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III.
ADOLFO ALBERTAZZI - ENRICO CORRADINI17
Da più di un mese questi due romanzi mi si mescolano, con la loro qualità, col loro contenuto, con la loro forma, così stranamente nel cervello, che io talvolta non ho saputo più distinguere l'uno dall'altro, quasi fossero una cosa sola e mi rivolgessero un'uguale domanda, meglio mi presentassero un uguale problema critico da risolvere.
Uno dei guai (che nello stesso tempo è un elevato piacere) a cui difficilmente possono sottrarsi coloro che si occupano d'arte letteraria, è la perdita della ingenuità e della freschezza che rendono vive e gioconde le impressioni di un'opera d'arte presso gli altri lettori.
Coloro che, bene o male producendo, debbono occuparsi non solo del concetto ma della parte tecnica del loro lavoro, nel leggere un'opera d'arte altrui si sentono sempre trascinati a passar oltre la pura sensazione estetica, per vedere in che modo e con quali mezzi essa sia stata prodotta. Quando poi questa sensazione non risulta efficace, specialmente se nell'artista che sta loro dinanzi si scorgono elevate qualità di sentimento e d'immaginazione e padronanza non ordinaria delle finezze e delle malizie di quel che si può chiamare, senza vilipenderlo, il mestiere; la curiosità di scoprire per quale intima e nascosta ragione quell'effetto si è arrestato a metà afferra talmente l'animo, da far nascere spesso il dubbio se mai questa ricerca della parte tecnica di un'opera d'arte - e quando essa ha raggiunto il colmo dell'efficacia producendo il miracolo dell'illusione della vita, e quando questo miracolo vien prodotto soltanto parzialmente - nasce il dubbio, se mai quell'impossibilità di ricevere ormai impressioni libere da qualunque secondo fine non sia poi la cagione che loro impedisce di percepire, al pari degli altri lettori, il valore di quelle parti che sembrano raggiunte, e l'altro specialmente di quelle che sembrano non raggiunte, come direbbero i pittori.
Per coloro che, buoni o cattivi produttori, si sentono trascinati a scrutare, leggendo un'opera d'arte, la parte tecnica di essa, c'è anche un altro pericolo: quello di trascurare l'osservazione dell'assieme e perdersi dietro l'ammirazione delle parti secondarie; c'è, inoltre, il pericolo di quel godimento crudele che vien provato dai medici dinanzi a un organismo malato, quando essi dalle funzioni alterate o invertite di un organo si veggono inattesamente rivelate certe sue funzioni che l'equilibrio della salute nascondeva gelosamente quasi per guarentirne la delicata natura.
Ho chiamato crudele questo godimento perchè proviene dallo studio della sofferenza altrui, e alletta e invade l'animo in guisa tale, che la pietà per la sofferenza del malato sparisce, e la malattia assume anzi un pregio che la fa dichiarare più bella e più interessante della stessa salute.
Io ho letto questi due romanzi, passando e ripassando per tutte le diverse sensazioni accennate, e confesso che il godimento crudele di cui or ora ho parlato non è stato il minore fra i varii miei godimenti. Per ciò non ho ritegno di aggiungere che li ho letti con vivissimo interesse, con piacere squisito; che molte parti ne ho rilette, che parecchie ne ho ripensate e rimuginate dal punto di vista della tecnica, per via della mia profonda convinzione che l'opera d'arte è forma soltanto e nient'altro che forma.
La coincidenza che protagonisti dei due romanzi siano due socialisti, uno più teorico che pratico - Paolo Desilva di Ave - l'altro così invasato dalle sue teoriche, da quasi non scorgere le rovine che la inconsiderata attuazione di esse produce attorno a sè, specialmente nella sua famiglia - Romolo Pieri di Santamaura; - l'altra coincidenza che i due scrittori abbiano un uguale culto per la bellezza dello stile e la purezza della lingua, e che l'uno, il Corradini, possieda quel che di vibrante, di caldo, d'impetuoso che si vorrebbe vedere, almeno di quando in quando, nell'Albertazzi; mentre poi in questo piace e seduce una trasparenza cristallina, una serenità, una eleganza di atteggiamenti che forse servirebbero ad attenuare la pletora da cui talvolta vien reso un po' tormentato lo stile dell'altro; la terza coincidenza che nei due scrittori la parte analitica prenda il sopravvento su la rappresentativa, e si vegga non si sa se un altero dispreggio di certi mezzi o malizie del mestiere o se un'inesperienza facilmente riparabile con lo studio e col farsi la mano a questo genere di lavori; e finalmente l'evidentissimo sforzo dell'istinto artistico che cerca di affermare i suoi diritti quasi a dispetto di certe convinzioni sempre lì pronte a mortificarlo (sforzo che dà, se non m'inganno, al concetto cardinale dell'opera, un significato perfettamente opposto a quello che era prima nell'intenzione dei due autori); tutte queste cose assieme spiegano benissimo la confusione delle due opere d'arte avvenuta nella mia mente, e il bisogno di parlare di esse in una volta, quasi di produzioni delle quali non si possa ragionare spartitamente.
La mia esitanza a renderne conto ai lettori del Roma non ha bisogno di altre spiegazioni.
Il romanzo dell'Albertazzi ha suscitato, al suo primo apparire, una polemica per la sfuriata dell'autore contro uno dei suoi critici, secondo me, inopportuna ed inutile. Ed io accenno a questo incidente soltanto per dire che suppongo molto giovane l'autore di Ave, come so giovanissimo l'autore di Santamaura. Ed entro in questi particolari che non hanno nessun rapporto col valore della loro opera d'arte, per dire che fa grandissimo piacere lo scorgere in due giovani tanta serietà e serenità di culto artistico; fatto che, assieme con parecchi altri, dimostra che che se ne voglia dire - come si vada elevando in Italia, e con fisonomia e carattere proprii, la nostra produzione letteraria.
Certamente questi due giovani (il signor Albertazzi, caso mai, non si offenda se io lo suppongo tale) arrivano nel momento opportuno; rappresentano un bisogno, una tendenza, e (se non si tenta di evitare gli eccessi) anche un pericolo pel nostro romanzo. L'opera loro non avrebbe avuto non solamente nessun significato ma anche nessuna efficacia dieci anni fa; e probabilmente le sarebbe mancato l'uno e l'altro indugiando a comparire e presentandosi qual'è fra dieci anni da oggi.
Il bisogno, le tendenze attuali consistono nella ricerca di un contenuto elevato per l'opera d'arte, e nella profonda convinzione che in un'opera d'arte la lingua e lo stile siano qualità essenziali e supreme. Per dire la verità non c'è niente di nuovo in questo bisogno, in questa tendenza, in questa convinzione, se si eccettua il significato che loro si dà. Una vera opera d'arte nobilita e sublima qualunque soggetto: lo stile e la lingua che riescono a rendere appropriatamente, efficacemente, con luminosa evidenza un dato soggetto, si scostino pure da modelli, da tradizioni letterarie in vigore, hanno appunto quelle qualità essenziali e supreme per le quali non ci dovrebbero essere nè modelli nè tradizioni da imporre. Ma è pur vero che nella pratica, tolte poche eccezioni, si era da noi arrivati, qualche anno fa a una deplorevolissima trascuranza e che ora la reazione è opportuna; e il vederla propugnata da due giovani d'innegabile ingegno e cultura è soddisfazione che il pubblico dovrebbe gustare assai più che non mostra, incoraggiando assai più che non soglia anche i tentativi non interamente riusciti.
Io desidererei però nei giovani scrittori italiani un po' più di malizia, specialmente col nostro pubblico già disavvezzo, per molte ragioni, dal puro godimento artistico di un'opera letteraria. E di questa malizia, che sarebbe anche un pregio non disprezzabile, si avvantaggerebbe pure la parte commerciale del libro. Cicerone, che non scriveva romanzi ma lavori filosofici di volgarizzazione, sentiva il bisogno, come egli si esprime, di rendere uberiora quelle sue disquisizioni perchè fossero vendibiliora. Ma i nostri giovani scrittori non curano di rendere uberiora le opere loro, e mostrano anzi una tal quale vanità nel far scorgere che sdegnano di curarsene.
Ma torniamo ai due romanzi L'Ave e Santamaura.
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* *
Leggendo l'Ave, di mano in mano che si procede, di mano in mano che ci si vede svolgere lentamente, pacatamente sotto gli occhi l'azione semplice ed intima dei tre personaggi (e non aggiungo principali, perchè i due altri che si mescolano un po' negli affari di quelli appaiono tardi e fuggevolmente) si ha la sensazione di trovarsi dinanzi a una limpidissima fonte tra rocce muschiose e qua e là coperte di esili cespi di capelvenere. L'acqua tersa, appena increspata dalla lieve vena che l'alimenta, invita le labbra a tuffarsi in essa dando anticipatamente la fresca sensazione del ristoro offerto; se non che le labbra, avidamente chinate a tuffarsi e a bere, urtano contro un cristallo protettore, fin allora non lasciato scorgere dalla sincera trasparenza di esso e dalla limpidezza della fonte. L'ingannatore cristallo è con così ingegnosa abilità incastrato fra le rocce; liste di muschio e cespi di capelvenere ne dissimulano in modo così perfetto i contorni che avrebbero subito rilevato la inattesa sopercherìa, da far sorridere più che sdegnarsi della delusione sofferta. E si torna a guardare l'acqua tersa, lievemente agitata dalla tenue vena alimentatrice; e la sensazione della frescura e del ristoro tornano ad illudere piacevolmente; e si pensa quanta cura gentile abbia dovuto indurre a proteggere in quel modo la limpidità di quell'acqua da qualunque villano intorbidamento.
Non bisogna però avere troppa sete, per non sentire la tentazione di prendere un sasso e rompere l'invidioso cristallo. La provvida mano che lo ha lì sovrapposto non ha, si vede, contatto su questo caso; il quale è appunto (usciamo fuori d'immagine) quello della maggior parte dei lettori.
Per ciò non mi meraviglio di aver letto e sentito dire a voce che L'Ave è romanzo noioso, anzi che non è romanzo.
Invece a me sembra romanzo bene architettato, anzi troppo finamente architettato. Si scorge - e questo è male - che l'autore ne ha pensato e ripensato a lungo ogni minima parte e la disposizione e il valore da dare a ognuna di esse in rapporto alle proporzioni di tutto il quadro.
Si scorge che l'autore non ha messo una parola, una frase a caso; che non ha, forse, anzi certamente, concesso a quelle che a lui sono parse esteriorità, l'importanza che richiedevano: e che questa sua cura minuziosa, riflessiva, dalla concezione del soggetto si è naturalmente riversata su la forma, sul periodo, su gli aggettivi, sul modo di rendere le scene e il paesaggio, su il dialogo, su tutta l'espressione di atti e di pensieri dei personaggi, quasi un terrore di eccedere lo infrenasse e lo turbasse; quasi egli ripetesse a sè stesso, a ogni riga a ogni pagina: Meglio rimanere di qua, che avventurarsi troppo in là.
Così gli è avvenuto di non compenetrarsi col fantasma delle sue creature in modo da sopprimere in esse il segno della sua personalità di autore; così nei sentimenti, nei pensieri, nei ragionamenti loro, avviene di sentire spesso qualcosa ricorda il suggeritore delle compagnie comiche e produce sgradevole impressione. E questo si avverte maggiormente quando vengono avanti le due figure secondarie del maestro Capozzi e di sua moglie, nelle quali l'autore non ha nessun concetto da incarnare. E per ciò esse gli riescono più vive dei due personaggi principali, Paolo Desilva e il curato don Saverio Guardi; e per ciò la gentile figura della sorella di questo, accarezzata con grandi finezze di colorito e di sfumature, risulta la più bella del romanzo, quantunque faccia difetto pure a lei quel che si potrebbe dire la spontaneità e la inconsapevolezza della vita.
Ed ecco - voglio darne una prova - il guaio di chi legge con preoccupazioni di tecnica letteraria. Tutte queste deficienze quasi volute, tutte queste inesperienze di mestiere sono state appunto per me le provocatrici di una delizia estetica di cui mi piace ringraziare pubblicamente l'artista autore dell'Ave.
Artista, senza nessun dubbio, e squisito: che troverà subito la via diritta e larga e vi farà gran cammino, appena riuscirà a sbarazzarsi di parecchi preconcetti che ora lo impacciano; appena si convincerà che indarno l'elevatezza della concezione lo attirerà, se poi essa non arriva a compire il miracolo di nascondersi, di sparire sotto la densità della forma - l'aspetto esteriore, il suono della voce e il resto - insomma sotto tutte le accidentalità che, come producono nella vita reale l'individuo, e lo distinguono assolutamente da qualunque altra creatura, devono poi, allo stesso modo, elevato nell'atmosfera ideale dell'arte, rifarlo in guisa da dissimulare quella specie di tradimento che l'arte fa alla Natura purificandola delle irragionevolezze e delle miserie provenienti ad essa dall'azione cieca del caso.
Giorni fa, nello studio di un valoroso scultore osservavo l'opera di uno scalpellino che riproduce in marmo il gesso ricavato dalla prima forma di creta; il gesso, caratteristico, vivo, rappresentava un uomo maturo dal naso piccolo e adunco, con le labbra fine, quasi ironiche, e con una espressione di risolutezza, di durezza d'animo a cui le sopracciglia sporgenti e la fronte ampia, dritta e solcata da rughe, aggiungevano significato. Il marmo, appena in abbozzo, rendeva tutte le linee e le forme del gesso, ma con qualcosa di addormentato e di glaciale, quasi che dentro il masso già corressero fremiti di vita, ma come costretti da sonno, o da paralisi. Guardando fissamente, sembrava di scorgere in quel marmo una sofferenza. Ed io ricorrevo col pensiero a talune parti di Ave, dove la mano dello artista si è malaccortamente arrestata nel tradurre in forma viva il vivo concetto della immaginazione. Quel difetto nell'abozzo dello scarpellino proveniva dalla mancanza delle minutezze di rilievo e di modellature non ancora tentate di riprodurre e che erano precisamente quelle che infondevano la vita nella forma di gesso. Così, nei personaggi di Paolo Desilva e del curato don Saverio Guardi, si scorge il difetto di certi particolari minuti, di certe modellature sapienti che l'artista - e questo un occhio esperto lo vede - ha volontariamente trascurato, fidando troppo non so se nella propria abilità o nella sagacità della mente e nella forza d'immaginazione dei suoi lettori.
E per ciò quei due personaggi discutono astrattamente con lo stesso tono, con lo stesso accento rigido, severo, pieno di formole; e la loro evoluzione per ciò non interessa molto, o interessa unicamente per riguardo della dolce creatura di Livia, la sorella del prete; la quale soffre della loro poca umanità, e questa sua sofferenza timida e chiusa fa riverberare bagliori di vitalità anche sui suoi tormentatori, che finiranno con farla morire bestemmiando.
Tutto il dramma si riduce alla strana lotta di reciproche e avverse influenze del socialista sul prete e del prete sul socialista; lotta che conduce il socialista a farsi prete e il prete a divenire libero pensatore e a buttar la sottana alle ortiche.
Paolo Desilva, per un momento ha ceduto al benefico influsso di Livia, si è sentito rammollire il cuore da un sentimento più naturale che non siano quelli già destatigli dai teoremi di Carlo Marx. Ma sul punto di sposare colei che gli ha fatto intravedere un nuovo aspetto della vita, egli vien ripreso dall'astrazione, dall'utopia.
"Per Livia aveva compreso un tempo il bene d'una sorella; e non gli era bastato, e aveva voluto e ottenuto di più, tanto da rimeritarla d'ogni sua più gioiosa speranza.
"Gentil fiore, ignaro della propria dolcezza, egli la porterebbe seco nel mondo, non più torbido, sereno in virtù di lei, e per lei benedirebbe un giorno alla vita santificata nelle creature del loro sangue.
"Così l'amava.
"Ma appunto amandola così, che inesauribile sorgente di forza per il suo ideale di rinunzia ad essa! Non più un giorno, un'ora di remissione nel suo intendimento; non un minuto di abbandono e di riposo, mai più, perchè lo stimolerebbe senza tregua il ricordo che quel giorno, quell'ora, quel minuto egli l'aveva rapito in un sacrificio crudele e mirabile alla propria felicità..."
Miglior di lui, Don Saverio; il quale almeno, all'ultimo sente bisogno di muoversi, di faticare: è stato troppo sui libri. E fa un giro per la parrocchia, dove - rallegriamocene di sfuggita - il pensatore si lascia un po' vincere la mano dall'artista.
Ma, poco dopo, eccoli tutti e due di fronte, mentre la povera Livia, che vorrebbe sapere qualcosa, si accosta in punta di piedi, tremando all'uscio della stanza dove essi stanno per rivelarsi il mistero della loro mente.
- Non credo più dice il prete.
E Paolo, che ha perduto ogni fede nella scienza e che ha già dichiarato solo infallibile il sentimento, crede che sia un brutto scherzo, una cosa inverosimile.
"Attenendosi al muro, piano piano, ella pervenne nell'oscurità, alla sua camera, e si lasciò cadere co 'l viso in giù su 'l letto.
"Non più amore, non più fede! Per amore degli altri Saverio non aveva avuto uno scatto, una minaccia, un rimprovero, una parola in difesa di lei; per amore di Dio, Paolo l'abbandonava18. Ma questo Dio che le rubava Paolo; ma questo Dio non aveva pietà di lei e ch'ella aveva pregato con tanta fiducia e tante lagrime, che cos'era? - Era una menzogna in cui un uomo d'ingegno quale suo fratello, un sacerdote ardente e puro quale suo fratello non poteva credere più!
"Non più fede e non più amore: la morte."
Eh, no, povera creatura! Dio non c'entra. Dio, quando vuol fare - e fa spesso, anzi sempre - da artista, non fa mai le cose a mezzo; e le sue creature soffrono e fanno soffrire, sì, come il tuo Paolo e il tuo Don Saverio, ma sono creature di carne e di ossa, come Don Saverio e Paolo non sono riusciti a divenire compiutamente.
In quanto a me, ti dichiaro volentieri, dolce e pietosa creatura, che la tua semplice apparizione è bastata a compensarmi di quel che non ho trovato o che ho trovato a metà, in tuo fratello e nel tuo amante.
*
* *
Niente della ben architettata e ben sviluppata orditura di Ave in Santamaura del Corradini. Ma però qual vivo senso della realtà! E con quale agilità i suoi personaggi si muovono e gestiscono e parlano nel momento in cui egli li vede e li mette in azione! In azione? Ho detto male, se per azione si vuole intendere un ordinato intreccio di fatti che procedano, si svolgano, si aggroviglino, tornino a spiegarsi verso uno scopo, verso una catastrofe inevitabile, logica, necessaria, prodotto totale dei caratteri, delle passioni, delle circostanze, dell'ambiente. Si vede anzi che questo è stato sfuggito o evitato dall'autore, scientemente a quel che pare; non saprei dire se per dare alla sua opera d'arte un atteggiamento di alterigia, quasi di sfida, o se per un senso di sgomento davanti alla difficoltà che altrimenti avrebbe dovuto affrontare e superare.
Da ciò il comodo sutterfugio a cui ha dovuto ricorrere per dissimulare il difetto d'orditura, dividendo in cinque quadri, ognuno col loro special titolo, il romanzo; presentando le figure a una a una, o riversando addosso a ciascuna di esse, in certi momenti, un fascio di luce, con l'artifizio di quei pittori che fanno così risaltare dal fondo scuro di una tela, anche tra la folla, un dato personaggio, senza curarsi di giustificare d'onde quella luce provenga.
Questo però non significa che manchi in Santamaura un filo con cui vengano legate assieme le diverse parti; ma è filo troppo evidente e non può star in luogo di organismo.
Senza dubbio, l'organismo, o almeno l'embrione di esso, c'era già nella mente dell'autore. Egli però non ha avuto pazienza di covarlo, di farlo sviluppare e crescere: ha avuto fretta. La rembrantiana figura del vecchio umanitario Romolo Pieri, che ha profuso le sue ricchezze e tutte le energie del cuore e della mente per trasformare il quasi barbaro villaggetto di Santamaura in un centro di lavoro, di agiatezza, di intellettualità, e che non piega e non si pente del suo sacrifizio neppur quando gli si accumulano attorno le rovine della sua casa e i fantasmi dei morti e dei mal vivi della sua famiglia pur tanto amata; la livida figura del giovane Mauro, che le utopie del padre hanno inviato, quasi apostolo, pel mondo, ad affrettar l'avvenire, com'egli dice, con la parola e con l'opera, e che invece gli ritorna a casa misero, corrotto e corruttore di scioperati e straccioni, attratti attorno a lui dalla forte calamita della disperazione e dell'odio; la esile e straziante figura di Annunziata, che vive di rancore, di livore, inaridita internamente per mancanza di amore, come è ingiallita e mezza distrutta dalla tisi ereditata dalla madre; e questo squallido, fatale e doloroso fantasma della madre, Teodula Santa, che si mescola dall'altro mondo, coi ricordi, con gli effetti della sua opra di rassegnazione mistica, alla vita presente dei suoi, e che in certi momenti sembra ancora viva, tanto la sua influenza è tuttavia prepotente: tutte e quattro queste figure egli se le è dovute veder dinanzi con tale nettezza di contorni, con tale energia di colorito, che non ha più voluto badare ad altro; lusingandosi forse che, riuscendo a renderle tali quali si presentavano alla sua commossa fantasia, egli non avrebbe avuto più altro da desiderare o da tentare.
E così ha fatto. Invece di un solo gran quadro, ha dipinto cinque quadri - Il vecchio umanitario, La madre, Annunziata, Le vittime, Mauro Pieri - come gli antichi pittori dal soggetto di una leggenda ricavavano un trittico.
E così facendo, e non potendo intanto ammorzare lo istinto artistico dell'organismo, ha tentato con ripieghi, con artifizi - abili, sì, ma pur artifizi - di correggere il difetto.
Il vero romanzo sarebbe stato quello che i tre personaggi, Romolo Pieri e i suoi due figli, Mauro e Annunziata debbono, ognuno per proprio conto, ripensare e rimugginare e lumeggiare perchè la loro esistenza, il loro carattere e gli intimi movimenti del loro cuore, del loro intelletto vengano giustificati. Il vero romanzo sarebbe stato quello che i lettori intravedono a sprazzi, a scatti, narrato e non rappresentato, a traverso la immaginazione di quei tre personaggi: Santamaura barbara, misera, incolta, sperduta in quella vallata che l'Arno gonfio e lutulento chiude in un vasto semicerchio, fra rocce, colli, pendii, brevi piani e burroni profondi; Santamaura che non ha industrie, nè scuole, nè ospedale, nè società di mutuo soccorso, stretta dalle tenebre dell'ignoranza, sopraffatta dalla forza del male; quella Santamaura che Romolo Pieri vede con soddisfazione, trasformata e che ora "gittando un forte braccio di case, come a significare una continuazione indefinita al di là del gomito dei monti, pare avvinghiarsi a questi violentemente:" quella Santamaura che apparisce a Romolo Pieri, guardante dall'alto delle rocce, "or dalla roggia distesa dei tetti vibrare fiamme vincenti quelle delle nubi rossastre, che correvano sovr'essa; or con le sue costruzioni recenti diffondere una sensazione di freschezza e di chiarezza per l'aria tetra. E le grandi fabbriche, che le stavano attorno, gli sembravano cingerla come una cerchia di forti, e dai lor camini uscivano larghi getti di fumo con maggior veemenza e con maggior resistenza," talchè "essa, essa soltanto rispondeva con grido rassicurante al suo gran cuore angosciato, rompeva essa sola con un fascio di luce le tenebre, che l'accerchiavano."
E non soltanto il villaggetto ridotto da barbaro civile; ma il vero romanzo, ma la tragica azione era appunto quello svolgersi di vicende, di lotte, di dolori, di resistenze, di prostrazioni che, come ho detto, i tre personaggi - Romolo Pieri e i figli Mauro e Annunziata - debbono raccontarci di scorcio, meno efficacemente, senza dubbio, di come ce l'avrebbe raccontato l'autore. E stavo per dire, di come si sarebbe raccontato da sè nell'orditura organica dell'azione, se il Corradini non si fosse lasciato sedurre dalla sua idea di narrare frammentariamente, con scompartimenti che vorrebbero apparir effetto di un processo più libero e più bizzarro di quello usato da tanti altri, ma che invece irrita e distrae; per ragione anche di un pregio di plasticità e di rappresentazione efficace, che si fa molto ammirare nelle parti dove i personaggi non son costretti a digrumare il passato, a far l'esame di coscienza per comodo dell'autore, ma entrano decisamente in iscena e si abbandonano ai moti di passione del momento.
E queste risultano le parti più belle, quasi per infondere un rimorso all'autore. E mi piace di citarne un breve esempio che può stare da sè e forma quadro compiuto.
Mauro, ritornato quella mattina in casa del padre, è da pochi minuti con lui; e già gli accennava la vita di miseria e di umiliazioni trascorsa quando "una donna entrò in bottega, a testa alta, con un gran fagotto tra le braccia. Buttò il fagotto su la tavola, esclamando:
" - Eccomi qua!
" - Romolo e Michele (il vecchio e fedel servitore di casa Pieri) si guardarono in volto. Mauro vacillando mandò un lamento di disperazione e rimase impietrito con gli occhi fissi e tremanti sul padre.
" - Ehi! - riprese la sconosciuta con una voce piena di schiamazzi, rivolgendosi a Mauro. - Volevi che restassi in mezzo ai boschi bello mio? Figuratevi, gente mia, che dalla frontiera a qui siamo venuti un po' a piedi, un po' con le gambe. E vi dico che non ci siamo sostenuti a brodi di cappone! Ehi! bello mio! sei restato di sasso? Portami a casa di tuo padre... Non è mica questa la casa di tuo padre!... A quest'ora glien'avrai già parlato di me!... È questo tuo padre?
"Il suo grosso indice si appuntò verso il petto di Romolo e rimase dritto nel cenno. Parve a Mauro, che il padre si ritraesse, quasi a evitarne l'urto; volse gli occhi in giro per misurar l'effetto della sua rivelazione, mugolò, ammutolì, poi balbettò come avesse confessato un delitto:
" - La mia compagna... Massima.
" - Tua moglie... - sussurrò il vecchio trepidando.
" - La mia compagna - replicò il giovane.
" - Che moglie e non moglie! - proruppe il donnone - Che moglie e non moglie!
" - Mi dicevi che tuo padre era con noi. Te lo sei sognato bello mio! Che moglie e non moglie! Come dire, che se non abbiamo con noi il certificato del sindaco ci si chiuderà la porta in faccia! E noi ce n'andremo! Non ci si perde mai di coraggio, noi! Ne abbiamo passate altre! Vieni, bello mio, vieni!"
E mi duole che la tirannia dello spazio mi obblighi a tagliar corto alla scena.
Ripeto: il vero romanzo era il passato, quel che serve di premessa alla narrazione attuale, la quale avrebbe dovuto esserne l'epilogo, la chiusa dolorosa e tremenda.
- Ma io non ho, appunto, voluto scriverlo, ed ho, appunto, voluto scrivere questo! - potrebbe dire il Corradini.
È nel suo diritto.
Se non che, vorrei scommettere qualcosa contro lui, prevedendo che un'altra volta non farà più così. Come, probabilmente, farà anche l'Albertazzi. Sono tutti e due troppo vigorosi e sinceri artisti, da perdurare in certe meschine disaccortezze di tecnica, da intestarsi in certe fissazioni di processo che tolgono bellezza alla loro opera d'arte, o per lo meno le impediscono di mostrare intera la sua virtù.
Tanto è vero che tutti e due sono urtati contro gli stessi scogli; tutti e due hanno, per dirne una, messo al mondo quasi con identico processo, due figure di donne, Livia e Annunziata, nelle quali si scorge tal parentela di linee, di sentimenti, d'idealità, che, senza le diverse circostanze e gli effetti di esse, le farebbe supporre create da unica fantasia, tratteggiate da unica mano.
Ma non vorrei che questo venisse preso alla lettera. E lo avverto più pei lettori che per i due autori, i quali intenderanno meglio di tutti il preciso significato delle mie parole.
Un'ultima osservazione e finisco.
Ho detto, in principio, che il loro istinto artistico afferma i suoi dritti con l'evidentissimo sforzo di vincere serie convinzioni sempre lì pronte a mortificarlo; sforzo che dà, se non m'inganno, al concetto cardinale delle due opere un significato perfettamente opposto a quello che era prima nell'intenzione dei due autori.
Infatti, che significa la conversione di Paolo Desilva, se non che il socialismo è, più che altro, un sentimento; e che, come tutti i sentimenti non regolati dal positivismo delle ferree leggi naturali, riesce all'assurdo e nuoce a chi lo sperimenta e alle persone che lo circondano?
Che valore ha l'altruismo di Romolo Pieri, se il più immediato dei risultati di esso è la distruzione della famiglia; il dolore e la disperazione seminati attorno; il vizio, la corruzione, l'odio, la morte di coloro che, prima di tutti gli altri, avrebbero dovuto trarne beneficio?
Ho messo innanzi la riserba: - Se non m'inganno - perchè il concetto dei due lavori non si presenta ben chiaro, o almeno non è tale che si possa afferrarlo a prima vista. Ma se fosse proprio l'opposto di quel che risulta, se l'istinto artistico ha fatto forviare i due autori (l'Albertazzi, convien dirlo, forse meno del Corradini), c'è da felicitarsene con loro; perchè quando si è veri artisti, non c'è preconcetti che tengano; la forza creatrice supera gli ostacoli, e fa venir fuori, o tenta di far venir fuori, non fantasmi destinati a raffigurare un'astrattezza, ma, a dispetto di tutto e di tutti, creature vive e sane.