Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Gli ismi contemporanei
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VARIETÀ

I. IL TEATRO DI GIOVANNI VERGA

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VARIETÀ

 

 

I.

 

IL TEATRO DI GIOVANNI VERGA

 

Da parecchi mesi ho sul tavolino l'elegante volumetto della Biblioteca Bijou dove i fratelli Treves hanno raccolto Cavalleria rusticana, In Portineria, e la Lupa che ieri sera è stata calorosamente applaudita dall'affollato pubblico del Valle. Aspettavo appunto la prova della rappresentazione della Lupa per parlare degli intendimenti artistici da cui il Verga è stato guidato nelle sue opere teatrali, e non mi attendevo la buona ventura di vedermi capitare a proposito un articolo pubblicato domenica scorsa su le colonne del giornale fiorentino il Marzocco, dove dei lavori del Verga si ragiona coi criterii della così detta nuova scuola drammatica.

Se ne parla con rispetto, ma infine, si domanda, che cosa sono, se non una intensa rappresentazione di quel che si disse, con vocabolo da macello, "un pezzo di vita"?

E il loro buon successo presso il pubblico viene spiegato così: Il nuovo o l'ignoto, più che il bello, lo attirava per una sola sera (?) a teatro. Nessun sentimento si commuoveva in esso, fuori della curiosità malsana che spinge ogni più quieto burocratico a guardare da dietro gli occhiali su l'alto marciapiede la rissa forse mortale di due popolani nel mezzo della via, in attesa dei reali carabinieri.

La conclusione è che il Verga non si è mai curato di pensare che cosa è e che cosa debba essere la vita, che cosa valga oltre il fenomeno.

Ecco: io non intendo fare una discussione astratta, di faccia ad opere così piene di rigoglio vitale; e quantunque mi sappia battezzato, non so perchè, per verista nel cattivo senso di questa parola, debbo confessare allo scrittore di quell'articolo che non sono di coloro ch'egli crede ignorino fin l'esistenza21 di quella magistrale pagina su Le realisme et le trivialisme dove il Guyau provò che le vrai realisme consiste a dissocier le réel du trivial. Credo che non lo ignori neppure il Verga; egli però non se ne rammenta, vuol rammentarsene quando si accinge a fare un'opera d'arte; si affida alla sua ispirazione d'artista, e fa benissimo. L'artista pensa a modo suo, con la immaginazione, che è la riflessione velata. Quei personaggi il Verga non li ha visti, come crede il critico, li ha fotografati; li ha pensati e ripensati, li ha lungamente rimuginati per intendere il segreto dei loro caratteri e delle loro passioni; e se non li ha giudicati, approvandoli o condannandoli, se non ha palesato la sua opinione intorno ad essi, questo è avvenuto perchè il farlo gli è parso superfluo. Se si è sentito attratto dal loro fascino, se si è deciso a sollevarli nella pura atmosfera dell'arte, vuol dire che egli ha pensato primieramente che metteva conto di occuparsene, che il rappresentarli soltanto valeva precisamente giudicarli, perchè in essi non c'era il triviale ma la passione; la quale, esploda in alto in basso, tra creature popolane o aristocratiche, è cosa elevata, concentramento di forze, complicazione di sentimenti, energia, lotta, catastrofe, dramma insomma. E di fronte ad essa, l'artista non è, come crede quel critico, rimasto indifferente, se ha saputo talmente compenetrarsi col personaggio da sparire dentro di lui; se ha saputo mettergli in bocca la parola giusta, rapida, incisiva, che condensa in poche sillabe lo infinito dell'anima, se è riuscito a indovinare il gesto, l'intonazione della voce, l'azione tutta corrispondente al suo interno stato e a quello degli altri che si muovono attorno a lui.

Rappresentare così vivamente, così efficacemente è pensare; è dar forma al pensiero però, cioè fare opera d'arte. Shakespeare, che il critico invoca, fa forse altrimenti? Giudica forse Otello? Jago? Desdemona? Ofelia? Amleto? Niente affatto. Egli vuol bene a Jago quanto a Desdemona, e forse più. Con che amore non lavora per metterci viva sotto gli occhi quella infame creatura! È diventato lui, la malizia, la calunnia, la insinuazione in persona; si direbbe che lo accarezzi, che lo palpi, che lo volti e rivolti, aggiungendo qua una pennellata, un'altra, servendosi del suo gergo, delle sue immagini, della sua ironia, a fine di farne il più meraviglioso birbante possibile. Lo giudica? Ci dice la sua opinione? Non gli passa pel capo che debba far questo. Così con Amleto, così con Ofelia, così con tutti i suoi mille personaggi. Tant'è vero che, dopo parecchi secoli, noi discutiamo ancora per indovinare che mai abbia egli inteso dirci con quel misteriosissimo Amleto. Se egli avesse dovuto manifestarci la sua opinione sui fatti che espone su la scena, e se li approvi o li condanni, immagina forse il critico che Shakespeare si sarebbe trovato in imbarazzo? Non oso sospettarlo. Appunto, Shakespeare non ha nessuna opinione, si accontenta di riprodurre la vita. Il significato, il pensiero è nascosto dentro i caratteri, dentro le passioni, dentro le azioni. Non importa che Shakespeare abbia scelto per suoi personaggi e principi, e comandanti d'armata e governatori di isole, o principesse, o figlie di cortigiani e di senatori. Si parla di metodo, di forma. Il dovere dell'artista è di adottare questo metodo, di creare questa forma. E così Santuzza va a mettersi a fianco di Ofelia, e la Lupa accanto a Lady  Makbeth. Non mi si fraintenda; parlo di forma, non di contenuto.

Se i contadini siciliani sono creature meno complicate, se sono, come afferma il critico, tutti meccanismi a molla, creda, non ne consegue che il lavoro dell'artista diventi facile ed ovvio. Si provi e vedrà.

E per ciò io non capisco che senso possono avere queste parole a proposito dell'Utopia del Butti, dei Diritti dell'anima del Giacosa, del Trionfo del Bracco, dei Disonesti e di Realtà del Rovetta: Non li discuto nella realizzazione scenica, li ammiro nella loro concezione!

Ma che importa che ciascuno di questi tre drammaturgi prima di scrivere una sola riga del dramma, giudicò, secondo un suo prefisso sistema di morale, le azioni che stava per svolgere? Questo può interessare i pensatori, i filosofi, i sociologi, non l'arte, non il pubblico che va in teatro per sentirsi appassionare, commuovere, o semplicemente divertire. Se la realizzazione scenica di quei concetti è fallita, non c'è più da discutere.

L'importante è appunto che la realizzazione scenica avvenga piena e completa. È assurdo prendersela col pubblico quando questa benedetta realizzazione non arriva a concretarsi. Il pubblico, per esempio, ieri sera ha mostrato di comprenderlo. A poco a poco quegli umili personaggi che scherzano su l'aia lo hanno afferrato; quelle umili passioni - meccanismi a una sola molla, secondo la sprezzante espressione del critico - lo hanno travolto nel loro ingranaggio, lo hanno fatto palpitare a soffrire; e il pubblico ha mostrato che non chiedeva altro di meglio, ed è stato ad ascoltare con vivissima intenzione, ha scoppiato in applausi, anche quando la scabrosità dell'azione avrebbe fatto temere di doverlo offendere. Perchè?

Perchè non vuol pensare? Perchè si accontenta delle pure sensazioni? Non diciamo sciocchezze. Unicamente perchè vedeva sul palcoscenico la vita, la passione, la lotta, non col cinematoscopio dei fratelli Lumière, ma con l'alta proiezione artistica che idealizza, che generalizza; e che ha pensato e fa pensare, aggiungo io, anche a costo di farmi dire che io non capisco che vuol dire pensare.

Lasciamo , per amor di Dio, le stupide denominazioni, di realismo, di psicologismo, di idealismo, di simbolismo: ragioniamo di teatro, di opere d'arte drammatica. E soprattutto non predichiamo bene e non razzoliamo male. Il Maeterlink, il nostro piccolo Shakespeare, come lo chiama il critico del Marzocco (Oh, piccolo, sì molto piccolo! infinitesimale!) che fa? sensazioni, niente altro. Di caratteri, di passioni non c'è traccia nelle opere di lui. L'esteriorità predomina. Una camerata di ciechi si smarrisce in un bosco. Il vecchio prete, suo conduttore, è morto , tutt'a un tratto, senza che nessuno di loro se n'accorga. Tutto il valore di quel lavorino si riduce alla sensazione dell'ignoto di quelle vecchie e di quei vecchi mezzi rimbambiti dagli anni. Il pensiero, l'anima, dove sono?

Un'altra sensazione dell'ignoto (il nostro piccolo Shakespeare si ripete) è nell'altro dramma in un atto, l'Intrusa. Un vecchio cieco ha la sensazione di qualcosa d'ignoto mentre tutta la famiglia è raccolta in un salone, attendendo l'esito della malattia di una malata. Il pensiero, l'anima, dove sono?

E nell'Interno? Una casa dalle finestre illuminate è in fondo alla scena; dietro i vetri si vede la famiglia raccolta attorno a un tavolino. Il babbo legge; le figlie lavorano; la mamma sorregge un bambino addormentato. Sopravvengono un vecchio e un viandante; debbono annunziare che una delle figliuole si è annegata, e preparare la famiglia all'arrivo del cadavere che i contadini trasportano in una barella. Come debbono dare la notizia a quella famiglia ignara della disgrazia che l'ha colpita? Altre persone sopraggiungono; i contadini col cadavere stanno per arrivare: bisogna affrettarsi. Finalmente il vecchio si decide a picchiare all'uscio. Dietro i vetri si vede costui nell'interno; si scorgono i gesti delle persone, il precipitarsi di esse verso l'uscio... e cala la tela!

Quando il piccolo Shakespeare (oh, piccolo, sì, molto piccolo! Infinitesimale!) non si sbizzarrisce con personaggi quasi fantastici, con azioni e passioni artificiali, non va mai oltre la sensazione.

Ah, c'è l'Ibsen che pensa per lui e per gli altri! Ma l'Ibsen fa precisamente come Shakespeare, come il Verga, come tutti coloro che sanno che voglia dire teatro; quando non si rammenta che deve pensare, e far pensare i suoi personaggi, è scrittore drammatico di prima forza. Il male è che all'ultimo se ne rammenta e guasta ogni cosa. E per questo il pubblico si stizzisce con lui.

E torno al Verga. Stia pur sicuro il critico: il giorno che al Verga verrà l'idea di uscire dall'ambiente dove finora si è chiuso, non farà diversamente. Rappresenterà, creerà persone vive e non approverà e non condannerà i sentimenti e le azioni dei suoi personaggi. Coloro che in un'opera d'arte si preoccupano eccessivamente del concetto, o esclusivamente del concetto, sono mezzi impotenti. I veri artisti pensano per conto loro (non possono farne di meno) ma il loro pensiero non si manifesta mai con la caratteristica di puro pensiero: si nasconde, si rifugia nelle creature appassionate, qualunque esse sieno, alte o basse, umili o aristocratiche, che egli butta sul palcoscenico, come fa la natura, in balìa della discussione.

Perchè intanto non dobbiamo tutti esser persuasi di questa sacrosanta verità, veristi, psicologi, idealisti, simbolisti - nel caso che si tratti di veri artisti - è cosa che mi riesce affatto impossibile capire.

 

 

 





21 Nell'originale "esitenza". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



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