Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Gli ismi contemporanei
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IV. LIONARDO VIGO

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IV.

 

LIONARDO VIGO25

 

Ecco un volume straordinariamente, come oggi si dice, suggestivo. Il nome di Lionardo Vigo per molti lettori non vorrà dir niente. Pochi sanno ch'egli fu tra i primi a raccogliere canti popolari; pochissimi hanno sfogliato la Raccolta amplissima (questo titolo, per chi conobbe l'uomo, è una rivelazione) che fu la seconda edizione dei canti popolari siciliani. Nel 1861, per suggerimento del Prati, il Pomba pubblicò a Torino, nella sua Nuova biblioteca popolare, un volume di poesie del Vigo, intitolato Lirica; ma esso, aspro e rude nella forma, non era di quelli che potevano allettare i lettori; e per ciò ebbe poca fortuna. Il suo poema epico Ruggero seguì la sorte di tutti i tentativi epici moderni; si possono, credo, contar sulle dita i siciliani che lo hanno letto da cima a fondo. Il resto della sua produzione, storica e archeologica, è tuttavia disperso in opuscoli, riviste e giornali; e, caso venisse raccolto, servirebbe soltanto a mostrare la versatilità, l'operosità instancabile dell'autore e nient'altro.

Non ostante tutto questo, Lionardo Vigo è una figura attraente. Alcune qualità, e parecchi segni caratteristici del siciliano di più di mezzo secolo fa sono così spiccati anzi esagerati in lui, che ne formano una figura assai interessante per chi vorrà studiare la Sicilia dal '20 al '60, e seguire la trasformazione dello spirito isolano dal '60 in poi.

Io lo ricordo nella sua graziosa villetta La Trinacria a pochi chilometri d'Acireale. Il salottino dove ci eravamo fermati a discorrere era arredato a uso impero, cioè rimasto tale quale lo avevano arredato quando la villetta era stata fabbricata. Si ragionava di Firenze, da cui io tornavo in quei giorni dopo cinque anni di dimora. Da una cosa all'altra, il discorso era caduto sui fatti della sanguinosa sommossa palermitana nel '66, ed io riferivo l'impressione che se ne era avuta nella capitale provvisoria. Per mio conto, mi scappò detto che in quei giorni avevo arrossito di essere siciliano. Egli scattò in piedi, sgranando gli occhi, atteggiando le labbra carnose a un'espressione di sdegno e di commiserazione:

- Cotesti tuoi toscani t'hanno ridotto...!

E non posso scrivere la parola perchè la buona creanza me lo vieta.

Io lo guardai meravigliato e sorrisi. Avevo capito che egli non approvava gli orrori di quelle triste giornate; voleva però che un siciliano non arrossisse della sua patria neppure quando essa, in un momento di aberrazione, si comportava selvaggiamente.

Egli chiamava Palermo: la prima città del mondo!

Si poteva dire che la fantasia del Meli La Origini lu munnu veniva stimata dal Vigo verità sacrosanta. Il mondo è creato da Giove, trasformando in isole e continenti le membra del suo corpo.

 

Eccu l'Italia chi fu l'anca dritta

Di Giovi, e fu rigina di la terra.

 

Ma la testa? (ora cca vennu li liti)

leu dieu è la Sicilia; ma un Romanu

Dici ch'è Roma; dicinu li Sciti

Ch'è la Scizia; e accussì di manu in manu

Quanto c'è regni, tanto sintiriti

Essirci testi.... Jamu chianu chianu.

La testa è una; addunca senza sbagghi

É la Sicilia, e c'è 'ntra li midagghi.

 

Infatti gli ultimi anni della vita del Vigo furono occupati a tentar di provare il primato civile della sua isola diletta, di fronte alle altre provincie italiane. La sua Protostasi sicula vorrebbe dimostrare storicamente e archeologicamente che una civiltà sicula anteriore alla greca e alla etrusca era fiorita colà.

Egli non s'era sbigottito di quest'intrapresa; e la sua assoluta deficienza nel greco e nelle lingue moderne da cui oggi l'erudizione trae materiali di ricerche per le ricostruzioni del remotissimo passato, la scarsezza di documenti e di testimonianze lo rendevano anzi intrepido e sicuro. Un'ipotesi qualunque, la fantastica interpretazione di un testo assumevano per lui valore di autorità, di documento irrefragabile. Procedeva come un bambino che corra su l'orlo d'un precipizio, ignaro del pericolo e sorridente, mentre gli spettatori della sua corsa gelano di orrore.

Gli eruditi, gli storici, gli scienziati sorrideranno: ma chi pensa al carattere dell'uomo che si pasceva e viveva di quei bei sogni, si sente preso di entusiasmo e di ammirazione.

Trattandosi della Sicilia, i suoi occhi assumevano la virtù del microscopio; vedevano tutto straordinariamente ingrandito.

Nella Sicilia, dopo Palermo, c'era un angolo a piè dell'Etna ch'egli amava con lo stesso amore smodato, Acireale. Sfogliando la sua Raccolta amplissima, si vede a occhio la larga parte da lui fatta ad Acireale; e dico fatta perchè mi costa che egli metteva come raccolti colà i più bei canti che gli arrivavano da altri paesi siciliani. Io gli avevo mandato alcune centinaia di canti popolari raccolti dalla bocca dei contadini della mia città nativa, Mineo; rileggendo le bozze di stampa, mi accorsi che parecchi di essi erano stati sottosegnati: Acireale; e me ne lagnai.

- Che importa? - egli mi rispose. - Di Mineo, o di Acireale, rimangono sempre siciliani.

E fu allora che io, non volendo mostrarmi da meno nell'amore del proprio paese, gli feci la burletta di foggiare qualche centinaio di canti, da lui, in buona fede, poi stampati come popolari. Ricordo che in uno di essi m'ero appropriato un noto verso dantesco, voltandolo in dialetto:

 

Donni ca aviti 'ntillettu d'amuri.

 

Seppi, parecchi anni appresso, quando svelai dopo la morte del Vigo la mia marachella giovanile, che il professor d'Ancona, dalla sua cattedra di Pisa, aveva a lungo discusso intorno alla questione se Dante avesse tolto a imprestito quel verso da l'ignoto poeta popolare siciliano, o se il poeta siciliano lo avesse rubato all'Alighieri.

Tornando al Vigo, ricordo l'epico racconto d'una seduta di quell'Accademia siciliana da lui restaurata in Palermo per lo studio del dialetto isolano.

"Lo rivedo - ho scritto un anno fa, e i lettori mi perdoneranno questa autocitazione - lo rivedo in berretto da notte, col collo avvolto da una fascia di lana per la tosse che lo travagliava, con la scatola del rapè in una mano e il fazzoletto a quadrati rossi e azzurri nell'altra, acceso dai ricordi della memorabile seduta. E mi pare proprio di sentirlo parlare tra uno schianto di tosse e l'altro, più roco del solito: - Figurati! Il Di Giovanni, con parola elegante e immensa dottrina, sviscera per un'ora, da pari suo, il tema della discussione, e sembra che non lasci più niente da aggiungere: ma si alza il Pitrè, prende il tema da un altro lato, e lo illumina di esempi, di riscontri, di osservazioni argute, rafforzando la tesi sostenuta dal Di Giovanni. Terzo (non rammento chi, ma egli lo nominò) quando il soggetto pareva già esaurito, lo capovolge, lo sminuzza, lo rimpasta; torrente di erudizione, miracolo di critica storica, ci sbalordisce, ci entusiasma; la tesi del Di Giovanni trionfa! Scatta allora quel demonio del Traina che aveva fatto stupire i torinesi nei comizi popolari, scatta e butta giù quasi con un manrovescio ogni cosa. Erudizione, esempi, critica storica, volan per aria come poveri cenci dispersi da un turbine. E allora, non più battaglia ordinata, ma lotta corpo a corpo, confusione. Replica del Di Giovanni; replica del Pitrè; nuovo uragano del Traina.... Parliamo tutti a una volta, non c'intendiamo più: - Ai voti! Ai voti! - Peggio. Il Pitrè si astiene; il Di Giovanni, nel trambusto, vota contro la propria proposta, credendo di votar in favore.... Oh! Oh!

E la tosse gli troncava in gola l'epica descrizione.

L'Accademia aveva discusso se la parola ciuri, fiore, dovesse scriversi all'antica, xiuri con l'x e l'i, o sciuri con l'esse e l'i, o ciuri con la ci e l'i!"26

Il professor Grassi-Bertazzi, assieme coi brevi cenni biografici del Vigo, ci in questo volume un saggio dell'epistolario di lui e di altri illustri suoi contemporanei.

C'è da notare in esso molte cose. Tempi che ora paiono lontani lontanissimi a coloro stessi che li hanno in parte vissuti, qui rivivono con la loro schietta fisonomia, con ammirabile sincerità.

Tenterò di ricostruire dietro la scorta di queste lettere, l'uomo e i tempi; e lo studio non sarà senza diletto senza insegnamenti.

La sua corrispondenza era conservata con gran cura, in solide buste di cartone, distribuita per mesi e per anni, dopo d'essere stata registrata in un indice alfabetico che doveva facilitare la ricerca di qualunque lettera si volesse, per caso, riscontrare.

Con uguale meticolosa cura egli aveva catalogati i vitigni della sua fattoria di Ballo, con l'indicazione del giorno della piantagione e dell'innesto d'ogni magliolo.

- Caro mio, - mi disse un giorno, mostrandomi quei due cataloghi, - per vivere indipendente, qui bisogna fare l'agricoltore prima, e il letterato poi. Senza la vigna, la letteratura non prospera.

Egli parlava con entusiasmo d'una lunga corrispondenza letteraria col principe Alberto di Sassonia e con la regina Vittoria d'Inghilterra.

Aveva scritto nel '54 un carme, Hyde-Park, che celebrava le meraviglie dell'esposizione di Londra. In una lettera all'Amari, del giugno 1856, trovo raccontate le strane peripezie di quel carme.

"Bene o male che abbia fatto, scrissi un carme all'esposizione di Londra; lo intitolai al principe Alberto, lo feci ben copiare, legare e ricoprire quanto le nostre arti consentono e lo spedii per la via consolare di Messina. Tacquero; riscrissi gentilmente, ma sempre a testa alta. In aprile rispose un colonnello Philipps, rusticamente, non poteva il Principe accettare m. s. perchè invariabile regola glielo vieta.

"Con succosa, stringente lettera, gli mostrai gli usi, le convenienze letterarie di Europa. Or ora mi si riscontra urbanamente, ripetendo non potersi accettare il m. s.

"Ciò posto, è mio desiderio che Granatelli nostro, se è a Londra, o altri a vostro arbitrio (purchè attivo) vada al Palagio di Buckigam, trovi il colonnello Philipps, gli chieda in mio nome il m. s. che è a mia disposizione, e gli dimandi se S. A. R. lo gradirebbe stampato; nell'affermativa chiarisca se anche la dedica potrà stamparsi, ciò che mi piacerebbe; e allora ne faccia imprimere un 200 o 300 copie e ne offra uno ben legato al Principe, e 10 meno riccamente, e se vorrà, anche alla regina".

Il Vigo raccontava che al dono stampato era seguita, per anni, una corrispondenza letteraria. Il Principe scriveva in inglese; il Vigo si faceva tradurre le lettere e rispondeva in italiano. Qualcuno mi ha fatto sospettare che questa corrispondenza sia esistita soltanto nella fervida immaginazione del Vigo: e il non vederla neppur accennata dal Grassi-Bertazzi, che cita in una nota finale i nomi dei più noti personaggi di cui ha avuto sott'occhio le lettere, mi fa credere che il sospetto non sia stato una malignità.

La stampa di quel carme gli costò parecchie centinaia di lire. Il Vigo, anche per le condizioni librarie di allora, stampava a proprie spese e regalava largamente le sue pubblicazioni. Aveva una lunga lista di Accademie e di uomini illustri a cui stimava suo dovere farne omaggio. Credo che soltanto le due edizioni dei Canti popolari siciliani lo abbiano compensato delle spese.

Io lo conobbi nel 1852, al tempo della prima stampa dei Canti popolari. Il tipografo Galatola aveva trasportato fuori dell'Ospizio di Beneficenza una sezione della sua tipografia da servire soltanto alla composizione di quel volume.

Il Vigo veniva da Acireale a Catania, due volte la settimana, con le tasche del largo soprabito piene di manoscritti e di stampe; quando le tasche non bastavano, serviva da tasca la tuba. In un appartamentino affittato a posta ci radunavamo con lui il povero Beppino Macherione (morto di tisi, a Torino, a 23 anni e che il Vigo amava come figlio) Gioacchino Geremia (che allora non accennava neppure di dover essere il disgraziato che fu poi) ed io che allora faceva il second'anno di legge all'Università, il quale fu anche l'ultimo della mia carriera legale. La correzione delle bozze era lavoro diabolico, con quei compositori dello Ospizio, tutti ragazzi dai dieci ai quindici anni e che sapevano leggere appena. E quando, stampato un foglio, scopriva una papera passata inavvertita, il Vigo andava su le furie, e il bravo tipografo Galatola bestemmiava nel suo più schietto napoletano anche lui. Pei ragazzi che gli additavano un errore di stampa prima della tiratura del foglio, il Vigo portava sempre in tasca quattro o cinque grossi biscotti da regalare ai fortunati scopritori.

Com'era orgoglioso di quella raccolta che avrebbe recato trionfalmente il nome del popolo siciliano per tutto il mondo!

Trovo qua e nel volume tracce della mia marachella dei supposti Canti popolari. In uno di essi io avevo messo il nome del conte Ruggiero:

 

Bedda, ca' aviti picciulu lu peri,

D'oru e d'argentu la scarpa v' fari.

Si vi scuprisci lu conti Ruggeri

Ca di lu peri s'avi a 'nnamurari!

 

Il nome del suo eroe prediletto era bastato per fargli supporre che quel canto fosse del tempo della conquista normanna. Ne scrisse a Michele Amari, che gli raccomandò prudentemente di star cauto nell'accettare certe ipotesi.

Il Vigo dovette insistere nella sua opinione, perchè Emerico Amari gli scriveva nello stesso anno: "Mi parlate d'un canto dell'epoca di Ruggiero: se è autentico, è un tesoro tale che sono meravigliato di volerlo lasciare dormire sino all'edizione del volume; pubblicatelo solo, subito; replico è tale tesoro, se vero, che varrebbe un libro intero."

Quando si trattava di cose siciliane, la critica gli faceva difetto. La colpa in questo caso pur troppo era tutta mia. Ma ecco un aneddoto che dimostra come in alcune occasioni il Vigo non comprendesse la ragione di certi scrupoli. Un giorno egli mi faceva leggere su le bozze un canto che la fretta non mi ha permesso di rintracciare nella Raccolta amplissima. Parlava d'una terribile carestia, cosa non rara nel secolo scorso. Due versi di quel canto però mi erano sembrati troppo letterari e non glielo nascosi. E allora il Vigo, ingenuamente, mi confessò che lo aveva un po' aggiustato lui. In quel tempo egli era in uno stato di irritazione per le delusioni politiche che il suo regionalismo gli faceva esageratamente soffrire, e per ciò non gli era parso vero di poter fare, con quel canto, una specie di vendetta. Parlando di campi inariditi dalla mancanza di pioggia, come richiamo alle carestie del tempo di Vittorio Amedeo e come allusione alle condizioni economiche della Sicilia ridotta provincia italiana, egli, rimpastando, o forse scrivendo di sana pianta quel canto, vi avea innestato il verso:

 

Pari ca cci passau Casa Savoia!

 

(Sembra che sia passata di qui Casa Savoia!)

E lo faceva risuonare anzi reboare declamandolo.

Con quale ammirazione però non scrive del primo viaggio nel continente al padre, alla moglie, al figlio! L'intestazione della sua prima lettera dipinge efficacemente il siciliano di mezzo secolo fa: Miei carissimi, padre e signore, moglie e amata, figlio e conforto!

Egli che tante e tante volte aveva scritto dalla Sicilia: spedirò in Italia, o è andato in Italia, intendendo parlare del continente italiano, in quella prima lettera dice, scherzando:

"Vi voglio togliere da un errore. Voi credete che io sia in Italia: v'ingannate. Partii da Palermo e tutti mi diedero il buon viaggio per l'Italia; e sta bene. A Napoli accostai con Riso, Brancaccio, Cammerata etc. all'officina dei Pachetti, e ci chiesero ove volevamo andare. Risposi: a Genova. Pagai il mio biglietto in oro.... e ci augurarono il buon viaggio per l'Italia; e non istà bene. A Genova il signor Donato, mio servo di 24 ore... accompagnandomi alla ferrovia e stringendosi, fra le dita e il cappello levato, un cinque franchi con tanto di Carlo Felice, mi baciò le mani, e mi augurò il buon viaggio per l'Italia: e non istà affatto. Ieri andiedi a passeggiare lungo la Dora alle sei e mezzo e vidi partire un convoglio di 16 carrozze; domandai dove andasse: mi fu risposto: in Italia. Ma in quale parte? io chiedo. A Milano, mi rispose un vicino. Ed io a ridere fra me e me. Dissi questo al Guerrazzi, e mi disse che l'istesso avrei sentito dire a Roma, a Firenze, a Milano: talchè conchiusi: Siamo tutti pazzi perchè stando in casa nostra ce ne crediamo fuori."

E non si accorge di contradirsi, a proposito dell'augurio di buon viaggio datogli a Palermo per l'Italia, scrivendo: sta bene. Per lui, la Sicilia, nel 1861, non faceva ancora parte del regno d'Italia!

Ma questo suo straordinario campanilismo non gli impedisce però di scrivere da Torino:

"Qui sono alberghi e trattorie di cui costà non si ha idea. Palermo è un cesso al loro confronto!"

E da Genova:

"Siamo barbari a lato a Genova!"

Il suo stupore diventa quasi fanciullesco a Milano dove visita le scuole col conte Belgioioso e col cavaliere Visconti.

"Visitai tre scuole pubbliche e rimasi, non incantato, stupito. Non potete immaginare quanto sanno (sic) in lettere, storia, geografia, disegno, geometria! Che sarà l'Italia fra 100 anni?"

E parlando della galleria di Brera e dei quadri di Raffaello, di Lionardo da Vinci, di Michelangelo ivi ammirati, esclama:

"Dio onnipotente a che sublimò l'uomo!"

Così dopo una visita alla Laurenziana scoppia in un:

"Umana superbia, ti annichila!"

A sessantadue anni ammirava così.

Al camposanto27 di Pisa, vedendo le catene tolte dal porto pisano dai genovesi e ora restituite, pensa subito: Così i Pisani ci restituissero le catene tolteci al mille nel porto di Palermo!

Nel continente si era legato con affettuosa amicizia al Prati. In Firenze aveva rivisto Ermolao Rubieri, modesto e valoroso, già conosciuto in Sicilia; era andato a visitare il Tommaseo.

"È quasi cieco, - scriveva al padre - e ancora non tocca i 60 anni! È così povero da non aver lume nella scala, nell'anticamera; e manca di scranna ove sedere. Paolo (Grassi) si adagiò sulla poltrona, io in una sedia vicino a quel venerando rudere della italica sapienza, ed essendo sopravvenuto il Giotti, si dovette pescare in una sala una seggiola! Ha una tabacchiera di carta tinta che venti anni sono costò cinque soldi, ora è sgualcita e scartocciata come un residuo di legno fracido.

"Eppure avrei cambiato quel vecchio arnese con la mia tabacchiera di argento o con la catena del mio orologio!

"Il governo gli ha offerto 4000 franchi all'anno, e li ha rifiutati! Abbiamo parlato due ore di lettere e politica e origini di popoli, e siamo pienamente di accordo. L'ho lasciato con dolore e forse non rivedrò la sua carne! Gli uomini pergiunti a quella maturità di senno dovrebbero ringiovanire!"

E al Tommaseo, pensò nel 1873, richiedendogli, come sacrifizio filantropico, di accettare la cattedra di eloquenza latina e italiana nell'università di Palermo. Il prof. Grassi-Bertazzi non ha pubblicato la lettera di risposta del Tommaseo. Certamente egli rifiutò, quantunque il Vigo, per indurlo ad accettare, gli avesse detto che si trattava di nomina accademica e non governativa.

Fra i personaggi che più spiccano in questo saggio di corrispondenza, è Michele Amari. Le lettere dell'Amari da Parigi dimostrano che tempra di uomini furono gli esuli siciliani del '49.

Dopo la restaurazione borbonica, il Vigo si era ritirato nella sua villa di Ballo su le falde dell'Etna.

"Io me ne vivo qui, lontano da tutti, solo, intendo senza i tristi, ma con qualche amico, che viene a gustare i miei vini e con mia figlia e i miei libri e questi amatissimi villani; e se in tanto dolore di casi si può aver pace, io l'ho pienissima."

Riprende a lavorare alla raccolta dei canti popolari a cui pensava sin dal '45; studia per mettere assieme i materiali della Protostasi della civiltà siculo italica, riprende la corrispondenza con l'Amari, col Giudici, con parecchi altri.

L'Amari nel '56 gli scrive da Parigi:

"Il secondo volume (della Storia dei Mussulmani in Sicilia) già stampato a metà, tarda ad uscire in luce per varie ragioni, delle quali la prima è che io, faticando all'opera per 22 anni, ne consumai il misero prezzo! onde ho dovuto guadagnare il pane quotidiano asciutto in altra guisa: cioè facendo il catalogo dei m. s. arabici della Biblioteca di Parigi a 5 franchi al giorno per cinque ore di fatica, fuori le feste e le vacanze, lavoro e paga sospesi nelle feste, il che torna, in valori di Sicilia, a due tarì e mezzo28. - L'altra ragione precipua che le altre sei o sette ore al giorno che lavoro in casa mia, sono state consacrate alla Biblioteca Arabo Sicula, cioè al fumo senz'arrosto; al dovere immaginario che m'imposi, di dare un terzo volume della Raccolta di Caruso o un 25° di Muratori come vi piaccia chiamarlo; al culto di una divinità che mi ha pagato, dal '48 in qua, d'ingratitudine e dimenticanza. Ma che importa?"

Un mese dopo, il Vigo gli rispondeva:

"Dio ci conceda poterci abbracciare prima di morire!"

Dissentivano intorno a molte quistioni filologiche e storiche. L'Amari lo ammoniva francamente della stortezza di alcune sue opinioni intorno al dialetto siciliano, e di parecchi pregiudizi intorno all'influenza dei mussulmani in Sicilia; ma si volevano bene. Eppure l'antica amicizia non impedì all'Amari, ministro dell'istruzione pubblica del regno d'Italia, di rifiutarsi a compiacere il vecchio amico in una sua pretesa che a lui sembrava o eccessiva o inopportuna per ragioni locali. Il Vigo chiedeva di essere nominato professore di eloquenza nell'Università di Catania o ispettore scolastico nella stessa città: e il rifiuto dell'Amari lo offese; a torto, secondo me. Avrebbe dovuto colmarlo di ammirazione per l'onesto carattere dell'amico.

Era già rivenuto a galla nel Vigo l'antico autonomista siciliano.

Ricordo una sua lettera di cui fui latore al Guerrazzi nell'aprile del '64. Era piena di lamenti, e di scoraggiamenti. Il Guerrazzi la lesse in piedi, con indosso la pelliccia che portava in quel momento ritornando, da una passeggiata, nella sua villa della Torretta a pochi chilometri da Livorno. Leggendo, agitava il capo, torceva la bocca; all'ultimo esclamò: - Ma perchè suonare a morto, mentre tutti suonano a vivo? - E quasi le stesse parole trovo nella lettera di risposta pubblicata dal Grassi-Bertazzi: "Molti, anzi moltissimi i torti del governo: ma e tutti incolpevoli noi, noi che non sappiamo altro che piangere il morto?"

Uguali lamentazioni aveva dovuto scrivere al Rubieri nel 1862. Il Rubieri con buon senso di patriota e di toscano gli rispondeva: "Voglio ammettere che il governo non sia ottimo: ma la Toscana non è meglio trattata della Sicilia, e vi chiedo il permesso di citarla come modello; qua tutto si tollera, perchè se il governo ha dei torti, ha anche delle difficoltà, ed immense. La festa dello statuto riuscì in tutta Toscana egregiamente. La libertà e la nazionalità sarebbero comprate a buon prezzo se potesse sperarsi di arrivare alla massima prosperità con la minima spesa. Come volete non pagar tasse, quando vi sono tante faccende interne da ordinare, e, che più monta, una quistione esterna da risolvere? La Sicilia riscattata, potrebbe dimenticare Venezia e Roma, tuttora mancipie? E come vuol riscattare Roma e Venezia senza un esercito? E come vuole mantenere un esercito senza aumento di tasse? Io non posso che esortar voi e tutti gli onesti ad adoprare tutta la propria influenza, perchè sia compiuta un'opera che lo sturbare sul più bello sarebbe delitto."

Il Rubieri aveva combattuto a Curtatone ed era stato ferito.

Parecchie altre cose si potrebbero spigolare da questo volume; ma io mi fermo qui.

Il prof. Grassi-Bertazzi forse avrebbe fatto meglio attendendo ancora qualche anno e pubblicando compiuta la biografia del Vigo; o avrebbe dovuto essere, forse, più parsimonioso di alcune lettere, (di quelle del Regaldi per esempio) e più largo di altre di altri personaggi.

In ogni modo la sua pubblicazione è importante.

L'affetto di concittadino non ha fatto velo al suo giudizio, e per ciò gli auguro che porti presto a fine la biografia di Lionardo Vigo.

Prosatore, poeta, erudito, il Vigo non lascerà un'impronta nella storia dell'arte. La sua stessa raccolta di canti popolari è stata già superata da quella del Pitrè per gl'intendimenti scientifici con cui questa è stata condotta; saranno certamente superate tutte e due da una raccolta avvenire, che usufruirà dei materiali di entrambe e dei progressi del folklore.

Ma come uomo, con tutti i suoi difetti, con la passeggera nube - a cui egli stesso accennava con rammarico, dandone la colpa ai subdoli consigli del Malvica - che offuscò per un istante il suo patriottismo siciliano, come uomo, ripeto, Lionardo Vigo è assai interessante e simpatico.

Un'ultima spigolatura.

Nel 1836, Cecilia de Luna-Folliero, partendo per Parigi, dove affari letterari e di famiglia la richiamavano, gli scriveva da Napoli: "Se il mio piede dovrà ricalcare la terra che oggi, a scorno dell'umana ragione, sostiene tanti detrattori della nostra gloria patria, i miei pensieri e i miei affetti rimarranno costantemente alla mia dolcissima Italia."

Oggi. Cecilia de Luna-Folliero potrebbe ripetere le stesse parole, anzi mutare quei detrattori in qualcosa di peggio.

 

 

 





25 Giambattista Grassi-Bertazzi, Vita intima, (lettere inedite di Lionardo Vigo e di alcuni illustri suoi contemporanei). Catania, Cav. N. Giannotta, editore.



26 La Sicilia nei canti popolari e nella novellistica contemporanea. Conferenza. - Bologna, Zanichelli, 1894.



27 Nell'originale "composanto". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



28 Una lira e cinque centesimi italiani!



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