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I.
Un'opera d'arte è un problema di rapporti numerici di cui la scienza comincia già a intravedere la soluzione. Gli elementi che la compongono si aggregano nella fantasia dell'artista per l'affinità elettiva che è in tutte le cose della natura, materiali o spirituali. Si aggregano non è la parola propria; bisogna dire: si organano. Attorno a una prima quasi impercettibile sensazione comincia spontanea la fermentazione creativa, l'assimilazione, lo sviluppo, precisamente come per gli esseri viventi; e quella sensazione, al pari della cellula iniziale, domina l'intero processo, stabilisce quasi a priori la natura, il carattere, l'individualità più o meno notevole di un'opera d'arte.
Gabriele D'Annunzio è sotto il fascino dei grandi romanzieri russi, Tolstoi e Dostoïevsky. I suoi recenti lavori, Giovanni Episcopo e l'Innocente si risentono di quel fascino. C'è tanto e tanto però da ammirare in essi, che lo studiare come e fin dove l'influsso di quei romanzieri abbia ora aiutato ora mortificato (più mortificato che aiutato) le originali qualità dell'ingegno del D'Annunzio, sarà una non comune maniera di rendere omaggio all'artista valoroso, ancora in lotta con sè stesso e con le impressioni delle creazioni altrui, e forse (non paia superbia l'accennarlo) uno spingerlo verso la fine della sua ben avviata rinnovazione.
Dico questo perchè il D'Annunzio non sembra avere precisa coscienza di quel che avviene dentro di lui da qualche anno in qua. Nè c'è da meravigliarsene; la coscienza critica è una cosa molto diversa della coscienza artistica. Egli confessa infatti il proprio disgusto di tutta la sua opera passata, che chiama vacua e falsa; e subito soggiunge che non sente "ancora in sè l'agitazione dell'opera futura nè la coscienza del nuovo potere." Questo è già molto per un ingegno come il suo così riccamente dotato dalla natura.
A proposito del Giovanni Episcopo, scrive: "La persona del protagonista era stata da me osservata e studiata con intensa curiosità due anni innanzi...... Ma il raro materiale raccolto con la possibile esattezza era rimasto grezzo in alcune pagine di note. Una sera di gennaio, sfogliando quelle note in un attimo, come nel bagliore di un lampo, vidi la figura dell'uomo; non la figura corporea soltanto, ma quella morale, per non so qual comprensiva intuizione che non mi parve promossa soltanto dal risveglio repentino d'uno strato della memoria, ma dal segreto concorso di elementi psichici non riconoscibili ad alcun lume di analisi immediata. (Sottolineo io queste parole.) Mai avevo assistito a un più alto e più spontaneo miracolo dell'intelligenza, alla perfetta riconstituzione d'un essere vitale nello spirito d'un artefice repentinamente invaso dalla forza creatrice."
Ingenuo stupore di fronte a un fenomeno così naturale e così ovvio, come altrettanto ingenua risulta la formola che egli ne ricava: Bisogna studiare gli uomini e le cose direttamente, senza trasposizione alcuna.
Il suo Giovanni Episcopo e l'Innocente serviranno a dimostrare che l'osservazione diretta può avere, anzi ha certamente un gran valore scientifico, ma che in fatto d'arte è di un'utilità molto dubbia. L'opera d'arte è forma vivente. Le note, le osservazioni, l'analisi accumulate non bastano per loro stesse a produrla. Quel materiale disgregato e sminuzzolato dev'essere invaso dalla scintilla creatrice della forma che agisce casualmente, inconsapevolmente, misteriosamente, senza che mai a l'artista riesca di dirigerla a piacere.
Le note, le osservazioni possono spesso venir raccolte in occasioni, in tempi e luoghi diversi, con nessun preconcetto di servirsene per un determinato lavoro; e il vedere poi in che modo esse si siano fuse, messe a posto, e abbiano preso talvolta enorme sviluppo, e si siano rimpicciolite tal'altra, adattandosi mirabilmente alle armoniche necessità della forma, non è il minore dei piaceri con cui l'artista vien compensato dei duri travagli della propria creazione.
La facoltà della forma è innata; nessuno studio, nessuna volontà umana può darcela. Non intendo dire con questo che tale facoltà non abbia bisogno di educazione; questa stessa educazione ha però qualcosa d'istintivo, di libero, e mette la sua impronta di originalità anche nelle forme artistiche più perfezionate. Per ciò noi, a traverso le diverse opere d'un autore o di diversi autori, possiamo seguire il cammino d'un genere e notarne il processo di sviluppo; per ciò possiamo scorgerne i parziali tentativi, i brancolamenti, le incertezze, fino al compiuto organamento nel capolavoro d'uno scrittore.
Gli elementi che concorrono all'educazione della facoltà artistica non sono soltanto elementi d'arte, cioè d'immaginazione, ma di riflessione: e questi possono benissimo prendere qualche volta il sopravvento e nuocere all'azione di quegli altri. È il caso che si osserva presentemente in Gabriele D'Annunzio; lo studiarlo con attenzione può giovare a tutti quanti corriamo dietro il luminoso fantasma del romanzo moderno.
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Da un lustro in qua, l'avvenimento artistico più notevole è senza dubbio l'invasione del romanzo russo nella letteratura dei popoli latino-germanici. Mi sembra sciocco chiedere alla politica una facile spiegazione di questo fatto. Il romanzo russo ha per sè stesso tanto valore, da dispensarci di cercare fuori delle sue elevate qualità la ragione del suo gran successo. Suo merito principale è la straordinaria sincerità.
Essa, unita al sapore esotico dei sentimenti, spiega a bastanza la fortuna delle opere del Tolstoi e del Dostoïevsky, gli ultimi venuti e i più poderosi. Alcune righe del Dostoïevsky ci daranno la chiave di questo affascinante nuovo mondo: "Il russo - egli dice in Delitto e Gastigo - è vasto come la sua patria, terribilmente inclinato a tutto quel che è fantastico e disordinato. Grande sventura esser vasto senza un genio particolare!"
Per ciò le creazioni dei romanzieri russi hanno una forte attrattiva per noi. Vi troviamo anime cupe, tormentate da bisogni ideali; caratteri rozzi e potenti, che operano con egual forza il bene e il male; volontà indomite, cuori assetati da strana sentimentalità di soffrire. Esaminati attentamente, tutti quei personaggi non ci sembrano in uno stato normale; qualcosa si è rotto nel loro cervello o non funziona bene. Sono tutti, o quasi tutti, nevrotici esaltati, gente da consegnarsi nelle mani dello Charcot e del Lombroso; persone che piangono volentieri, perchè i loro occhi sono abituati alle lagrime (Dostoïevsky); cuori ai quali ripugnano tutte le ingiustizie sociali che non trovano spiegazione nel loro troppo semplice cervello; anime che sembra si sveglino ora al tumulto del mondo e ne rimangano sbalordite.
Il nostro scetticismo, la nostra corruzione si sentono scossi al loro contatto. Ma non possiamo compenetrarci con loro; differiscono troppo da noi. Il pessimismo stesso che pervade la nuova società latino-germanica è affatto diverso dal pessimismo slavo. Nel nostro ha parte maggiore la riflessione; in quello il sentimento. Inoltre per gli scrittori russi l'opera d'arte non è soltanto opera d'arte, ma di propaganda politica, religiosa, morale, adattata alle circostanze e ai bisogni della loro nazione. Per noi l'opera d'arte è già diventata qualcosa d'indipendente, di meno appassionata, più vicina alla scienza, se si vuole, e quindi più serena; come nella forma è più concentrata, più limpida, più armonica essendo passata a traverso il classicismo greco e latino. Tentando di infondere nell'arte nostra la conturbata sentimentalità russa, noi facciamo opera stolta per più ragioni. Le togliamo il suo carattere, le impediamo di essere lo specchio della nostra società, ne facciamo un lavoro di riflessi, un non senso. E questo, che è grave errore pei tedeschi, gravissimo pei francesi, diventa enorme per noi italiani che non ci siamo ancora assimilati tutti gli elementi nuovi di una civiltà altrove più progredita e che dobbiamo assimilarceli perchè consentanei all'indole della nostra razza, senza perder niente della nostra schietta individualità, che chiamerò romana per farmi intendere meglio.
Il D'Annunzio, per inclinazioni particolari del suo ingegno fine, propenso a sensualità e a passionalità quasi alessandrine, era esposto più d'ogni altro fra noi al pericolo di lasciarsi sedurre dalle qualità del romanzo russo; e vi si è infatti abbandonato, trasmodando. Nel Giovanni Episcopo c'è quasi una ebbrezza del nevrotismo russo, un'incoscienza che non è senza seduzioni, e nelle quali egli fonde così le proprie qualità originali con le qualità altrui, del Dostoïevsky precisamente, che farebbero mal augurare del giovane romanziere italiano, se non fosse venuto fuori l'Innocente a tranquillarci e a consolarci.
Nel Giovanni Episcopo non gli son valse a niente le note raccolte con la maggiore possibile accuratezza. Lo spirito artistico che ha incubato quel materiale non è il suo. Il fatto è dovuto accadergli in un momento di grave conturbazione della facoltà creatrice. Egli non si è nemmeno accorto di ricordarsi, piuttosto che di infondere il suo soffio vitale al personaggio. Se avessi sotto mano quelle note, colui che egli ha battezzato per Giovanni Episcopo e che dice essere stato conosciuto dal suo amico Angelo Conti per la prima volta nel gabinetto d'un medico all'ospedale di San Giacomo; colui ch'egli ha studiato assieme col Conti e col pittore Marius De Maria in una mortuaria taverna di via Alessandrina, dove quegli andava ad annegare nel vino i dolori e le umiliazioni domestiche, oh quanto facilmente potrei dimostrarlo diverso dal personaggio adombrato dall'arte che l'influenza russa ha sofisticata! E questa verità come trasparisce dalle parti del lavoro in cui la rappresentazione della realtà è riuscita, per naturale impulso sincera, per esempio in quelle pagine che descrivono la pensione dove serve Ginevra, e l'episodio di Tivoli dove si decide il destino del povero Episcopo! Pagine ammirabili per trasparenza di forma, per colorito, per evidenza, pagine veramente sue e veramente italiane.
Ma in quella notte malaugurata di gennaio, l'artista lasciò abbagliarsi da un quasi inesplicabile miraggio, inesplicabile per chi conosce le squisite e preziose qualità del suo ingegno. Egli credette di vedersi vivo e parlante davanti gli occhi lo strano personaggio studiato, e l'allucinazione fu così forte da non fargli scorgere che quel Giovanni Episcopo aveva una fisonomia straniera, un accento straniero; che il povero impiegatucolo, il vile soggetto della prepotenza del Wanzer e di Ginevra, balbettava cose imparaticce, sentimenti non suoi, filosofava, divagava come aveva divagato e sentito e pensato un altro fantasma artistico da cui erano state lasciate nell'immaginazione dello scrittore profondissime impronte. Niente di più eccessivamente russo che quel travedimento di un Christus patiens nell'anima abbietta trascritta in quelle note della taverna di via Alessandrina.
- Che ne sai tu? - mi si potrà dire.
"Ed ora ella è qui, sta bene: m'accosto, la guardo di tratto in tratto; ma domani? Se la porteranno via. E che farò io allora, solo solo? Ora ella è qui, in questa camera, sulle tavole del letto; domani la cassa mortuaria sarà pronta, cassa bianca,... bianca, foderata di seta di Napoli.... Ma non si tratta di questo. Io passeggio, passeggio incessantemente: io voglio comprendere. Son già sei ore che voglio e non riesco a concentrare i miei pensieri sur un sol punto... Passeggio, passeggio incessantemente, per questo non comprendo.... Via, procediamo con ordine; ecco com'è avvenuto.... Ecco, se voi volete sapere, cioè se io comincio dal principio.... Io voglio raccogliere i miei pensieri e non ci riesco.... Ah, ecco i minuti particolari, i più minuti!... Ricordo, sì, ricordo tutto!... Aspettate, signori.... Aspettate. Io, s'intende, non le ho detto nulla della mia beneficenza, al contrario.... Aspettate ancora.... poichè è necessario che io rimescoli questo fango.... Dicono che il sole vivifichi l'universo. Il sole si leva, guardate: non è morto anch'esso? Morti dappertutto. Tutto è morto. Gli uomini sono soli, circondati di silenzio. Ecco il mondo!... "Uomini, amatevi l'un l'altro." Chi ha detto questo? Che comandamento è questo? L'orologio continua a battere, insensibile... Qual orrore! Due ore di mattino. Le sue scarpine sono lì, che attendono a piè del suo lettuccio. Domani, quando la porteranno via davvero, che diverrò io?"
Sono frasi scelte qua e là nel famoso monologo del marito di Benigna (Krotkaïa) monologo che il Dostoïevsky intitola a torto novella fantastica.
Ed ora leggete quest'altre frasi:
"Bisognerà che io vi racconti tutto, fin dal principio. Tutto fin dal principio. Come farò? Io non so più nulla, non mi ricordo più di nulla, veramente. Come farò, signore, come fare? Oh Dio! Ecco... - Aspettate, vi prego, aspettate. Abbiate pazienza... Mi ricordo di tutto, di tutto, di tutto. Capite?... Ecco, guardate queste scarpette".
Giovanni Episcopo parla così; e lungo l'intero lavoro il suo accento non muta. Racconta casi assai diversi da quelli dell'uffiziale russo diventato strozzino. Nessuna rassomiglianza può notarsi tra Benigna e Ginevra, tra il dramma del vigliacco marito di questa e quello più elevato, più tormentoso del marito di Benigna... Eppure a chi ha letto Krotkaïa par di sentir narrare10 un'identica storia. Potenza della forma! In quel balbutire, in quel vaneggiare, in quel raccontare con precisione taluni episodii e sorvolare quasi smemoratamente su d'altri, c'è ben più che il suono della voce e l'accento doloroso del personaggio; ci sono pure l'atteggiamento, i gesti, il carattere. Potenza della forma! Essa fa che l'uffiziale russo diventato strozzino non possa scambiarsi con Giovanni Episcopo, perchè sarebbe assurdo, che un individuo si realizzasse più volte, perchè il tale accento, il tal suono di voce, il tal gesto sono così essenzialmente d'un individuo, corrispondono così precisamente al carattere di lui, che invano tenta di appropriarseli un altro, senza avere l'intenzione di fargli il verso, di metterlo in caricatura.
Infatti Giovanni Episcopo rifà il verso di quel personaggio e di un altro similare dello stesso scrittore (del Marmeladoff di Delitto e Castigo) fin nei particolari minuti. Ho già detto che filosofeggia. "Non avete mai notato? Un uomo, una pianta, una qualunque cosa vi dà il suo vero aspetto una volta sola, ossia nel momento fugace della percezione. È come se vi desse la sua verginità." E vedere da per tutto intorno a voi questo nemico, (il proprio vizio), vederlo con una lucidità prodigiosa, scoprirne tutte le tracce, indovinarne tutte le corrosioni, le devastazioni nascoste! Vedere, intendete? vedere in ciascun uomo la sofferenza, e comprendere, comprendere sempre, e avere una misericordia fraterna per ogni traviato, per ogni addolorato, e sentire nell'intimo della propria sostanza la voce di questa grande fraternità umana, e non considerare su la via nessun uomo come uno sconosciuto.... Intendete? Potete voi intendere questo in me, in me che voi stimate pusillanime e abbietto e quasi idiota?"
No, non possiamo intenderti, povero Giovanni Episcopo, quantunque tu abbia preso al tuo originale anche il capriccio di mettere in corsivo certe parole perchè facciano più effetto: non possiamo intenderti, perchè intendere significa pure giustificare e la falsità non può mai esser giustificata. Se tu avessi saputo mostrarti schietto e sincero, avresti parlato altrimenti; più tristamente, più efficacemente forse, ma da impiegatucolo nostrano, da quell'ubriacone che sei diventato per sommergere nel vino il sentimento della tua viltà e della tua abiezione. E quando un benefico raggio penetrava nella tua miseria morale coll'istinto della paternità, forse ti saresti trasfigurato davanti ai nostri occhi e saresti parso non un bruto ma un uomo, dove la tua parola non fosse stata maschera, e il tuo singhiozzo non fosse suonato in falsetto.
E in questo modo il D'Annunzio ha sciupato la propria creatura che poteva avere tanta vitalità da essere assolutamente lei e non il fantasma di un'altra creatura dell'arte! La colpa non consiste soltanto nella forma, si dilata anche nella sostanza. La sentimentalità di Giovanni Episcopo non apparisce morbosa, ma anche contraddittoria. Quel vigliacco, anzi quel vile si esamina troppo, ragionata11, troppo; vuol essere non quel che è, ma una specie di simbolo, vuol essere il Christus patiens profanamente accennato dall'autore.
Bisogna però aggiungere subito che soltanto Gabriele D'Annunzio poteva fare in Italia il miracolo di creare un'opera d'arte di seconda mano, e circondarla intanto di così gran fascino nei particolari da far quasi dimenticare la caduca natura di questa. Io ho insistito sul confronto per avvalorare la mia proposizione che in arte l'osservazione diretta è di un'utilità molto dubbia, ove il soffio creativo della forma non sappia giovarsene per infondervi la vera vita.
Nell'opera d'arte avviene così: l'intonazione principale determina fatalmente il resto. Se essa è davvero originale, non importa che parecchi elementi altrui vengano ad aggregarvisi per affinità; il suo carattere non muta. Inoltre, come la natura e la vita, un'opera d'arte, nata di suggestioni, diventa alla sua volta suggestiva. Un personaggio provoca la creazione d'una serie di personaggi, svolgimento di qualità rimaste in esso secondarie, elementari; un episodio, arricchendosi, di un contenuto più vasto e più solido, si trasforma mirabilmente in soggetto principale; un particolare presso che insignificante si eleva, con libera vegetazione e con lieta fioritura, all'altezza di concezione indipendente. E l'ex-uffiziale, usuraio e innamorato che piange e fantastica e vaneggia davanti al cadavere di Benigna (Krotkaïa) avrebbe potuto benissimo produrre un Giovanni Episcopo originalissimo, se i documenti raccolti nella taverna di Via Alessandrina avessero avuto una vera incubazione creatrice, o, meglio, se avessero proprio contenuto qualcosa di speciale, di caratteristico, di personale, capace di suscitarla nella fantasia dell'artista.
A uno scrittore come Gabriele D'Annunzio queste cose si possono e si debbono liberamente dire per metterlo in guardia contro sè medesimo; si possono e si debbono liberamente dire perchè dal suo stesso lavoro si scorge ch'egli non vive a suo agio in tale stato di soggezione alle influenze, non d'un'arte, ma di sentimenti e di fantasmi estranei alla sua natura molle e delicata.
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L'Innocente rappresenta un grande sforzo dell'autore, per liberare la propria personalità artistica dalla rete in cui l'hanno avvolta i romanzieri russi, e mostrarla qual'è. Gli elementi stranieri vi sono già passati in seconda linea; vi si sente una ripresa dei motivi di Piacere nel carattere complicato, un po' artifiziale o artifizioso del personaggio, e qua e là nella forma; ma questo non nuoce; fino i difetti di un artista possono riuscire in qualche modo simpatici quando sono davvero suoi.
Tullio Hermil infatti potrebbe dirsi fratello carnale di Andrea Sperelli. È un corrotto, un raffinato nella corruzione, un artista della vita. Non incide acque forti, non cesella componimenti poetici di sapore arcaico, ma prepara, dispone, regola i suoi sentimenti e i suoi atti in maniera che fruttino al suo alto egoismo i maggiori benefizii. Ha l'orgoglio e la vanità della sua superiorità intellettuale, e si stima dispensato dal sottomettersi ai precetti della morale comune, ai doveri del suo stato.
Sposo a una bella e dolce creatura, l'ha offesa nei modi più crudeli, senza riguardi, senza ritegni, diventando prima l'amante di due fra le più intime amiche di lei, poi ostentando la relazione con una nota peccatrice. Dopo alcuni anni di matrimonio e la nascita di due bambine, tra Giuliana e lui ogni intima relazione vien rotta. La donna soffre dignitosamente in silenzio; egli si compiace di quel patto di fraternità e d'amicizia pura, non tanto perchè esso lo lascia libero, quanto perchè può formarsene una sensazione impura, traendo dalla grande rassomiglianza di una sua sorella morta con Giuliana un acre sapore d'incesto.
Niente di spontaneo, niente di semplice in quest'anima supremamente egoistica. La lontananza dell'amante, lo spinge a riattaccarsi alla povera creatura, non per un sentimento affettuoso, ma per avidità di sensazioni strane, complesse, alle quali per poco non aggiunge attrattive il dubbio che la moglie non fosse rimasta sempre fedele.
E formola assiomi come questo: "La grandezza morale risultando dalla violenza dei dolori superati; perchè ella avesse occasione d'essere eroica era necessario ch'ella soffrisse quel che le ho fatto soffrire." Basta però una letterina dell'amante che lo invita a raggiungerla in Firenze perchè i suoi propositi di riconciliazione vengan dispersi nel punto che più sembravano vicini a ottenere quel resultato. Ed egli lusinga la propria corruzione con una sentenza, asseverando che il sogno di tutti gli uomini intellettuali sia quello "di essere costantemente infedeli a una donna costantemente fedele."
Al ritorno, non ha rimorsi. Si meraviglia di sentirsi riafferrato dal sentimento della riconciliazione. "Ma è possibile? Ma è possibile? Ma dunque, dopo tutto quel che è accaduto, dopo tutto quel che ho sofferto, dopo tante colpe, dopo tante vergogne, io posso trovare nella vita questo sapore! Io posso ancora sperare, posso ancora avere il presentimento d'una felicità!"
Non bisogna lasciarsi ingannare dalle parole. Se il dubbio vago della fedeltà di Giuliana gli si affaccia alla mente, lo stesso turbamento sensuale concorre ad oscurargli la coscienza, a rendergliela ottusa. Egli confessa: "Io pensavo di riconquistare non l'anima sola di Giuliana, ma anche il corpo; e nella mia ansietà entrava una parte di orgasmo fisico.... Senza accorgermene, io avevo forse acuito e corrotto il mio desiderio con le immagini inevitabili generate dal dubbio; e portavo in me latente quel germe venefico. In fatti, sino allora in me era parsa predominante la commozione spirituale ed io, aspettando il gran giorno, m'ero compiaciuto in puri colloquii fantastici con la donna da cui volevo ottenere il perdono. Ora invece non tanto vedevo la scena patetica fra me e lei quanto la scena di voluttà, che doveva esserne conseguenza immediata."
La scena avviene, ma avviene quasi immediatamente la rivelazione d'un fatto che ne annulla il godimento.
" - Non ti sei accorto che Giuliana è incinta? - gli dice sua madre.
"Mi si presentò allo spirito la verità brutale, in tutta la sua più ignobile brutalità. Ella è stata posseduta da un altro.... E una serie d'imagini fisiche odiose mi si svolse d'avanti gli occhi dell'anima, che io non potevo serrare. E non furono le immagini di ciò che era accaduto, ma anche quelle di ciò che doveva necessariamente accadere. Bisognò anche ch'io vedessi, con una precisione inesorabile, Giuliana nel futuro (il mio Sogno, la mia Idealità!) difformata da un ventre enorme, gravida d'un feto adulterino..."
E aggiunge: "Io amavo quella povera creatura anche nella sua impurità. Tranne quell'impeto subitaneo di collera suscitatomi dalla gelosia carnale, io non avevo ancora provato contro di lei un senso d'odio o di rancore o di disdegno. Non m'era balenato alcun pensiero di vendetta. In vece, io avevo di lei una misericordia profonda. Io accettavo, fin da principio, tutta la responsabilità della sua caduta. Un sentimento fiero e generoso mi sollevò, mi esaltò. "Ella ha saputo chinare il capo sotto i miei colpi, ha saputo soffrire, ha saputo tacere; mi ha dato l'esempio del coraggio virile dell'abnegazione eroica. Ora è venuta la mia volta. Io le debbo il contraccambio. Debbo salvarla ad ogni costo. E questa sollevazione dell'anima, questa cosa buona, mi veniva da lei."
Ma, ripeto, non bisogna lasciarsi ingannare dalle parole di Tullio Hermil. Non il suo sentimento, ma la sua carne si ribella, non il suo sentimento ma i suoi sensi si sottomettono. Dopo aver chiesto a Giuliana il nome di quell'uomo, dopo ch'ella gli ha risposto soltanto: "T'ho amato sempre, sono stata sempre tua, sconto con quest'inferno12 un minuto di debolezza, intendi? un minuto di debolezza... È la verità. Non senti che è la verità?" dopo questo, che credete voi che avvenga?
"Ancora un attimo lucido; e poi l'effetto d'un impulso cieco, selvaggio, inarrestabile. Ella cadde sul cuscino rovescia. Le mie labbra soffocarono il suo grido."
Unicamente l'egoismo della sua carne gli suggerisce d'impedire il suicidio di Giuliana e gli fa prendere la risoluzione di celare alla propria famiglia, specialmente a sua madre, il terribile caso; unicamente quell'egoismo gli fa rivolgere tutto il suo odio verso la creatura a cui prima vuol interdire la nascita e poi la vita.
Egli tenta di persuadersi e di persuaderci del contrario: "Uno strano ardore di sacrifizio mi infiammava subitamente, mi spingeva ad abbracciare la mia croce. La grandezza dell'espiazione mi pareva degna del mio coraggio." Ma spesso, andando verso la sorella dolorosa per tentar di consolarla, egli smarriva la via; cercava invece le labbra di Giuliana. "Ed erano baci prolungati fino alla soffocazione, erano strette quasi rabbiose, che ci lasciavano più affranti, più tristi, divisi da un abisso più cupo, avviliti da una macchia di più."
Una cosa però sono le parole, un'altra i fatti. Egli fa un tentativo per incontrare il supposto seduttore di sua moglie, ma sente quasi un sollievo quando lo sa lontano, malato di spinite, vicino a morire. E tornato alla Badiola, dov'è Giuliana e tutta la famiglia, prova di nuovo un avvicendarsi di fermenti, di inerzie, di crisi contradittorie, di abbondanza, di aridità. E dubita di sè: "Chi sa! L'uomo è, sopra tutto, un animale accomodativo. Non c'è turpitudine o dolore a cui non s'adatti. Può essere che io finisca con un accomodamento. Chi sa!"
Ed è così. Egli sente per la moglie colpevole una tenerezza infinita, intanto che gli si vien maturando nella mente il proposito dell'uccisione del nascituro. E quando questi è nato, l'idea del delitto diventa di mano in mano più lucida, più insistente, e le ricerche del mezzo più semplice e più nascosto non cessano un minuto. Questa ossessione fa tacere ogni altro sentimento, fin la gelosia della sua carne. E un giorno, come un lampo, un'idea gli passa per la mente.... "Era il ricordo d'una lettura lontana? Avevo trovato descritto in qualche libro un caso analogo13? O qualcuno, un tempo, m'aveva narrato quel caso come occorso nella vita reale?"
Si vede che neppur l'odio era capace di suggerirgli qualcosa di suo proprio! Ed egli accetta il vile suggerimento, prende tutte le cautele, calcola con indicibile freddezza tutte le possibilità, tutte le circostanze.
"Andare d'avanti al giudice, dirgli: "Ho commesso un delitto. Quella povera creatura non sarebbe morta se io non l'avessi uccisa. Io Tullio Hermil, io stesso l'ho uccisa. Ho premeditato l'assassinio, nella mia casa. L'ho compiuto con una perfetta lucidità di coscienza, esattamente, nella massima sicurezza. Poi ho seguitato a vivere col mio segreto nella mia casa, un anno intero, fino ad oggi. Oggi è l'anniversario. Eccomi nelle vostre mani. Ascoltatemi. Giudicatemi.
"Posso andare d'avanti al giudice, posso parlargli così?
"Non posso nè voglio. La giustizia degli uomini non mi tocca. Nessun tribunale della terra saprebbe giudicarmi.
"E pure bisogna che io mi accusi, che io mi confessi. Bisogna che io riveli il mio segreto a qualcuno.
"A chi?"
Le trecento settantadue pagine della sua confessione non rivelano però il lento lavorìo del rimorso, nè questo bisogno dell'accusa. Tullio Hermil, pur compiacendosi di distrigare l'arruffata matassa delle sue sensazioni e dei suoi sentimenti, rimane quasi estraneo a tutto quel che va scrutando nel proprio cuore corrotto.
Si scorge benissimo che egli assapora un nuovo piacere di perversione riandando il passato. È composto, chiaro, minuzioso, come sarebbe un narratore di casi altrui; la sua mano non vacilla, la sua voce non è commossa; il fantasma dell'Innocente non lo turba un solo momento durante la lunga confessione. Gli avvenimenti gli sfilano dinanzi a gli occhi della memoria con ordine ammirabile. La sua abitudine di osservarsi, di studiarsi, di gustare nella vita, durante l'azione, ogni depravato movimento dell'anima sua, lo sostiene nella dura opera e lo aiuta a dar colore e rilievo a ogni minimo incidente. Ma non ci dica: "Bisogna che io mi accusi, che io mi confessi." Non possiamo credergli su la parola. E questo mi sembra il cardinale difetto del libro.
Nel Giovanni Episcopo il tentativo di nascondere la personalità dell'autore dietro quella del personaggio c'è, quantunque mal riuscito perchè di seconda mano. Chi non è impacciato da ricordi letterari, chi non guarda tanto pel sottile può venir facilmente illuso da quell'accento che balbetta dietro i fantasmi fuggenti, da quella parola che ripete, ritorna indietro, riprende, da quell'immaginazione che divaga e si turba e si confonde, da quella ragione intermittente per l'abuso delle bevande alcooliche.
Nell'Innocente, per quanto sia visibile l'intento dell'autore, l'illusione non si produce una sola volta. C'è il fantasma d'un personaggio, non quello d'un personaggio14 che prova il bisogno di confessarsi, di accusarsi. L'artifizio della narrazione in prima persona, che il D'Annunzio predilige in questi suoi ultimi lavori, non arriva fino a vincere il lettore. In un punto anche la forma gli resiste, non si piega alle necessità del soggetto; anche quella forma, che nelle mani di lui è cera molle, pronta a ricevere qualunque atteggiamento, s'aggrava, come in questo brano.
Tullio Hermil ha già commesso il delitto. Davanti al morticino il suo cuore sconvolto si solleva, e sta per lasciargli sfuggir di bocca: "Sapete voi chi ha ucciso quest'innocente?" Ma un terrore subitaneo gli agghiaccia il sangue, e gl'irrigidisce la lingua.
Un parosismo febbrile lo fa tremare; i suoi lo conducono via, lo mettono a letto.
"Il passaggio delle immagini rapide e lucide continuava. Ricordavo, con terribile intensità di visione, l'agonia del bambino. - Era là agonizzante, nella culla. Aveva il viso cinereo, d'un colore così smorto che sui sopraccigli le croste del lattime parevano gialle. Il suo labbro inferiore depresso non si vedeva più....
" - Su, su, trasportiamo la culla vicino alla finestra, alla luce. Largo, largo! Il bambino ha bisogno d'aria. Largo!
"Io e mio fratello trasportavamo la culla che pareva una bara. Ma alla luce lo spettacolo era più atroce: a quella fredda luce candida della neve diffusa. E mia madre:
" - Ecco muore! Vedete, vedete, muore! Sentite: non ha più polso.
"E il medico:
" - No, no. Respira. Finchè c'è fiato, c'è speranza. Coraggio!
"E introduceva tra le labbra livide del morente un cucchiaino d'etere. Dopo qualche attimo, il morente riapriva gli occhi, torceva alto le pupille, metteva un vagito fioco. Avveniva una leggera mutazione nel suo colore. Le sue narici palpitavano.
"E il medico:
" - Non vedete? Respira. Fino all'ultimo, non bisogna disperare."
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
"E il medico dava un altro cucchiaino d'etere. E l'agonia si prolungava, e lo strazio si prolungava. Le manine si sollevavano ancora, le dita si movevano vagamente; tra le palpebre socchiuse le iridi apparivano e sparivano ritraendosi come due fiorellini appassiti, come due piccole corolle che si richiudessero flosce raggrinzandosi.
"Cadeva la sera, innanzi all'agonia dell'Innocente. Su i vetri della finestra era come un chiarore d'alba; ed era l'alba che saliva dalla neve in contro alle ombre..."
Abbrevio ancora.
"Un suono indescrivibile, che non era un vagito nè un grido nè un rantolo, esciva dalla boccuccia quasi cerulea, insieme con un po' di bava bianchiccia. E mia madre come una pazza si gittava sul morticino."
Sono quattro pagine di racconto particolareggiato, filato. Il lettore dimentica che non si tratta d'una scena diretta, ma della visione interna, della memoria di una scena. Nè vale che Tullio Hermil aggiunga: "Così rivedevo tutto, a occhi chiusi: aprivo gli occhi, e rivedevo tutto ancora, con un'intensità incredibile." Bisognava che qualcosa d'immateriale, d'impalpabile, l'immateriale, l'impalpabile della visione, si trasfondesse, apparisse nella forma, qualcosa insomma che rivelasse la visione indiretta di quell'istante.
Allo stesso modo in tutto il romanzo manca l'accento, la nota, la sfumatura dei ricordi a traverso il sentimento immediato, che è il bisogno di confessarsi e di accusarsi.
Dirlo non vale; occorreva farlo sentire; occorreva che Gabriele D'Annunzio s'annullasse nella personalità di Tullio Hermil, precisamente come nel brano qui sopra citato Tullio Hermil doveva darci l'impressione della sua allucinazione, non la sensazione della visione immediata.
Il personaggio di Tullio Hermil è creazione così spontanea della immaginazione di Gabriele D'Annunzio, che ci vuole un certo sforzo per accorgersi di questa mancanza. Il fratello carnale di Andrea Sperelli è così corrotto, è così raffinato nella sua corruzione, è così artista nella vita; ci son tanti riflessi nella sua personalità della personalità artistica del D'Annunzio, quale si è a noi rivelata specialmente nelle poesie, che il difetto si avverte ad intervalli, e quando più lo scrittore si trascura e si lascia andare. Per esempio in certe minuzie di osservazione che la commozione avrebbe fatto dimenticare, come questa: "Soltanto la pulsazione visibile della carotide nel collo e qualche contrazione convulsiva delle mani davano indizio di vita;" in certe descrizioni di paesaggio troppo leziosamente accarezzate, o di particolari secondarii, come quello delle rondini affaccendate nei loro nidi nella casina di Villalilla o quello del canto notturno dell'usignuolo alla Badiola, notato e quasi trascritto in una pagina e mezza15. Ci son tanti riflessi della personalità artistica del D'Annunzio in certe sopravvivenze di forme stilistiche, che diventano una stonatura nella semplicità ora raggiunta ("un profumo denso e caldo saliva nel sole col ritmo d'un alito; il parto arboreo; la santità della luce; il domo ceruleo; il sorriso esiguo che stilla di sotto alle palpebre; la gloria primaverile; la fronte tenue e pura come una particola, sororale; il sorriso tenue e inestinguibile dei Lari; e tanti altri che non mi ricorrono alla memoria) da produrre lo strano effetto di far stare in dubbio se parli lui per conto di Tullio Hermil, o se questi racconti da sè i tristi casi intervenutigli. Certamente dimentichiamo Tullio Hermil, quando lo vediamo smarrire dietro le descrizioni del battesimo, o della tumulazione del bambino, fino a ripetere tutte le circostanze delle due cerimonie e le parole rituali latine pronunziate dal prete.
E cito tutto questo per provare al D'Annunzio l'inutilità dell'osservazione diretta da lui predicata, se essa non riesce a trasformarsi in fantasma artistico, che è cosa ben diversa. Nel Giovanni Episcopo per un canto, nell'Innocente per un altro la trasfigurazione per dir così della realtà, delle note, dei documenti, non si è potuta avverare, e la sua opera d'arte ne rimane diminuita, almeno per chi la guarda unicamente come opera d'arte. Giacchè, pei lettori ordinari e distratti, tanto il Giovanni Episcopo quanto l'Innocente hanno attrattive di valore elevato, specialmente in quelle pagine del primo dove il riflesso altrui è meno compenetrato col materiale proprio dell'autore; in quelle pagine del secondo dove l'affetto, l'evidenza, la ricchezza del colorito impediscono di osservare spassionatamente, e lasciano impressione profonda; e di quest'ultime voglio notare la prima e la seconda riconciliazione di Tullio con Giuliana, in modo particolare la scena interessantissima e capitale a Villalilla, e tutte le pagine che seguono alla rivelazione della colpa di Giuliana e precedono la perpetrazione del delitto su l'Innocente.
Ho detto che nell'Innocente l'influsso dei romanzi russi è passato in seconda linea. Forse dovremmo riconoscerlo un po' nel carattere corrotto e complicato di Tullio Hermil, se la derivazione di esso dall'Andrea Sperelli dello stesso autore non lo giustificasse in qualche modo. L'influsso però è potentissimo nel personaggio di Federico, una specie di Levin tolstoiano. Il D'Annunzio, che abusa delle formole, ne fa un contrapposto al Christus patiens e lo chiama il Cristo della gleba. È infatti un discepolo del Tolstoi, un apostolo di carità e di lavoro come lui; creazione voluta, eccentrica, troppo eccezionale e quasi innaturale in Italia. Di origine russa è anche il personaggio Giovanni Scordio, più simbolo che uomo vero. E non è forse un po' russeggiante Giuliana, figura poetica di problematica moralità, di sentimentalità quasi morbosa, come parecchie di quelle creature di cui si compiacciono tanto volentieri i romanzieri russi, che probabilmente ne trovano gli originali in una società dove la civiltà più squisita s'innesta male sul ceppo della più rozza barbarie?
Il fatto di vedere già relegati questi influssi in seconda linea è di lietissimo augurio. L'ingegno di Gabriele D'Annunzio è così promettente e ha dato frutti così fuori dell'ordinario, che il veder me, tra i suoi più vecchi e sinceri ammiratori, tanto severo con lui non può recare nessuna meraviglia. Il Giovanni Episcopo e l'Innocente, per qualunque altro scrittore in Italia, sarebbero opera di gran conto con tutti i difetti notati. Pochi romanzi nostrani hanno uguale intensità di interesse, di commozione, e uguale ricchezza di contenuto; pochissimi o nessuno uguali bellezze e diciamo anche lenocinii di forma. Ma a lui si può chiedere ben altro.
Da lui si può e si deve pretendere finalmente quella sincerità che è la principal dote di un artista e il più solido pregio di un'opera d'arte: da lui si può e si deve pretendere che finalmente si mostri lui, proprio lui, senza maschera, senza influssi estranei, senza concessioni di sorta alcuna. Egli ha la giovinezza oltre l'ingegno, la giovinezza che forma da sè sola una forza immensa; ma egli ormai sta per varcare la soglia della virilità. E il giorno che si affaccerà a quella soglia con in mano una nuova opera d'arte virile, io vorrei salutare l'autore compiutamente liberato da quella tabe patologica e corrotta che ora ispira le sue creazioni, rinnovato a dirittura, italiano schietto, e degnamente trionfante.