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II.
Bisogna innanzi tutto metter fuori di causa il publico, come dicono i legali. Egli legge, riceve impressioni, e non discute; o, se discute, ragiona senza sofistiche sottigliezze di scuole e di metodi, e sopratutto non confonde mai, o raramente, il concetto con la forma. Ne abbiamo uno stupendo esempio in Italia.
Nel più bel tempo della nostra letteratura politica, quando la lirica, la drammatica, il romanzo erano avvisaglie, scaramucce, battaglie contro la dominazione straniera e l'influenza clericale, appaiono inattesamente i Promessi Sposi. Il pubblico non si cura dei lombardismi, nè del concetto di rassegnazione cristiana che i critici vi scoprono; gli basta l'opera d'arte e lascia dire. Il Manzoni risciacqua in Arno la sua prosa; i critici, chi lo loda, chi gli rimprovera di aver guastato lo stile del suo romanzo: il pubblico gusta di più in più l'opera d'arte, e lascia dire. Viene il Settembrini e scomunica i Promessi Sposi come lavoro reazionario, appunto quando si gridava da ogni parte: O Roma, o morte! Per ammazzare qualunque altro romanzo, ci sarebbe voluto meno assai. Il pubblico sorride alla tirata dell'onesto patriotta, e continua a leggere i Promessi Sposi e ad ammirarli sempre più.
E quando un altro professore avea messo in un mazzo il Guerrazzi e il P. Bresciani, cioè il diavolo e l'acquasanta, il pubblico non si era scandalizzato e gli avea dato ragione. Gliela aveva anzi data anticipatamente, cominciando a lasciar da parte le Battaglie di Benevento, gli Assedii di Firenze, le Beatrici Cenci come armi già inservibili, da riporre nei musei per gli storici e per gli archeologi dell'avvenire.
Mettiamo dunque fuori di causa il pubblico.
Ecco là un francese, critico di professione, che vuole spiegarsi il fenomeno dell'entusiasmo prodotto in Europa dai romanzi russi.
Quel critico è un ingegno sottile, e conosce benissimo la letteratura romanzesca del suo paese. Infatti egli scorge subito che le crisi di coscienza, le lotte dell'anima per affrancarsi dall'oppressione dei pregiudizi e delle convenzioni sociali sono concetti di antica data: tutta la produzione francese della metà di questo secolo n'è riboccante, dall'Hugo e dalla Sand al Balzac, al Flaubert e allo Zola. Egli crede per ciò, e mi servo delle parole della relazione citata, "che tutto il patrimonio di sentimenti e d'idee, di cui i romanzieri russi han dato per così dire la rifazione in una forma nuova, passando per più vergini spiriti, arricchitosi di quelle speciali visioni e concezioni che ogni razza porta nella vita e nella storia, è parso un mondo affatto originale e diverso da ogni altro".
Ho sottolineato io le parole: forma nuova per notare che il critico si è ingannato. Neppur quella forma è nuova: o meglio non era più così nuova, come egli immagina, al tempo della sua prima rivelazione all'Europa. I romanzieri russi, quei due o tre romanzieri russi che sono davvero grandi artisti, avevano soltanto fatto sviluppare, per istinto più che per riflessione, il germe della impersonalità artistica, che è la più alta conquista del romanzo contemporaneo, il compimento assoluto del suo organismo. Necessità naturale, se mentre i romanzieri russi la mettevano in pratica senza anticipatamente discuterla, veniva discussa e messa in pratica nello stesso tempo in altri paesi di Europa e in Francia specialmente, quantunque per via indiretta, cioè col pretesto di voler ridurre il romanzo a una specie di succursale della scienza.
Il clamoroso successo dei romanzi russi non è provenuto soltanto dai concetti di crisi di coscienza, di lotte dell'anima, o dalle speciali visioni della razza dei loro autori, ma dal rigoroso metodo di osservazione e dalla straordinaria sincerità con cui era adoperato. Tanto è vero che, passata la prima impressione prodotta dall'esoticismo, le opere di quei due o tre romanzieri non hanno perduto niente, son rimasti dei capolavori. Per la stessa ragione tutta la fungaia degli altri romanzieri russi rivelata dopo è rimasta in seconda, in terza linea, anche in Francia, non ostante che la politica si sia mescolata un poco all'entusiasmo letterario. E per la stessa ragione le imitazioni, i rifacimenti, i riporti in diverso ambiente di quei concetti e di quei sentimenti non hanno attecchito. A questi altri romanzieri russi e agli imitatori manca la genialità, manca la coscienza della forma; non sono veri artisti, non sono sinceri. Il Gogol, il Tolstoi, il Dostojewscki concepivano anime e corpi russi, creature vive, e non si curavano di altro. I loro concetti, i loro sentimenti non riuscivano a manifestarsi senza la solidità della forma. Il giorno che uno di loro, il Tolstoi, preso da aberrazione religioso-umanitaria, non ha più creduto sufficiente quella forma per esprimere il suo pensiero, ha rinunciato al romanzo; ed ha fatto bene. Tutti coloro che vogliono esprimere puramente un concetto dovrebbero imitarlo; facciano dei trattati, delle conferenze, degli opuscoli, delle prediche magari, ma non si servano del romanzo. La forma, cioè la creatura viva, è assai più complessa del pensiero astratto. È del tal luogo, del tal tempo; ha troppe relazioni di eredità, di parentela, di condizioni politiche e sociali; troppe fatalità di vizii, di virtù, di passioni da poter essere l'espressione limpida e chiara di un concetto astratto. E quando quella creatura viva si è impossessata dell'immaginazione dell'artista non si lascia più guidare o comandare; lei comanda e guida, lei agita, sconvolge, imbroglia e scioglie a modo suo gli avvenimenti, senza che l'artista possa disubbidirle, se non vuole venir meno al suo dovere e cessare di esser tale.
Ora, se un critico fine e arguto come il Lemaitre non ha veduto chiaramente questo, è assurdo pretendere che abbia a vederlo il pubblico che non fa il mestiere di lui e dei suoi colleghi, e non ha obbligo di farlo. Sono anzi costoro che gl'imbrogliano il cervello, classificando, distinguendo, creando specie e sottospecie, generi e sotto-generi di romanzo, secondo i concetti più o meno abilmente trovati e messi in voga dai cercatori di novità, dai propugnatori di tesi.
Classificando a questo modo, si può andare all'infinito; e si capisce come un critico, quello prima citato, trovi da far le meraviglie per l'affermazione del Verga, che si possa scrivere un romanzo mistico con9 una forma naturalistica. Tutt'al più, egli avrebbe potuto dire che il Verga non è stato preciso, e che invece di naturalistica avrebbe dovuto dire meglio: impersonale. Intendeva appunto dir questo: e forse l'accusa d'imprecisione è una meticolosità. Il Verga, che come artista sa il fatto suo, capisce benissimo che un romanziere ha l'obbligo di dimenticare, di obliterare sè stesso, di vivere la vita dei suoi personaggi. E se tra essi c'è un mistico, il romanziere deve sentire e pensare come lui, non ironicamente, non criticamente, ma con perfetta obbiettività, lasciando responsabile il personaggio di tutto quel che sente e pensa. In questo senso il romanziere non deve avere nessuna morale, nessuna religione, nessuna politica sua particolare, ma penetrarle e intenderle tutte, spassionatamente, almeno per quanto è possibile. Con questo mezzo soltanto egli potrà mettere al mondo non fantocci, non manichini vestiti con una o con un'altra foggia, atteggiati in una o altra maniera, ma creature libere, viventi nella elevata serenità dell'atmosfera artistica, veramente ideali, cioè veramente conformi all'idea. Con questo mezzo soltanto egli non dovrà stillarsi il cervello a proporsi tesi e risolverle, che è quanto dire tentar di fare opera vana a cui non basta la stessa scienza; può risolvere casi parziali, perchè ogni individuo è un mondo a parte, la qual cosa significa tutt'altro che risolvere una tesi.
I romanzieri di nascita, i vari artisti hanno istintivamente orrore della tesi. Niente è più mutabile del punto di vista da cui il pensiero umano, progredendo, guarda una tesi. La pretesa soluzione di oggi diventerà ridicola o assurda domani. Far dipendere la vitalità dell'opera d'arte dal valore problematico di una tesi è introdurre nell'organismo di quella un elemento di corruzione e di morte. Giacchè la tesi è astrattezza, e per risolverla l'artista dovrà forzare, falsare la realtà, adattare caratteri, passioni, avvenimenti a uno scopo prestabilito, fare insomma opera artificiale o artifiziosa, il rovescio di un'opera d'arte.
I lavori d'arte di questo genere, quando sono produzione di un uomo d'ingegno, possono abbagliare per un po' di tempo, fare qualche rumore, ma alla fine svaniscono come ombre e non lasciano rimpianti. Potranno qualche volta interessare il psicologo, il psichiatra, e anche i curiosi di stranezze simili a quelle dei decadenti neo-cristiani.
Il nostro critico giudica così questi neo-cristiani: "Dove trovare in costoro il sincero sentimento del cristianesimo che rappresentò lo spostamento dell'ideale umano da qualche cosa d'insito alla vita stessa in un mondo ultra sensibile? Che vuoto quindi in questa tendenza letteraria! Il disfacimento dei suoi ideali si può constatare nell'Huysmans, uno dei più nuovi suoi rappresentanti. Nel suo romanzo En route, in cui è descritta la crisi di un'anima che si rifugia dalle insidie e dalle suggestioni del mondo entro la fede dei padri, non si scorge la vittoria di questa nuova direzione contro la quale tutte le facoltà umane, passionali, carnali del protagonista si ribellano con una violenza inaudita; e si può dire che quel misticismo vi rappresenti un dilettevole esercizio retorico, una novità da réclame."
E il critico ha ragione per questa ultima parte: ha torto, chiedendo la vittoria della nuova direzione. Non avrebbe dovuto chiedere altro all'infuori della più grande sincerità possibile nello studio di quel caso particolare.
Ed esprimendo il voto, l'augurio per la forma futura del romanzo, egli non avrebbe dovuto accumulare, nelle poche righe citate da principio, tante astrattezze e contraddizioni che sono infallibile indizio della nebulosità e della inconsistenza del suo concetto. Chiamiamo pure superbo sogno il futuro romanzo. Ogni opera d'arte, su per giù, è un sogno ad occhi aperti; e, se si vuole, chiamiamolo anche simbolo, perchè ogni opera d'arte non è la realtà ordinaria, ma la realtà immaginata, lavorata dalla fantasia, purificata, idealizzata. Ricordiamoci però che i vocaboli hanno un significato ben definito, e che l'adoperarli senza le dovute cautele può condurci a conseguenze funeste.
Il simbolo è opera d'arte primitiva. In esso il concetto, per speciali condizioni, non ha avuto tempo di condensarsi compiutamente nella forma; è rimasto trasparente; o, per condizioni ancora più speciali, si è prestato a divenire trasparente senza sua colpa.
Prendiamo per esempio il mito di Psiche. Nella narrazione di Apuleio, Psiche non è ancora l'Anima, è una fanciulla come tutte le altre. La riflessione se ne è impossessata e ne ha cavato fuori qualcosa che poteva esserci o poteva benissimo adattarvisi; e da allora in poi, la forma, già inizialmente condensata, si è venuta sempre più sempre più assottigliando. La fanciulla di Apuleio infatti è divenuta un'astrazione nel poema del Laprade, cioè lo Spirito umano, che per la sua curiosità e per la sua smania dell'ignoto, viaggia attraverso la civiltà, a traverso le religioni, e si adagia finalmente in un panteismo indefinito. Pare un progresso ed è una decadenza. Non c'è più la semplice creatura, nè il suo concetto; a traverso la creatura scorgiamo il concetto, e quel po' che rimane della creatura sminuisce il concetto.
Prendiamo Prometeo. È dapprima un uomo, o un semideo. Nella trilogia eschiliana è una specie di gigante profeta. La riflessione vi ha lavorato attorno ed è già divenuto il pensiero umano in lotta con la potenza teocratica, con Dio stesso; nè l'essere stato quasi confuso con Satana è la minore delle sventure che siano capitate a quella creazione primitiva. Primitiva fino a un certo punto, poichè le concezioni jeratiche non possono dirsi proprio primitive.
In ogni modo il simbolo è creazione ibrida. Non è assolutamente opera d'immaginazione, nè assolutamente opera di riflessione. Noi abbiamo varcato questo punto intermedio; abbiamo dato all'opera d'arte la sua completa libertà, il suo perfetto organismo. Voler tentare un'opera d'arte dove l'immaginazione deve per forza creare esseri ibridi, è impresa di persone che sconoscono la natura dell'opera d'arte.
Se intendiamo dire con questo che l'opera d'arte ha terminato la sua funzione, diciamolo pure; ma io non so se diremo una verità. Certe quistioni bisogna lasciarle distrigare all'avvenire.
Restringiamoci al romanzo, che non è poi l'opera d'arte assoluta. Sarà un superbo sogno, dice dunque il nostro critico. E sia. Ma perchè dovrà vestirsi di una prosa più nitida del marmo? Più fluente di qualunque reale corrente di acqua? Più complessa e più varia dei cieli notturni? Io confesso di non arrivare a intendere queste belle metafore.
Il romanzo, probabilmente, superbo o umile sogno, se vorrà e potrà rimanere romanzo, avrà la prosa che più converrà al suo soggetto. Questa prosa non esisterà per sè stessa, ma pel soggetto; e sarà tale da non potersi affatto scindere da esso. Sarà forma nata in un parto con lui; sarà anzi talmente lui, da impedire che si possa fare distinzione fra essa e lui.
Il romanzo, probabilmente, se vorrà e potrà rimanere romanzo, non si metterà a servizio di questa o quell'idea, di questo o quel sistema; continuerà a sviluppare il suo organismo adoperando sempre meglio il metodo impersonale, divenendo sempre più nazionale, anzi sempre più regionale, per dare alle sue creazioni la stessa varietà e ricchezza delle creazioni della Natura.
E allora non si parlerà più di crisi nè di malattie ma di pienezza di salute; e i suoi medici potranno andare a riporsi, e i suoi speziali chiudere bottega.
Tanto, è inutile; neppur volendo, giungeremo ad ammazzarlo con le discussioni e gli intrugli critici. Ha la pelle dura il nostro amico. E quando sarà pieno di anni - è giovanissimo ancora - chi sa che sorpresa sarà capace di farci?
Io ne ho un vago sospetto, e un giorno o l'altro forse lo confiderò in un orecchio ai miei buoni lettori. Se mi ingannerò, peggio per me. Infine ho detto sospetto; non ho la pretensione di voler fare il profeta.