I romanzieri confondevano il concetto materialista col metodo positivo: e intanto che essi commettevano l'imbroglio, il Romanzo però si serviva anche del metodo, lo metteva in evidenza, lo faceva insensibilmente penetrare nella loro coscienza; ed essi, non accorgendosi del tiro che veniva lor fatto, continuavano a ciarlare a tutto spiano di naturalismo di positivismo, di verismo, di sperimentalismo e simili teoriche, le quali hanno poco o niente che vedere con l'arte.
In un certo paese di questo mondo, la questione è stata capita dirittamente; i novellieri e i romanzieri di quel paese non hanno infatti parlato di naturalismo o di sperimentalismo; e poichè pareva occorresse che mettessero fuori una bandiera anche loro, per avere un segno attorno a cui raccogliersi durante la mischia, inalberarono il vessillo del verismo, il quale accennava particolarmente più al metodo che non alla materia di cui l'arte loro si serviva.
E in quel tale paese c'è stato qualcuno che ha applicato il metodo con rigore straordinario, raggiungendo quasi di primo acchito il limite oltre il quale l'opera d'arte, se imprudentemente vi si avventura, perde la sua caratteristica, diventa qualcosa di ibrido, d'infecondo, e corre pericolo di rimetterci la pelle.
Ma di quel povero paese e di quel tale qualcuno io non voglio neppur fiatare, per paura di sentir dire che voglio vantare i tagliatelli di famiglia.
E poi, non è passata in cosa giudicata che la letteratura narrativa italiana non conta niente? Siamo noi stessi i primi a proclamarlo dai tetti; e il voler ora insinuare che essa abbia qualche valore può sembrare aberrazione. Zitti, dunque!
Il povero romanzo contemporaneo vorrebbe comportarsi da indifferente con tutte le materie d'arte, materialismo, psicologia, idealismo, misticismo, neocattolicismo; ma inutilmente egli grida: - Sono Romanzo e tale voglio restare, unicamente romanzo, unicamente opera d'arte! - Nessuno gli bada.
Il bello poi è che i critici e il pubblico se la prendono con lui; quasi che il colpevole sia proprio lui e non i romanzieri mezzi artisti e mezzi scienziati, esseri neutri che non appartengono per ciò nè alla scienza nè all'arte; quasi che i critici non abbiano contribuito e non contribuiscano ogni giorno, dal canto loro, a ingarbugliare la matassa, a confondere i critici degli artisti e del pubblico.
Il Romanzo non c'entra per niente in questa baraonda. Egli non vorrebbe far altro che cavar fuori creature vive da qualunque materia; metterle al mondo con la stessa varietà, con la stessa prodigalità della Natura, ma superiori a quelle della Natura, perchè non soggette alla schiavitù delle contingenze e alla fatalità della morte. Qualunque sia lo stato sociale, quali che siano i sentimenti, le passioni, le opinioni politiche, le credenze religiose, le convinzioni scientifiche dei personaggi, il Romanzo vorrebbe riprodurre non il meccanismo ma proprio la funzione normale o anormale di quegli elementi così disparati, nel loro cuore, nella loro mente e quindi nei loro atti e nella complicazione di questi...
Ma forse lo lasciano liberamente agire?
E in questa opera d'impedire al povero Romanzo ogni naturale movimento, critica e pubblico sono così accecati, da non capire neppure gli scherzi che il Romanzo si permette, allucinandoli di tanto in tanto, facendoli andare in visibilio dietro apparenze di nuove forme, come è accaduto ultimamente coi romanzi russi.