Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Gli ismi contemporanei
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ROMANZI E NOVELLE

V. UN ROMANZO REGIONALE

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V.

 

UN ROMANZO REGIONALE20

 

Terminata la lettura di questo romanzo (scene lasciamolo dire alla modestia dell'autore) pensavo al Goldoni e alle sue commedie. Non già perchè tra il soggetto di esse e quello del Povero Don Camillo! ci sia una qualunque analogia; poche cose anzi ho lette piene di tristezza così grande quanto quella che opprime l'animo in queste dugento ottantasei fitte pagine dove sono descritte le gesta dell'alta camorra elettorale napoletana. Pensavo al Goldoni per una questione di forma letteraria; e niente mi sembrava più profondamente vero della distinzione che soleva fare il De Meis tra Forma con l'effe maiuscola e forma con la effe minuscola; l'una riguardante l'organismo di un'opera d'arte, l'altra più particolarmente la lingua e lo stile.<

Quanto rigoglio di vita in quelle creature goldoniane, non ostante tutte le scorrezioni di lingua dei loro dialoghi! Dopo un secolo e mezzo di esistenza, quando le vediamo riapparire sul palcoscenico, ci sembrano uscite allora allora dalla fantasia dell'autore, tanta freschezza, tanto brio, tanta sana giovinezza esse ci mostrano sotto la cipria delle loro pettinature e le foggie del secolo XVIII! È il miracolo della forma (con l'effe maiuscola) soggiungerebbe il De Meis,

A uno stesso miracolo appunto avevo assistito durante la lettura del Povero Don Camillo! Certe asprezze di stile, certi eccessi di napoletanismi, la mancanza di qualunque lenocinio (di quel lenocinio ora di moda, e con cui si cerca di sbalordire la mente dei lettori) non erano riusciti a menomare la vitalità della lunga serie di personaggi che mi erano sfilati dinanzi agli occhi nella Villa Marzano sul Vomero, nella misera casa di Don Camillo, nella sala delle elezioni provinciali nella Sezione del Mercato, in casa dell'onorevole Nicola Doce.

L'impressione era così forte, che tutti quei personaggi mi sembravano già vecchie conoscenze della vita reale, incontrati anni fa; dove e in quali circostanze non riuscivo però a ricordarlo.

Don Camillo de Rogatis, che rifà ogni sera la strada da Villa Marzano a casa sua in via S. Teresa, amareggiato, umiliato, irritato dagli insulsi e grossolani scherzi dei ragazzacci Giovannino Marzano, Mimi Lèpore e Angiolina Marzano, i quali ne hanno fatto il loro zimbello, mi pareva di averlo intravisto tempo fa nell'immensa sala degli uscieri di Castel Capuano, tra la folla di scrivani, di avvocati, di clienti, di sollecitatori, di imbroglioni di cui essa allora rigurgitava nelle ore di udienza; mi pareva di averlo incontrato in qualche salotto borghese, condottovi da un maestro di musica che voleva far risaltare, con l'abilità di cantante e di attore di lui, le proprie composizioni.

Certamente quella figura magra, lunga, ingenua, credenzona, facile ad illudersi e ad essere illusa, che di pagina in pagina prende sempre maggior rilievo, interessa, quantunque umile, più assai di tutti gli altri personaggi che se ne servono pei loro fini, accarezzandola, lusingandola fintanto che hanno bisogno della sua inconsapevole opera nella lotta elettorale, e che buttano via come una buccia di limone spremuto quando non serve più e anzi diventa un imbarazzo per loro; quella figura è così caratteristica, così originale, che non mi stupisce, che arrivi fino a far sospettare al lettore che egli l'abbia davvero conosciuta nella realtà.

E quel Federico Masiello, cognato e agente dei Marzano!

Par di vederlo e di sentirlo quando nel gran salone dei Marzano espone all'onorevole Doce, già un po' imbarazzato dalla rude franchezza di lui, il suo programma elettorale, quello sottinteso, quello che nessuno osa dire a voce alta, tra l'accolta di alti camorristi quali il cavaliere Cercola, don Cristoforo Armaturo, don Federico Balsamo, Ciccio Paloja, giornalista, e parecchi altri.

Il Paloja si era slanciato con entusiasmo in una perorazione infarcita di spropositi, specie di articolo di fondo parlato. Federico Masiello lo interrompe:

- Tu devi scrivere per mangiare; dunque scrivi, ma qui lasciami in pace.

E rivolto all'onorevole Doce, continua:

" - Don Nicolò, vedete, quanti siamo rimasti qui dentro, sentiamo troppa antipatia per le chiacchiere; le chiacchiere sono la broda per gli imbecilli, e noi non permettiamo che nessuno ci venga a trattare d'imbecilli.

" - Bravo, amico mio, siamo d'accordo! - gli gridò il deputato stendendogli la mano.

Ma, con grande sorpresa, vide che Masiello, invece di porgergli la sua, se la ficcò, con certo strano sorriso ostile, nella tasca dei calzoni. Don Nicolino ne restò turbato.

" - Siamo d'accordo? meglio così, chè questo è l'unico mezzo di farmi concepire di voi una buona opinione. Qui stasera vi aspettavamo come il Messia.... Ebbene, poco fa voi avete detto un mondo di belle parole, quelle con cui oggi i vostri pari riempiscono la pancia degli ingenui!... Vi preme tanto il gran popolo napolitano? i suoi interessi? i suoi figli? i suoi stracci? le sue miserie? le pretensioni dei morti di fame?... Poche chiacchiere... Ma che popolo... che grandi interessi generali, me jate combinanno! Qui si ha da fare: ognuno per , Dio per tutti... Oggi all'onorevole Doce torna conto di andare a sedere fra i consiglieri provinciali, e si rivolge a Federico Masiello per riuscire... Domani Federico Masiello si rivolge all'onorevole Doce per un favore, e l'onorevole Doce glielo fa, come cosa stabilita, convenuta. E se l'onorevole trattasse Federico Masiello da volgare seccatore... l'onorevole Doce proverebbe l'amaro! Don Nicolò, questa è la storia: Gli uomini savii, oggi, per riuscire in qualche cosa, han da lasciarsi crescere sul cuore tanto di pelo!..."

Infatti tutti quei signori portano tanto di pelo sul cuore, non provano scrupoli di sorta alcuna. Hanno bisogno di un povero ingenuo per la loro pastetta? Prendono Don Camillo, lo raggirano, lo imbrogliano, lo mettono sul punto di andare in galera; e il disgraziato evita la galera soltanto perchè la sua ragione si sconvolge. Va a finire miseramente in un ospedale di pazzi.

La morale del libro è condensata in quel discorso di Federico Masiello. Morale per modo di dire; giacchè si finisce di leggere con un gran senso di nausea e di oppressione, che fa pensare come mai in quel lembo di terra italiana la bellezza del paesaggio e lo splendore del cielo siano in così crudo contrasto con la vituperevole bassezza degli esseri umani.

Voglio risparmiare al lettore il sunto del romanzo, sunto che sarebbe sempre uno scheletro quand'anche potessi dargli tutta l'ampiezza necessaria. Lo invito a leggere e a non lasciarsi malamente impressionare da certe durezze di forma che l'autore ha, forse, credute necessarie per render meglio l'ambiente napoletano. Non è qui il luogo di discutere se si sia ingannato. Quando in un'opera d'arte c'è tanta effusione di vita e tanto effetto di rilievo, le questioni di lingua e di stile diventano proprio pedantesche. L'autore potrà, un giorno o l'altro, tornar sopra quei piccoli difetti e farli sparire. L'importante era che le sue creature fossero vive, napoletane, tali da non poter essere scambiate con altre creature di altre regioni italiane; e questo scopo supremo è maestrevolmente raggiunto.

Qui nessun riflesso di opere d'arte altrui; ma una diretta irradiazione della realtà. Qui non accade, come in parecchi recentissimi romanzi, di doversi fermare a ogni voltata di pagina, a ogni fine di capitolo, per domandarsi, tra mortificati e stupiti, dove mai quei romanzieri abbiano potuto incontrare nella nostra società persone somiglianti a quei loro fantasmi che agiscono con la incoerenza del sogno, quantunque battezzati con nomi italiani, e condotti a errare e a passeggiare per paesaggi italiani, per vie di città italiane. Qui non accade di aver l'allucinazione di assistere a una sfilata di gente travestita da russi, da norvegiani, da danesi, da decadenti francesi che fa il verso ad altre creazioni dell'arte ammirate e rimaste impresse nella memoria. Siamo in piena natura. Possiamo pure sentir ribrezzo di trovarci in contatto con questi rettili umani, con questi bruti senza nessun ideale; ma non possiamo dire: L'autore ci inganna, si fa beffe di noi!

Non c'è nessun ideale, sì, nelle persone, nelle loro azioni; ma esso vien fuori per contrasto, con quel bisogno, con quell'ansia di respirare un po' d'aria pura, quando il povero Don Camillo, la vittima, vien condotto all'ospedale.

E per restringermi a una questione letteraria che si presenta spontanea se si riflette un po' intorno al problema del romanzo italiano, dirò che il lavoro del Lauria mi ha confermato in una mia antica opinione, cioè: che l'originalità noi dobbiamo, per ora, cercarla appunto nel romanzo regionale, specialmente dove la sincerità delle indoli e dei caratteri non è stata ancora sofisticata dalle ipocrisie della civiltà generale.

Questo lavoro sembra facile, ma non è; giacchè non basta osservare, studiare, fotografare, per poi avere un'opera d'arte originale, quantunque tutto sia ancora semplice, istintivo, senza mistura di influenze estranee nella società regionale. E sarebbe bene che il presente momento della vita italiana contemporanea non sparisca senza lasciar traccie; e sarebbe utile che noi ci abituassimo a discernere quel che c'è di caratteristico nella nostra società, dirò così, elementare, a fine di arrivare gradatamente al lavoro, più arduo, di scoprire quel che c'è di altrettanto caratteristico e particolare anche in quella società più elevata, dove le influenze livellatrici della civiltà generale hanno già iniziato il loro lavoro da un pezzo.

Ah! se ci fossero dei giovani scrittori che invece di perdersi dietro le imitazioni delle creazioni altrui, ci dessero il romanzo regionale piemontese, lombardo, veneto, toscano, romano, come ora ha fatto il Lauria col napoletano (e ce ne aveva regalato già un bel saggio con la sua Donna Candida) e come ha fatto mirabilmente il Verga coi Malavoglia e col Mastro Don Gesualdo! Ma disgraziatamente oggi tutto questo sembra meschino, di poco interesse, quasi che la creazione vitale, in qualunque gradino della scala degli esseri, possa mai dirsi in arte impresa meschina e di poco interesse.

Si vuole il simbolo! Ebbene, nessuno può levarmi di testa che il simbolo, non è produzione artificiale, ma cosa che risulta da , senza intenzioni preconcette, quando l'opera artistica raggiunge le alte cime della vita.

Don Camillo de Rogatis è una povera creatura di carne e di ossa; ma dopo che ci ha fatto sorridere con le sue miserie amorose, dopo che ci ha fatto crollare la testa alle sue meschine ambizioni, quando soffre e piange per la sorella sedotta, quando perde la ragione per l'urto delle circostanze in cui è stato impigliato dalla malignità e dalla perversità dell'alta camorra; quel povero Don Camillo de Rogatis si eleva, si eleva; perde davanti a noi la sua essenza particolare; diventa il debole sfruttato dagli scaltri, la vittima dei più astuti, dei più forti; diventa simbolo senza volerlo e senza saperlo. Ed è questo, se non sbaglio, il migliore, anzi l'unico modo di diventar tale veramente.

 

 

 





20 A. Lauria, Povero Don Camillo! scene della vita napoletana contemporanea. - Catania, Giannotta, editore, 1897.



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