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II
E. A. BUTTI - NEERA - L. GUALDO16
Il caso di tre romanzieri, due provetti nell'arte e uno esordiente, che con mezzi diversi, per vie diverse, probabilmente con intenti diversissimi, si mettano a descrivere lo stesso fenomeno psicologico e giungano a un'identica conchiusione, è così raro in Italia che bisogna fermarsi a osservarlo.
Il concetto delle tre opere d'arte delle quali intendo discorrere è tristamente pessimista. Il Butti, l'esordiente, l'ha espresso nelle prime righe del suo lavoro, l'Automa, con l'enfasi propria della balda inesperienza giovanile. Egli dice:
"In questo tumultuoso e tragico morir del secolo, che ha in sè con ardita sintesi raccolte tutte le caratteristiche dell'epoca contemporanea, nell'opera febrile e vertiginosa di rivoluzione e di raffinamento, che l'ha con moto sempre crescente esagitato ed estenuato, - Attilio Valda può ben rappresentare un caso tipico dell'attuale esaurimento umano, triste documento della nostra immensa miseria intellettuale."
Quasi la stessa cosa avrebbero potuto dire Neera pel suo protagonista Senio Straniero e Luigi Gualdo pel suo Paolo Renaldi; ma, da artisti maturi, hanno lasciato che, senza esagerazioni e senza enfasi, la suggerisse alla mente del lettore la loro opera d'arte.
Nei tre romanzi infatti il cardine della concezione è l'influenza deleteria della donna su la volontà e sul carattere dell'uomo nella società contemporanea.
E se i casi d'un romanzo potessero servir di base a una seria deduzione, il libro di Neera darebbe molto da pensare, non solamente perchè scritto da una donna, ma perchè porterebbe a conchiudere che l'influenza della donna su l'uomo ha più efficacia nel male che nel bene. Alla stessa conchiusione ci conduce il libro del Gualdo, e con maggiore intensità di impressioni.
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Attilio Valda, il protagonista del Butti, è un essere fiacco. "Una faticosa inquietudine modificava senza tregua la spossata impressione del suo viso e del suo corpo un po' curvo, - un'inquietudine morbosa di nevralgico nel quale ogni atto si capiva essere allo stesso tempo cosciente e involontario."
Pittore, scrittore, musicista "egli sapeva apprezzare ed intendere; anche, poteva intravedere la concezione, ma non arrivava mai a concretarla precisamente in una forma determinata d'arte."
Se questo carattere fiacco incontra sul suo cammino una donna volgarmente sensuale come la cameriera francese Margot o una non meno volgarmente capricciosa, come la principessa Lavinia Casàuri, sarà inevitabile che la sensualità e il capriccio abbiano su lui tanta presa da ridurlo senza volontà, da farlo muovere e agire quasi fosse un automa.
Senio, il protagonista del romanzo di Neera, è di origine contadina. "Nelle sue vene scorreva un sangue rimasto puro nelle aspre lotte del lavoro, e nel quale non s'era mischiata nessuna corruzione, nè la nevrosi avrebbe saputo annidarsi," "Imbevuto delle novissime teorie della scienza, Senio tendeva a ordinare la vita secondo un sistema di assoluto positivismo. Tutto ciò che poteva assomigliare a fantasticheria romantica, a emozione sentimentale, trovava in lui un fiero nemico. Gli stessi affetti naturali, che egli non negava, dovevano subordinarsi a un criterio di utilità incontrastata..." "In religione, come quasi tutti i suoi amici e contemporanei, aveva elevato la coscienza al posto della divinità; e la sua era una coscienza retta ma fredda, disposta a rintracciare il lato utile e pratico della giustificazione matematica."
"Il solo pensiero di menomare coll'amore quell'insieme di forza che lo rendeva fiero e indipendente, gli era insoffribile."
C'è di più. Egli pensa: "Perchè amare? L'amore non è necessario nè per godere, nè per imparare e neppure per beneficare. Egli (Senio) avrebbe diffuso le sue idee nel mondo, giovando forse a qualcuno, certo a sè stesso, senza lasciarsi trascinare da nessuna specie di amore. Se questo era l'origine di tutti i dolori, doveva riuscirne facile l'allontanamento: un solo nemico resterebbe allora da combattere: il dolore fisico."
Eppure questo positivo, non solo non s'accorge dell'amore che ha ispirato a Dina, fanciulla educata dalla sorella di lui e nipote di una loro vecchia amica; non solo si lascia cogliere da un falso senso di gelosia e quasi ama una bella signora che lo ama veramente; ma, dopo ch'egli ha posposto Dina a donna Clara Aldobrandi, donna di un altro da cui è legalmente divisa, e poi la stessa donna Clara al proprio freddo egoismo, basta un incidente insignificantissimo perchè egli si lasci avvolgere, e per non più staccarsene, dai tentacoli di una piovra volgare che, fattasi sua guarda-malato, riesce a distruggere in lui coscienza, carattere, avvenire.
Paolo Renaldi, di cui Luigi Gualdo ha scritto la trista decadenza, è un ambizioso. Passa le notti studiando, oltre le materie proprie della sua professione di avvocato, tutte le questioni di filosofia, di storia, di filosofia della storia, di scienze politiche e sociali: "Nella solitudine, nel silenzio, mille speranze gli facevano battere il cuore: si metteva talora alla finestra e gli pareva, nel vento fresco della sera che gli lambiva i capelli, sentir passare come un soffio di gloria. Guardava il cielo stellato e la strada fangosa, e da quella altezza (di un quarto piano) - per adesso una ironia - gli sembrava scorgere una promessa di dominio; gli pareva, con la fervida e studiosa mente, sovrastare sulla città addormentata."
L'ambizione lo rende calcolatore. Sin dalle prime volte in cui sente attirarsi dal fascino della signora Silvia Teodori egli pensa "che l'amore di colei gli sarebbe di potente aiuto nella battaglia futura" della vita: "l'ebbrezza del trionfo gli avrebbe raddoppiate le forze; la vanità soddisfatta avrebbe infiammato l'orgoglio. In quel momento sentiva in sè una grande potenza; gli pareva che le ignote voluttà alfine conosciute, inciampo per un altro meno forte, sarebbero state a lui sprone a giungere rapidamente."
Diventato l'amante di Silvia, passate le prime ebbrezze, soddisfatta la vanità, egli comincia a sentire una sorda irritazione contro colei, "intravedendo quasi involontariamente ch'ella potrebbe, nell'avvenire, diventare un impiccio, chiudergli la via sulla quale era risoluto a non arrestarsi."
Silvia Teodori non è una donna comune. Un po' di mistero ne circonda la vita, dopo la catastrofe di suo marito condannato per scandali bancarii e poi rinchiuso in un manicomio. L'amore per Paolo Renaldi la eleva, la purifica. Le piaceva di saperlo ambizioso, voleva sorreggerlo sull'ardua via, essergli di aiuto - non mai d'impiccio in quanto intraprendesse - e, ciò, lo credeva davvero possibile, ingenuamente illusa... Se un giorno fosse rimasta libera, avrebbe sposato Paolo... Ma era tanto felice così che questo sogno si affacciava di rado alla sua mente."
Paolo intanto la sacrifica alla propria ambizione, quantunque sappia di risospingerla verso una vita di avventure forse incominciata prima della loro relazione. E sposata, per calcolo, la figlia del senatore Ronconi non amata e non amante, lanciatosi in mezzo alle agitazioni della vita politica, giunge fino a credersi guarito da ogni velleità sensuale. Le concitazioni della politica però abbattono il suo organismo; le prescrizioni del medico lo spingono ad assaporare la vita elegante e viziosa delle stazioni di bagni più ricercate. Il caso gli fa rivedere Silvia... E da quel giorno tutto crolla dentro di lui, quasi l'edificio morale del suo carattere fosse stato qualcosa di provvisorio. Da quel giorno, di transazione in transazione, l'ambizioso, l'orgoglioso Paolo Renaldi precipita verso la catastrofe della più profonda abiezione.
Isabella Ronconi, moglie onesta e buona, non è riuscita a prendere alcun potere su lui. Aveva fatto "attivamente, senza tregua tutto quanto poteva per aiutarlo in tutte le maniere." "Non solo ubbidiva, ma preveniva, indovinandoli, i desideri del marito. E, sforzandosi di amarlo, ci riusciva." Paolo, sacrifica anche lei alla propria ambizione.
"Invano sua moglie inquieta lo esortava a maggior calma. Più saliva e più voleva salire; l'ambizione incominciava a fargli provare le terribili ebbrezze del giuoco. Nulla di ciò che otteneva l'accontentava; guardava sempre avanti." E quando ambizione, smania di gloria, vanità politica, cadono davanti alla riapparizione di una Silvia molto diversa da quella che lo aveva amato, nella casa dove Isabella vive con la sua bambina, lottando contro il dissesto economico prodotto dalle sregolatezze del marito, il ritorno di lui a intervalli diventa sgradito e penoso per tutti.
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Delle tre catastrofi, quella di Attilio Valda ispira più compassione che pietà. Carattere vacuo, intelletto impotente, ci interessa appena quanto può interessarci un animale. La principessa Lavinia Casàuri l'ha ripreso, e lo conduce con sè, facendogli dimenticare un amico carissimo all'ospedale e scancellandogli a un tratto dalla mente tutte le tardive risoluzioni di mutar vita. "Un presentimento lugubre l'assalse: egli non avrebbe mai più rivisto l'amico suo: Stefano sarebbe morto là dentro, innanzi del suo ritorno..." Dove lo portava mai quel convoglio nella notte? Come vi si trovava egli con quella donna?
La sua vita era spezzata: il suo futuro ripiombava nel mistero!... Dopo aver già intravisto la salvezza, come traverso a un tenue velario evanescente, s'era lasciato sopraffare... Ma, qual'era dunque la causa di codesta sua sciagura? Chi lo aveva perduto così per l'ultima volta?
"Egli reclinò gli occhi, brillanti di collera e di odio su la donna addormentata. Esasperato da codesta placida inconscienza, sentì una voglia criminosa di punire costei, di vendicarsene, d'alzare il pugno stretto e di batterlo con tutta la sua forza su la sciagurata fronte di quell'abietta creatura. Ucciderla: ecco il feroce desiderio che tutto lo teneva.
"In quel punto Lavinia si risvegliò, alzò gli occhi su di lui, e gli sorrise.
E forse sorride anche il lettore.
La catastrofe del Senio, contrista con la sua rapida semplicità.
Il dottor Mordini, suo vecchio amico, gli evoca il ricordo di Dina, la fanciulla educata in casa di lui dalla sorella ora morta, e gli parla della sua candidatura politica che va a gonfie vele, e lo esorta calorosamente a lasciare quella femina che lo trascinerà all'abiezione...
"Stefano parlava ancora ed a Senio, frattanto, passavano delle ombre negli occhi; un sudore freddo gli invadeva le tempie; tentò due o tre volte di pronunziare qualche parola, ma non vi riuscì. Il suo bel volto rivelava le torture di una lotta interna superiore alle sue forze.
"All'ultima frase dell'amico balbettò "pietà" e come Stefano accennava a continuare, tese le braccia a guisa di un naufrago, d'un disperato...
Il dottor Mordini si chinò su di lui:
" - Parla. Quale dolente segreto mi nascondi? Che devo fare per te? Io ti salverò; io e tutti quelli che t'amano!
"Ancora le braccia di Senio si protesero nel vuoto, istintivo appello ad un aiuto sovrumano e dalle sue labbra uscirono quasi sibilando, due sole parole:
" - L'ho sposata. "
Ed è proprio un peccato che a questa scena così viva e così rapida sia mancata nell'ultima parte del romanzo la proporzionata preparazione!
Appunto pel minuto svolgimento dei fatti e per la sottile analisi di tutte le sfumature dei sentimenti di Paolo Renaldi, la chiusa del romanzo del Gualdo, assume una tragica elevazione, e dà un senso di sgomento.
"In quella loro storia (di Silvia e di lui) non somigliante ad alcun'altra in quel modo strano nel quale le loro relazioni erano state riprese, v'era qualcosa che li legava specialmente insieme. I vincoli che ora li univano, anche a distanza, dopo le molte separazioni, pareva a lui fossero tanto più forti, e resistenti, quanto meno stretti.
"Ora avrebbe accettato qualunque compromesso, qualunque dubbio, pur di rivederla e riaverla; non ripugnava più a nulla; quella specie di avvilimento, derivante da tutto quanto ignorava e sospettava della vita di lei, non gli avrebbe più ripugnato. Rimpiangeva il tempo in cui aveva per tante cause sofferto; per umiliazione, per gelosia celata. Avrebbe di nuovo patito tutto ciò volentieri; tutto, fuorchè il tormento vano dell'attesa. Attingeva una forza di pazienza ostinata dalla violenza stessa, continua, del suo desiderio. E aspettava."
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Non deve far meraviglia che il pessimismo più apparente si trovi nel più giovane e nel più inesperto dei tre romanzieri. Enrico Butti non ha dubbi, non esitanze, e vuol farcelo sapere. Io non riesco a immaginarlo così precoce da aver potuto studiare di prima mano l'esaurimento umano contemporaneo e la nostra immensa miseria spirituale. Me lo immagino colto, studioso, entusiasta delle idee eccessive, dommatico, come quasi tutti i giovani che credono di fare in questo modo atto di libertà intellettuale. Nella dedica del volume alla memoria del padre, egli ha scritto: "Se avessi altra fede che nella scienza fredda ed essiccatrice, questa postuma dedica sarebbe assai meno desolata. Ma io so, oggi, di sacrar l'opera mia - incominciata nell'entusiasmo di presaperla letta e riconosciuta da te - a un'ombra insussistente, creazione pura della mia fantasia, a un'ombra, che ha le tue care sembianze e porta il tuo intemerato nome di gentiluomo - che pure non sei Tu e che non potrà mai esserlo."
Come non ha un attimo di esitanza intorno al problema dell'immortalità dell'anima, davanti al quale la vera scienza, da lui qualificata fredda ed essiccatrice, confessa non aver prove egualmente solide per affermare o per negare; così egli non esita un momento nell'affermare che il suo Attilio Valda, il quale non ha nulla di caratteristico e può rappresentare gli esseri fiacchi e sconclusionati di tutti i luoghi e di tutti i tempi, sia un caso tipico da riassumere l'attuale esaurimento umano e l'immensa nostra miseria intellettuale.
A un giovane d'innegabile ingegno e che fa la veglia d'armi letteraria devesi condonare e perdonare molto riguardo al concetto della sua opera d'arte. La esperienza lo ammaestrerà; l'osservazione diretta gli smusserà molti angoli, e la cultura gli farà presto capire che l'arte più non fa volontariamente dei tipi, ma crea soltanto personaggi vivi più o meno complessi; gli farà pure capire che sovente un solo punto della vita d'un uomo può diventare soggetto troppo vasto pel romanzo moderno.
L'Automa, che palesa la felicissima attitudine del suo autore al genere narrativo, ne svela anche la scarsissima preparazione per quel che riguarda la lingua e lo stile, ma di questo parlerò poi.
Senio non mi sembra uno dei meglio riusciti lavori di Neera. Vi si scorge eccessiva sproporzione tra le diverse parti, alcune delle quali hanno svolgimento superiore alla loro importanza e che sarebbe stato più opportuno anzi necessario in qualche altra. Molto vi si parla intorno alle idee e al carattere dei personaggi, specialmente di quello di Senio; ma i caratteri non risultano dall'azione; e quello di Senio anzi vien smentito, con inconsapevole ironia, dagli atti di lui. Positivista teorico, si mostra ingenuo alla prova. Se si voleva appunto far risaltare questa contraddizione fra la mente e il sentimento, fra la teorica e la pratica, bisognava trattare il soggetto in maniera diversa, studiarlo più minutamente. Invece, così com'è, il romanzo apparisce un po' arbitrario; i personaggi agiscono in un certo modo perchè all'autore è piaciuto farli agire in tal modo; e quel che traluce qua e là di veramente umano, nobile o basso che sia, serve a far scorgere più evidentemente il difetto. L'abilità per dir così manuale stende una velatura su tutto il quadro e riesce talvolta a ingannare, ma sempre a discapito dell'arte.
Decadenza del Gualdo, da questo lato, è libro più serio. L'abilità narrativa dell'autore però, pur mettendo in moto tutte le proprie forze, mostra un certo riserbo, stavo per dire spregio aristocratico e proprio fuori posto, per alcuni artifizi. Il romanzo deve raccontare, è vero, ma deve anche rappresentare. Il Gualdo, in parecchi luoghi culminanti del suo libro, delinea i caratteri con perfetta maestria, prepara gli avvenimenti, li conduce, li avvolge, li annoda come può e sa fare chi conosce le più fine risorse del mestiere; ma quando il lettore si attende che i personaggi si svincolino dalla tutela dell'autore e parlino e agiscano fuori dall'immaginazione di lui, da persone libere e vive, l'autore finge di non accorgersi della impellente necessità di sparire, di lasciar sole sole quelle sue creature sotto gli occhi di chi le ha ansiosamente seguite lungo le molte pagine di preparazione; e continua a narrare fin là dove il dialogo drammatico vorrebbe sgorgare impetuoso.
Così nella bellissima scena che chiude il capitolo V. all'inatteso ritorno di Paolo in casa di Silvia; così nella scena del capitolo seguente, in cui avviene la rottura con Silvia e la partenza di lei; così in quella che avrebbe potuto riuscire una scena magistrale, quando Paolo e Silvia si rivedono, dopo molto tempo a Nizza.
" - Ancora? - ella disse - ed anche qui?... Continuò a parlare, ora cambiando tono, e calmandosi; ora nuovamente agitata, straziata, piena di qualche passione contenuta - evidentemente in uno stato anormale.... Quella donna che aveva tanto taciuto e che - lo si capiva - doveva tacere ancora, cotesta crisi passata, era quasi, per un'ora fuggitiva invasa da un delirio che la costringeva a parlare... -
E l'autore, resistendo all'impulso che doveva certamente spingerlo a drammatizzare la scena, riprende con serenità che fa stizza: "Disse, tutt'insieme, le vecchie sofferenze e le nuove, l'agonia lontana etc. etc..." proprio tutto quel che si sarebbe voluto sentire dalla stessa bocca di Silvia e direi anche con la sua stessa voce!
Ed ho scritto: finge di non accorgersi, perchè non può giudicarsi altrimenti. In quelle pagine di racconto che avrebbero dovuto essere dialogo son notate le più lievi sfumature dell'animo dei personaggi: il dialogo sembra agitarsi, snodarsi serpentinamente tra le righe della narrazione; ma l'autore lo infrena, lo impedisce. Egli ricusa di dare al concetto la sua forma schietta e precisa, quasi per mostrare che si può ottenere lo stesso effetto, rinunziando a un mezzo stimato volgare.
Ed a torto, secondo il mio debole parere; perchè l'arte è forma, e il concetto perde efficacia, riesce dimezzato quando non riceve la forma che gli spetta e per cui, da cosa astratta, diviene creazione vivente.
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Il Gualdo non può essere accusato d'inesperienza come il Butti. Per diversa ragione però il Gualdo e Neera amano togliersi di mano qualcosa che io paragonerei volentieri a la fionda con cui si scaglia un sasso più vigorosamente che non col semplice braccio. E qui intendo parlare di cosa assai meno elevata della mera forma artistica, ma non meno necessaria ed organica nell'opera d'arte.
Parlare di lingua e di stile vien reputato da pedante. Citando, ho sottolineato, per darne un saggio, le improprietà, le esitazioni, le incertezze, che offuscano, diminuiscono il concetto quasi ad ogni pagina, e spesso lasciano incerti intorno al senso di un periodo, intorno alle precise intenzioni dell'autore, in tutti e tre i romanzi di cui ho parlato. Voglio qui aggiungere che fra i tre scrittori, la donna, Neera, mostra una più agile padronanza dello strumento che adopra, quantunque abbia meno intendimenti stilistici del Gualdo e del Butti.
Io non mi sarei fermato un sol momento sur una questione così minuta, se la scarsa preparazione del Butti, la serena indifferenza del Gualdo, e la lieta vivacità di Neera non mi avessero confermato nella convinzione che per noi artisti della parola non esiste in Italia, a questi lumi di luna, una questione di lingua e di stile: e, se esiste, essa vien risoluta arbitrariamente e superficialmente quasi non meritasse che ce ne occupassimo. Pecchiamo un po' tutti, chi più, chi meno, e io non mi sento tale da poter scagliare una pietra su nessuno: ma pur troppo convien riconoscere che difficilmente si potrà andare più in là; pur troppo convien riconoscere che il senso dell'arte nella lingua si va così stranamente alterando e pervertendo presso di noi, da far dubitare che un giorno possa rimettersi dalla grande malattia da cui è afflitto.
Quando non si hanno, come le ha il Gualdo, tante eccellenti qualità di artista da controbilanciare i difetti della forma: quando non si hanno, come le ha Neera, tante buone qualità di vivace immaginazione, di finezza di tocco, da abbagliare la coscienza del lettore, la cosa diventa assolutamente grave.
E mi sembra tanto più grave quanto più mi vo persuadendo non esser possibile che la imprecisione e la scorrettezza della parola non si riversino, per naturale analogia, su la sostanza medesima dell'opera d'arte. L'esattezza dell'espressione implica uguale esattezza d'osservazione. Il press'a poco dello stile, implica un consimile press'a poco nei caratteri, nell'analisi, nella rappresentazione. Al disorganamento del periodo corrisponde talvolta un uguale disorganamento della concezione generale. Le conseguenze è inutile enumerarle; saltano agli occhi di coloro che si interessano dell'arte.
E questo ho voluto dirlo a proposito di due lavori - Senio e Decadenza - che hanno bellezze non comuni e pregi squisiti; che si leggono con grande interesse e che tentano una rappresentazione della vita italiana (accenno particolarmente a Decadenza del Gualdo) con larghezza di linee e con solidità di contenuto da onorare qualunque scrittore. Ed ho voluto dirlo anche a proposito del primo tentativo di un giovane assai promettente, quasi rimpianto di uno che ha tentato anche lui errando spesso, ma cercando sempre di correggersi con continui sforzi. Mi è parso che il grido d'allarme o la predica, se così si vuole, potrebbe ricavare da questa circostanza personale qualche valore, e non morire inascoltata come la solita vox clamantis in deserto.