Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Gli ismi contemporanei
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ROMANZI E NOVELLE

IV. GRAZIA DELEDDA - ALFREDO PANZINI

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IV.

 

GRAZIA DELEDDA - ALFREDO PANZINI19

 

Io non ho seguito la signorina Deledda lungo il suo cammino dal Fior di Sardegna, tentativo molto giovanile e non molto promettente, fino a questa Via del male che, non ostante i difetti, è un assai bel lavoro. Se mi dispiace però di averla perduta di vista e di non poter oggi studiare lo svolgimento delle sue facoltà di narratrice - mi è mancato il tempo di leggere le sue produzioni intermedie - son lieto di osservare quanto il suo ingegno si sia maturato e quali promesse ci faccia per l'avvenire; dal Fior di Sardegna alla Via del male il progresso è straordinario, e nessuno avrebbe potuto prognosticarlo dopo la lettura di quel primo lavoro.

È già molto il veder persistere nella novella e nel romanzo regionale lei giovane e donna, e per ciò più facile ad esser suggestionata da certe correnti mistiche, simbolistiche, idealistiche che si vogliano dire, dalle quali si lasciano affascinare ingegni virili. Questa persistenza indica un senso artistico molto sviluppato ed equilibrato, un concetto giusto dell'arte narrativa che, innanzi tutto, è forma, cioè creazione di persone vive, studio di caratteri e di sentimenti non foggiati a capriccio o campati in aria, ma resultato di osservazione; quanto dire studio e creazione di personaggi, nei quali il carattere e la passione prendono determinazioni particolari non adattabili a tutti i tempi e a tutti i luoghi.

La signorina Deledda fa benissimo di non uscire dalla sua Sardegna e di continuare a lavorare in questa preziosa miniera, dove ha già trovato un forte elemento di originalità. I suoi personaggi non possono esser confusi con personaggi di altre regioni; i suoi paesaggi non sono vuote generalità decorative. Il lettore, chiuso il libro, conserva vivo il ricordo di quelle figure caratteristiche, di quei paesaggi grandiosi; e le impressioni sono così forti, che sembrano quasi immediate, e non di seconda mano, a traverso un'opera d'arte; cito, per esempio, quella delle notti passate da Pietro Benu nella solitaria campagna di dalla vallata di Marreri, col pensiero rivolto a Maria Noina, la figlia dei suoi padroni.

"Il paesaggio immenso, triste, silenzioso, coi confini perduti nell'orizzonte reso grigio dalla infinita lontananza, la visione delle montagne lontane, livide su lo sfondo dei continui vapori autunnali, contribuivano a rendere più intenso il raccoglimento triste di Pietro, e in quel raccoglimento la passione lo assottigliava come una idea fissa.

"Raramente qualche mandriano, qualche paesano a cavallo, qualche donnicciuola che scendeva a piedi dal povero villaggio di Follovì per recarsi a Nuoro, attraversavano la china dove Pietro lavorava; un saluto forte e bizzarro risuonava allora fra i ginepri, perdendosi giù, tra i rari olivastri del pendio, poi più nulla, più nulla. Neppure un canto di uccello, il sussulto di un torrente.

"Nel silenzio immane di quel cielo autunnale, sempre ineffabilmente triste, nelle tinte grigio-rossastre delle tarde albe, nell'azzurro profondo e metallico dei tiepidi meriggi, nei vapori violacei della sera, nelle nuvole gravi dei giorni cattivi, quando l'umido irrorava quel rigoglio selvaggio di vegetazioni rossastre, traendone acuti profumi di profonda solitudine, il pensiero di Pietro lavorava, lavorava, dietro quell'idea fissa, dolce e tormentosa nel medesimo tempo.

"Tutti i giorni i buoi andavano su e giù, ed egli li seguiva col pungolo, pensando.

"Aveva trovato una vecchia capanna di rami secchi e di pietre, e restauratala alla meglio, ci aveva stabilito la sua residenza, deponendovi i viveri, formandosi un magnifico giaciglio con fronde di cisto che odoravano e col sacco datogli da Maria. Dormiva e faceva i suoi pasti lassù, con Malafede, che non avendo altro da fare starnutiva ogni momento, abbaiando contro le foglie portate dal vento. Dal pertugio della capanna, funzionante da porta, Pietro teneva d'occhio i buoi che pascolavano in un pezzo di terra più giù della chiesa.

"Di notte la solitudine, per uno strano effetto che si osserva in molte campagne sarde, si animava un po', o almeno non era così completa come di giorno. Calata la sera, Pietro vedeva i fuochi degli altri contadini lontani, sentiva il tintinnìo di gregi pascolanti in distanza, e gli pareva di udire voci umane portate dal vento o nel gran silenzio del buio, e l'abbaiare amico e diffidente di Malafede metteva come una nota vibrata di vita nella solenne tristezza del paesaggio."

Ho voluto trascrivere intere queste due pagine, quantunque convinto che così staccate non possano produrre l'effetto che esse fanno al loro posto, nell'insieme del quadro e dell'azione. Uguali e forse di maggior valore sono le descrizioni del notturno pellegrinaggio delle nuoresi al santuario di Gonare; del pranzo nuziale pel matrimonio di Maria Noina con Franciscu Rosàna; della vita degli sposi novelli nell'ovile della tanca del Rosàna, dov'egli è ucciso a tradimento; della ria in casa Noina con le prefiche che cantano a boche a boche i loro attitidos su la bara del morto; scene di costumi e di usi sardi, parte organica dell'azione, non semplice pretesto per far sfoggio di colorito locale.

La quale azione si svolge con crescente interesse fino all'assassinio del Rosàna.

L'assassino di Franciscu Rosàna è stato quel Pietro Benu innamorato di Maria, per la quale egli ha cercato di arricchirsi con loschi mezzi - che s'intravvedono e che forse avrebbero dovuto esser messi in maggior luce; - quel Pietro Benu che ha saputo ridestare nel cuore della vedova i sentimenti di simpatia e di compassione lasciatigli scorgere quando ella era ancora ragazza. Un baleno di sospetto contro Pietro Benu aveva attraversato la mente di Maria nei primi istanti della disgrazia; ma le circostanze e la profonda dissimulazione del colpevole ne avevano fin scancellato il ricordo. Ella si era unita a lui tranquillamente, quasi cedendo a una fatalità, e già cominciava a rivivere dopo i terribili giorni dell'assassinio di Franciscu e i lunghi tristi mesi della vedovanza. "Una grande felicità le irradiava il volto; spesso ella cercava di nascondere il suo gaudio eccessivo, per un sentimento delicato misto di pudore e di egoismo, che la costringeva a celare la sua intima letizia, forse per non destare invidia, forse per godersela di più, concentrandola tutta nel segreto del cuore; ma gli occhi la tradivano....

Un giorno una lettera anonima arriva da Cagliari che le svela il segreto della ricchezza di Pietro accumulata con furti di bestiame e con spaccio di falsi biglietti di banca, e l'altro reato già sospettato, dello assassinio di Franciscu Rosàna!... Si sente presa da terrore, non osa credere, capisce che la lettera è arrivata con ritardo e che scopo di essa era impedire il matrimonio. Il ritardo le sembra un gastigo del Signore. Ella aveva un po' lusingato Pietro Benu quand'era ragazza, e poi aveva sposato un altro. Il gastigo però non è sproporzionato alla colpa? Ed ora che dovrà ella fare? Accusarlo? Perdonarlo? Perdonarlo, mai! Sarebbe vissuta con lui per l'occhio della società, ma non avrebbe avuto più nulla di comune con lui. "Lui per la sua via, ed ella per la sua"

La scena che segue all'arrivo di Pietro Benu è fatta con abilità, ma non mi sembra quella che ci voleva. Si risente un po' dell'artificio con cui è stata prodotta. La contadina che ha scritta la lettera anonima si trova troppo facilmente - e due volte - in condizione di ascoltare, non veduta, e di sorprendere segreti. Passi il bacio ch'ella ha visto dare dal Benu a Maria; ma l'appuntamento col fidanzato alla chiesa della Solitudine, prima dell'alba, e le brevi parole ch'ella, di dietro la cantonata, ode scambiare fra Pietro Benu e un ignoto intorno all'assassinio del Rosàna sono evidentemente un artificio per arrivare poi alla lettera anonima e allo scioglimento del romanzo. E questo artificio guasta l'ultima scena, alterando il carattere di Maria, facendole prendere una risoluzione quasi melodrammatica, rendendo affrettata e innaturale l'azione. Peccato!

Il romanzo, non ostante anche altri difetti, rimane però opera forte e seria e fa davvero onore all'ingegno della giovane scrittrice. Si vede ch'ella ha già il polso agile e solido per disegnare e dipingere un quadro di vaste proporzioni. Qua e s'incontrano inesperienze di mestiere, ma non intaccano l'ossatura del lavoro. La parte esteriore dell'opera d'arte - la lingua e lo stile, - ha bisogno di molta cultura e di studio; è un po' disuguale, e in alcuni punti trascurata, o esitante, quasi ignorasse in che modo esprimere un concetto, senza servirsi di una formola che soltanto il press'a poco; da ciò un eccesso di forme approssimative: - il vomero brillava come di argento, sentiva come un peso insopportabile; ebbe come una suggestione di calma; gli sembrava di trovarsi come in una casa lieta di benessere; viveva come in un nuovo mondo; dominava sul quadro, una certa barba maestosa e jeratica.

E questo jeratica è anch'esso una stonatura; e ugualmente una stonatura il seguente periodo: Fuori il vento diventava sempre più violento e cantava come un pazzo inno di leggende nella gran notte sublime dei cristiani. E poi che, senza eccedere, la signorina Deledda ha dato al suo lavoro un accento impersonale spiccato, anche nella narrazione dove i personaggi non parlano ma pensano e sentono a modo loro, quel vento che canta come un pazzo inno di leggende, non poteva passare neppur un istante per la fantasia di un rozzo contadino qual'è Pietro Benu.

Minuzie, lo capisco; alle quali è giusto però che la signorina Deledda badi un po' più nell'avvenire, perchè le improprietà della lingua nuocciono alla chiarezza e all'evidenza per lo meno altrettanto quanto i press'a poco. Pel resto, le basta affidarsi al suo vigoroso istinto di artista.

Qualcuno dirà: Ebbene, che ha voluto provare l'autrice con questa sua Via del male? Niente, rispondo io; ha tentato di metter fuori delle creature vive, e c'è riuscita. Non si è smarrita dietro un lavoro di analisi psicologica, artificiale; ma ha fatto sentire, pensare, agire, tutte quelle creature nel loro ambiente, proprio come fa la natura con le sue. Sotto quelle carni, sotto quei nervi ci sono anime che amano, soffrono, errano, scontano le loro colpe, fin le loro debolezze; c'è l'umanità, non astratta, ma reale, sostanziale; e dove c'è l'umanità c'è il pensiero, c'è il concetto: spetta al lettore cavarlo fuori. L'arte pensa a modo suo, creando forme; chi cerca di farla pensare altrimenti la snatura, non lo ripeteremo abbastanza.

Alfredo Panzini, invece, è un artista che pensa troppo, o meglio, che lo lascia scorgere troppo. Ma, rassicuriamoci; in questo volume di novelle che seguono il suo primo saggio narrativo, Il libro dei morti, c'è già qualcosa che ci conforta intorno all'avvenire dello scrittore.

Le quattro novelle che formano il volume Gli ingenui, sono lo svolgimento di uno stesso concetto, e sembrano scritte a posta, quasi altrettanti capitoli di un libro. Ingenua veramente, tra le quattro figure presentate, è soltanto quella della povera donna che chiacchiera, chiacchiera in uno scompartimento del treno da Novi-Pavia; le altre sono figure di persone, più che ingenue, squilibrate; ma non importa. Siamo lontani assai dalle vaporosità, dalle indeterminatezze del Libro dei morti.

In quel primo saggio, notevolissimo senza dubbio, il concetto sembrava stentasse a condensarsi nella forma; rimaneva indeciso, tra qualcosa di fantastico e di reale che lasciava insoddisfatti. C'era, è vero, una sfumatura d'umorismo e d'ironia che pervadeva le pagine dalla prima a l'ultima e dava loro una specie di grato profumo poetico; ma l'opera d'arte rimaneva ibrida, lasciava vedere apertamente la riflessione che avrebbe dovuto diventare forma viva, e non si era risoluta, alla fine, non si era abbandonata intera alla immaginazione, quasi diffidasse di lei o temesse di vedersi tradita e di esser quindi fraintesa.

E fin la riflessione non si sentiva sicura di stessa; era un misto di pessimismo, di sentimentalismo, di codinismo, che evidentemente si trovava a disagio tra le ristrette proporzioni di un'opera d'arte. Tentava discutere per bocca di alcuni personaggi, per bocca del narratore, per mezzo dell'azione fantastica che cominciava e chiudeva il libro, ma aveva la coscienza di dover rimanere insufficiente. E per ciò aveva preso la prima forma capitatale sotto mano, tanto per far qualcosa e velarsi un po' con quella barocca creazione di un morto che non ha trovato Dio nell'altro mondo, e che pure sente e pensa tuttavia nella umida tomba dove l'hanno messo a giacere, e prega e ottiene dalla Morte il permesso di tornare per una sola nottata a casa sua. Povero diavolo! Nella sepoltura ha pensato e ripensato la vita tranquilla e laboriosa da lui menata, - vita appartata, senza grandi gioie, fuori del movimento sociale del suo tempo - e vorrebbe avvertire il figliuolo di non fare come lui, ma di gettarsi a capo fitto nel turbine della società e godere e dominare... Il suo viaggio però riesce inutile. Nella sua casa egli trova ogni cosa come le aveva lasciate: "la stanzetta da pranzo tutta pulita, coi suoi vecchi mobili e odorosi di mele cotogne.... Il suo studiuolo tutto assestato e raccolto, come quando egli vi si recava a leggere o a pregare; lo scaffale con i libri tarlati, messi in fila, il seggiolone di cuoio... Nella camera da letto riposava quella che era stata così buona e mansueta compagna della sua vita. Auliva la stanza di verginità rifiorente in quella casta vecchiezza; e la testa grigia; la faccia scarna era adagiata su d'un alto guanciale e le mani esili giunte sul petto ed intrecciate da una grossa corona... Nella stanza del figliuolo, un lumino ardeva davanti a l'imagine de la Madonna e diffondeva attorno una mite luce. Il giovane giaceva supino ne la beatitudine del sonno, con il capo sprofondato nel guanciale.

" - Perchè non si affrettò a compiere l'opera per cui era venuto e gliene aveva dato potere la Morte?... Forse pensò che, se a quel suo viaggio si era mosso per il bene del figlio, nessun altro bene poteva essere maggiore di quello di cui godeva... Forse lo vinse amore della sua vita passata, forse chi sa, dinanzi alla inesorabile morte gli parve che tanto volesse conoscere il vero come vivere nell'errore, o forse meglio, questo mirabile errore, soltanto come disfida e ribellione dell'uomo contro la fatalità delle cose: fonte perenne di valore e di eroica bontà. - E così lo spirito doloroso ritornò alla sua tomba."

Il lettore si sarà accorto come dall'incertezza del concetto sia scaturita un'uguale incertezza nella concezione artistica di questo morto che sa di non essere immortale e che prega la Morte - un'astrattezza! - e ottiene di poter uscire dal sepolcro e rivedere la sua casa e sua moglie e suo figlio; si sarà accorto come è inutile che un concetto tenti di assumere forma d'arte se non si è deciso di perdere assolutamente la sua natura di concetto e diventare persona.

Di questo difetto si è già accorto benissimo l'autore, e nelle quattro novelle degli Ingenui ha battuto altra strada. Non è riuscito, mi parve, in due tentativi: in quella Nora che non sembra cosa sua, tanto è artificiosa e scadente, in quel Per un ribelle che, più che una novella, è una poco felice bizzarria. Ma in La cagna nera il gran passo è fatto quasi compiutamente; senza quasi nel Da Novi a Pavia, la perla del volume.

La cagna nera è lavoro più largo; ma quel contino scapato che, dopo i rovesci di fortuna della sua casa, crede di riabilitarsi facendo il maestro di scuola, e trova nella vita tante delusioni e tante amarezze per via di una cagna nera, mezza rognosa, da lui caritatevolmente raccolta, è proprio un ingenuo? È uno squilibrato, per eredità, e finisce male: impazzisce. Se non che l'autore si è dimenticato che egli non narra per conto suo, ma per bocca del suo stesso personaggio. E per ciò a tutta la narrazione, bella ed evidentissima, manca la intonazione giusta. Così egli ha dato in prestito al personaggio certe forme che chiamerò retoriche - direi meglio, artificiali - e che, in mezzo a tanta ricchezza ed evidenza di particolari, sono una vera stonatura.

Ecco, per esempio:

"E allora per la calda afosità del tramonto, in quel muto languire del giorno, una figura di donna nuda, maravigliosa e splendente come un sogno, sorse alla mia vista, e si aggirava veloce fra gli alberi come se i piedi a pena lambissero il suolo, e con le braccia sollevate e le palme distese e le chiome accarezzava le erbe e i fiori presso cui trasvolava, come una benedizione.

"Il riso lascivo si era mutato in una voce distinta come una cantilena, e quella voce usciva dalle labbra di quella fata.

"Diceva: "Io sono impudica come Pasife, io sono casta come la Sibilla, io sono forte come Ippolita, io sono sapiente come Minerva: io sono eterna!"

Due pagine intere di questo tenore!

E, prima, aveva fatto lo stesso:

"Ma le onde battevano su la scogliera. Venivano dall'alto verdi, erte, trasparenti come vetro di smeraldo; più e più affrettavano la corsa, spumeggiavano ne la cresta, si accartocciavano e rompevano fragorose e rapide con infinito pulviscolo ai miei piedi.

" - Lo vedi tu, sorella azzurra? Lo vedi tu sorella bianca? - dicevano l'una all'altra, movendomi incontro. - Quegli è matto! Egli era in buono stato; poteva far la traversata della vita senza accorgersene, come un pulcino in una scatola di bambagia. Ne la tua società - mi domandavano - non ce n'erano più marchese vecchie con la prurigine della lussuria; non ci erano fanciulle ereditiere da sposare; non c'erano sul tappeto verde del tuo club buoni da mille da guadagnare?"

Un'altra pagina!

E, prima ancora, l'altro chiacchiericcio dei santi incollati al suo capezzale nella sua povera stanza di professore; udite:

"Tutti convergevano gli occhi verso di me obbliquamente come a domandarsi l'un l'altro con ira e sospetto: che ci fa qui cotesto intruso? Lo sapete voi che ci fa, San Francesco? Io non saccio! pareva rispondesse una Santa Teresa con la faccia tinta di bile per indicarne l'ascetismo. Non vedete che il bambino santo ne piange; fremeva un San Domenico con gli occhi spiritati da accendere da essi soli i roghi. Vattene ai paesi tuoi! Vattene! barbottava il santo protettore della città, che era un vescovo effigiato in gesso, con una barba nera e tonda di brigante ben nutrito. E se non fosse stato gravato dal piviale e dalla mitria che lo insaccava sino alla nuca, si sarebbe mosso e mi avrebbe scacciato a colpi di pastorale!..."

Un'altra pagina e mezza!

Oh, no! A tutto questo chiacchierio artificiale della donna nuda, delle onde del mare, dei santi appesi al muro, basta contrappone il chiacchierio vivo, sincero, meraviglioso della buona contadina che parlava non in dialetto "ma in italiano e con quell'accento mezzo emiliano e mezzo lombardo, pieno d'improprietà e di sgrammaticature" per convincersi del torto che ha avuto l'autore di lasciarsi prendere la mano da questi residui di viete forme e inquinare con esse le belle pagine di La cagna nera. Il suo torto principale è di aver voluto far scrivere allo stesso personaggio i tristi ricordi della sua misera vita, senza badare a immedesimarsi con esso, senza darci, dalla prima all'ultima parola, l'accento, il fremito del ricordo in ogni sua frase, in ogni suo periodo, in ogni sua pagina.

È inutile servirsi dell'artificio di mettere la narrazione in prima persona, se poi questa prima persona dovrà narrare tranquillamente, minutamente, filatamente, come avrebbe fatto qualunque terza persona.

Certamente il contenuto di La cagna nera è assai più elevato di quel che si trova in Da Novi a Pavia; ma in questo però l'autore ha fatto il miracolo della creazione viva; e perciò la povera vecchia che racconta a sbalzi i suoi viaggi nella Merica e le sue speranze e le delusioni e le nuove illusioni, vale, come arte, infinitamente più del raccontatore dei casi della rognosa cagna nera, simbolo del di lui destino. E per ciò la catastrofe del professore, che in un momento di delirio butta in mare tra gli scogli questa sua fatale compagna e assiste allo spettacolo dell'annegamento di essa, e poi fugge via nella notte, ed esclama. "Finalmente, o meravigliosa notte, eri venuta e mi avevi accolto nelle tue ombre, ed io ero entrato nel bagno delizioso e profondo della tua tomba" - ci lascia freddi e delusi. Mentre invece la povera reduce della Merica, che ha fretta di giungere a Mantova e crede di dovervi arrivare presto e apprende che dovrà aspettare ancora molte ore nella stazione di Pavia, sicchè non potrà essere a casa sua per l'ora del pranzo; quella povera chiacchierona, che ha fatto sapere a chi voleva, e a chi non voleva udirli, tutti i fatti suoi e del suo Carletto, c'interessa e ci commove assai più e rimane fissata nella nostra memoria indelebilmente.

"Si scostò, attraversò i binari equilibrandosi alla meglio fra la borsetta e il sacco dei banani; e dopo aver quei chiesto a due o tre impiegati, si rivolse ad un altro dei mandarini che vivono sotto le tettoie delle stazioni e sotto la mitra rossa dei loro berretti, la vidi parlargli umilmente e... poi fece un atto di disperazione; ripassò fra i binari in furia e venne al nostro sportello.

" - Ma sanno, sanno, signori, a che ora si giunge a Mantova? Alle undici... capiscono... alle undici e quaranta!

"Non potè dire altro: una guardia la scostò bruscamente e il treno si avviò. La rividi riattraversare i binari... poi ferma col capo chino sotto la tettoia già deserta, con la borsetta in una mano, nell'altra il fagotto dei banani, i frutti dolci come il miele che mangerebbe suo figlio; e non potei staccare gli occhi da lei sinchè il treno, fuggente sotto la pioggia, non me l'ebbe tolta dallo sguardo."

Niente però toglierà dallo sguardo dei lettori questa veramente ingenua creatura. E il Panzini dovrà essere gratissimo a lei che gli ha fatto fare il gran passo, il difficile salto con cui il pensatore si trasforma in artista. Dopo questo salto c'è da augurarsi che egli non torni indietro. Oramai egli è un altr'uomo; ha dimenticato, ha buttato via ogni artifizio. Rimanga artista, nient'altro che artista sincero; voto schietto, augurio disinteressato di uno che ammira le squisite e forti qualità del suo ingegno, e desidera vederle presto messe in gran rilievo in un'opera d'arte più vasta e più poderosa.

 

 

 





19 G. Deledda, La via del male; A. Panzini, Gli ingenui.



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