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VI.
Chi legge Viaje de Novios (Viaggio di nozze) e Los Pazzos des Ulloa (La cascina degli Ulloa) - due romanzi freschi, vivaci e che paiono sgorgati dalla penna dell'autrice senza nessuno sforzo, stavo per dire quasi sorridendo - non sospetta affatto che ella abbia passato i migliori anni della sua giovinezza a studiare Krause, Fichte, Kant, Hegel, San Tommaso, Descartes, Platone, Aristotile, Darwin, i mistici spagnuoli, e che fino a tardi, di romanzi, abbia letto soltanto il Don Chisciotte del Cervantes e Notre-Dame de Paris del Hugo, capitatile in mano per caso quand'era quasi bambina.
Aveva già pubblicato il suo Saggio Critico intorno al P. Feijòo e gli studi intorno al Darwinismo e ai Poeti epici cristiani, e non solamente ignorava i celebri romanzieri stranieri, ma non sapeva neppure il nome del gran romanziere spagnuolo suo contemporaneo, Perez Galdòs, e appena conosceva l'esistenza di Valera e di Alarçon.
Si può dire che la signora Pardo-Bazan sia divenuta romanziera per caso.
Un giorno un amico le parla di quei due scrittori e le dà a leggere Pepita Jimenes del Valera: e questo romanzo e il racconto dell'Alarçon, Sombrero de tres picos, la mettono su la pista della moderna novellistica spagnuola.
Per lei il romanzo e la novella erano rimasti a Cervantes, a Hurtado, a Espinel. Quella lettura le apre un mondo nuovo. Come! Invece di avventure straordinarie, meravigliose, impossibili, il romanzo e la novella potevano dunque descrivere luoghi e costumi che si vedevano tutti i giorni, e caratteri che si potevano facilmente studiare osservando le persone attorno?
E scrisse Pasqual Lopez, autobiografia d'uno studente di medicina, con lo stile un po' arcaico e ricercato messo allora in voga dal Valera come reazione contro la sciattezza di lingua e di stile che deturpava la letteratura castigliana.
La scrittrice però si ricordò in tempo del precetto del favolista spagnuolo di non parlare oggi come al tempo del Cid Campeador. Il Balzac, il Flaubert, i De Goncourt e il Daudet da lei letti per la prima volta nel 1880, a Vichy, dov'era andata per ragioni di salute, fecero il resto. Il Viaje de Novios, data da quell'epoca.
A proposito dell'influenza della moderna letteratura francese su la spagnuola, la signora Pardo-Bazan ha scritto sennatissime parole, che possono applicarsi alla nostra.
"Compresi - ella dice nei29 suoi Appunti autobiografici - che ciascun paese doveva, sì, coltivare la propria tradizione novellistica, specialmente quando se ne possiede una così illustre come la spagnuola; ma nello stesso tempo compresi che non si dovevano disprezzare i metodi moderni, basati su principii razionali e confacenti all'attuale maniera d'intender l'arte, che non era la stessa di quella del secolo XVII. Mi parve che non erano da rifiutarsi i progressi dell'arte novellistica, per ragione della loro provenienza transpirenaica, riflettendo che da un'occhiata alla storia letteraria delle tre nazioni latine, Italia, Francia e Spagna, si capisce che esse hanno stabilito tra loro, da tempo immemorabile, lo scambio delle idee estetiche e la reciprocanza dell'influsso letterario. Gl'italiani influirono su noi, e noi, in ricambio, abbiamo dato ad essi oratori e poeti che insegnarono loro il nostro stile pomposo; influirono su noi i francesi coi loro trovatori; e noi abbiamo dato un forte impulso alla loro drammatica. La lista dei prestiti da nazione a nazione è interminabile, e non dovrà chiudersi mai; non possono neppure dirsi prestiti: sono piuttosto fecondazioni."
Nella Cascina degli Ulloa i lettori troveranno qualcosa che ricorda la solitaria e vecchia Torre di Miraflores dove è passata la fanciullezza della scrittrice, che aveva una precoce inclinazione alla lettura. "Ero di quei bambini - ella racconta - che leggono tutto quel che loro capita tra le mani, fin i pezzetti di carta di cui il merciaio ha fatto un cartoccio pel pepe o il dolciere un involto per le paste; di quei bambini capaci di passare zitti zitti una giornata in un cantuccio purchè gli si dia un libro, e che per ciò hanno spesso le pesche agli occhi e diventano un po' strabici in seguito allo sforzo imposto al loro debole nervo ottico."
A Madrid veniva educata in un collegio francese protetto dalla Casa reale, e la direttrice, azzimata, con riccioli grigi sotto la classica cuffia, trattava le collegiali peor que a galeotes, dando loro a colazione e a pranzo orrendi intingoli e, per frutta, rancidi pistacchi americani e castagne fossilizzate. "Credo - ella dice - che le teneva in serbo in un armadio finchè non si erano indurite talmente da spezzar i denti delle alunne."
A la Coruña, nell'enorme casone silenzioso dove la sua famiglia si era ritirata, vivendo senza compagnia di bambini, ella scopre una stanza piena di libri. Tra tanti, e noiosi, che trattano di politica, di giurisprudenza e di agronomia, trova la Conquista del Messico del Solis e Gli uomini illustri di Plutarco. Un vecchio entomologo dell'Avana, andato a seppellirsi in un villaggio vicino alla Coruña con le sue collezioni di farfalle e d'insetti, la sgridava per quelle letture, scandalizzato che una mocciosa di dieci anni parlasse con entusiasmo di Bruto, di Catone e di altri dannati pagani della stessa risma. La bambina non se n'offendeva; e siccome il vecchio scienziato raccontava mirabilmente i suoi viaggi, così la bambina gli stava accosto, lo tirava per la falda dell'abito e con voce supplicante gli diceva: - Mi parli d'insetti vostra signoria!
E dietro Plutarco vengono l'Iliade, e la Bibbia. Così ella prende gusto alle letture severe; sdegna di apprendere il pianoforte, stimando cosa indegna perdere il tempo a far scale; e chiede invece che le insegnino il latino. La natura del suo ingegno femminile la salva dal pericolo di riescire una pedantessa. Un consiglio del vecchio e sdentato favolista Pasquale Fernandez Baero, accademico e decorato di non so quante croci, non dovette esercitare piccola influenza su lei. L'accademico se la prendeva contro Hermosilla, uno dei progressisti del '20, poi accademico anche lui: "Piccina mia, non leggere Hermosilla; e se lo leggi, mandalo a fare due passi, mi capisci? Due passi! E scrivi versi a modo tuo; ma niente regole! Niente regole! Le regole guastano tutto!
Nel '69, dopo la rivoluzione di settembre '68 che caccia via la regina Isabella e porta al trono di Spagna Amedeo di Savoia, ella segue a Madrid il padre eletto deputato della Costituente, prende marito a sedici anni, si distrae dagli studi nel vortice della capitale. E se perde la propenzione all'isolamento e la timidezza provenienti dal genere di vita in cui ha passato l'infanzia, sente poi dentro di sè un gran vuoto, una tristezza profonda, un sentimento inesplicabile, simile a quello che si sente la vigilia di un tentativo glorioso, quando ci opprime il timore di non giungere in tempo per compire l'opera intrapresa.
Attorno a lei accadeva un rinnovellamento letterario, ma gliene arrivava appena l'eco affievolita, fra il delicato aroma delle tazze di tè delle serate di ricevimento e il rumor delle ruote nelle passeggiata in carrozza.
Il viaggio in Italia, dopo l'abdicazione di re Amedeo, le fa riprendere un po' di vita intellettuale: ma al ritorno in Ispagna si sente trascinata dal movimento filosofico da cui erano invasi tutti gli spiriti dietro il sistema del tedesco Krause, che aveva trovato colà accoglienza entusiastica; non si parlava di altro nelle conversazioni. Cattolica fervente, ella si sentiva sconvolgere la coscienza dalle teoriche krausiane; e, per contravveleno, ricercava la lettura dei mistici. La irritava la barbarie dello stile dei traduttori e dei commentatori di quel filosofo. Il Kraus non l'appaga, ed ella si rivolge al Kant, poi all'Hegel, e poi ad altri filosofi antichi e moderni. E questa curiosità la costringe a studiar con metodo, a riflettere. "Il mio cervello, - ella dice - si snodò, le mie facoltà intellettuali si misero in attività; e così io acquistai quel peso che occorre a un artista perchè la sua nave non sia sballottata come un tappo di sughero sul mare."
Infatti, il giorno che si sentirà artista non precederà istintivamente su la via del romanzo e della novella; e quando da artista vorrà mutarsi in critico, e prender parte alla discussione della questione ardente, come ella chiamava la questione del realismo e dell'idealismo; potrà parlare in modo elevatissimo, guardare il problema da un nuovo punto di vista, e mostrare che Platone, San Tommaso e l'Hegel non erano stati da lei studiati indarno.
Intanto si prepara alla carriera artistica scrivendo piccoli componimenti in versi. La poesia esercitava ancora su lei un'influenza vivissima per l'elemento ritmico, musicale. Nervosa, impressionabilissima, arrivava a commuoversi fino alle lagrime sotto quella influenza quasi morbosa. Trascurava l'esercizio, più sano e più spirituale, della prosa, quantunque l'esercizio di tradurre da diverse lingue straniere la facesse innamorare del30 castigliano, e le facesse scoprire in esso arcani tesori di rilievo, di armonia, convertendola in infaticabile collezionista di vocaboli, nella cui sola struttura (isolata dal valore che acquistano nel periodo) notava bellezze infinite di colore, di splendore, di profumo, "come il gioielliere che prima di incastrare una pietra preziosa ne ammira la fascettatura, la luce e le qualità."
E si sarebbe arrestata ai versi, se una scortese dimenticanza del celebre poeta Nuñez D'Arce non le avesse reso il servigio di disgustarnela. Glie ne aveva letti parecchi una sera che il poeta era venuto in casa di lei condottovi da un amico. Il poeta li aveva levati alle nuvole, aveva incoraggiata la poetessa a pubblicarli e si era spontaneamente offerto a presentarli al pubblico con una sua prefazione. Lietissima della insperata fortuna, la poetessa lima, riordina e fa ricopiare con bella calligrafia i suoi versi e spedisce il manoscritto all'illustre poeta in Gallizia. "Ma l'entusiasmo era passato, - ella racconta - la buona intenzione del poeta se n'era ita dove vanno a finire spesso spesso le buone intenzioni, e della famosa prefazione non fu mai scritto neppure un rigo. Oh, come sono grata di questo al poeta di Luzbel!"
La Questione ardente è il programma artistico della signora Pardo-Bazan. Pubblicata in articoli settimanali nel giornale L'Epoca, sollevò una vera tempesta di discussioni in difesa e contro. La stessa autrice fu meravigliata di veder "appassionarsi pel suo scritto una nazione che si occupa soltanto di politica, di tori e di donne."
Era naturale che per lei quella questione ardente non rimanesse letteraria soltanto; al concetto naturalista e fatalista dello Zola ella infatti contrappone il concetto teologico cattolico; e nel 1844, in una polemica con Luis Alfonso, critico favorito dei salotti aristocratici, protestava contro l'opinione che faceva di lei un Zola femminino o per lo meno un'attiva discepola del rivoluzionario francese.
Fortunatamente la signora Pardo-Bazan dà al concetto di un'opera d'arte l'importanza che merita; cioè non fa dell'opera d'arte una tesi (e per lei questa tesi dovrebbe essere cattolica). I lettori della Cascina degli Ulloa se ne accorgeranno subito. Se ne accorgerebbero meglio se potessero leggere l'altro romanzo, La Tribuna, dove la imparzialità dell'artista spicca magistralmente.
Nella Cascina degli Ulloa è descritta la decadenza di una nobile famiglia delle montagne galiziane; nella Tribuna, la Galizia moderna, piena di vita e di attività industriale. Quasi per riscontro anticipato all'opera dello Zola, La terra, la Pardo-Bazan ha descritto la vita dei campi nel romanzo La madre natura, che forma la seconda parte della Cascina degli Ulloa. Ma in tutti e tre questi romanzi e negli altri - Il cigno di Villamorta, studio del basso popolo, La Buccolica, pastello di contadina povera, ignorante, istintiva - come pure nelle novelle, l'osservazione diretta e sincera è la principale cura della scrittrice; osservazione che non si rivela come semplice impressione fotografica, ma bensì come impressione riflessa, spogliata dell'accidentale e del triviale. Questa convinzione che l'arte non possa nè debba essere semplice fotografia della realtà è così forte e profondamente radicata in lei, che la spinge in tutti i suoi romanzi a inventare i nomi di città, paesi, provincie dove si svolge l'azione. Non vuole esser legata troppo alla realtà neppure nel paesaggio; se ha bisogno di spostare di qualche miglio una località, vuol farlo senza scrupoli. Così, nel creare i caratteri non si limita a riprodurre fedelmente un personaggio vivente, conosciuto da lei. Cosa, del resto, comune a tutti gli scrittori, anche a quelli che più protestano di voler essere fedeli alla realtà.
Ella ci dà involontariamente un cenno della messa in opera del suo metodo artistico, raccontando come le si svolse nella mente il germe del romanzo La Tribuna. Vedendo uscire un giorno, nella sua città nativa, i gruppi delle sigaraie dalla Fabbrica dei Tabacchi, ella pensava: - C'è qualche romanzo tra quei vestiti di percalle e quelle grossolane mantelle? - E il suo istinto femminile le rispondeva: - Dove sono quattromila donne ci sono certamente quattromila romanzi; il difficile è scoprirli. - E si rammentò che quelle donne brune, robuste, dall'aria risoluta, erano state le più ardenti partigiane dell'idea federale durante la rivoluzione; e le parve interessante studiare lo svolgimento di un principio politico nel cervello di una donna cattolica e demagoga, ingenua per natura e spinta al male dalla fatalità della vita operaia.
Questa impressione la risolveva a osservare da vicino e a studiare quella vita; e la Fabbrica dei tabacchi non era lontana dalla Coruña.
C'è un capitolo del romanzo La Tribuna intitolato: Il carnevale delle sigaraie. La scrittrice aveva assistito, anni avanti, allo spettacolo colà descritto; e fra le maschere di operaie aveva notato una giovanetta di vent'anni, vestita da studente vagabondo, che ballava sul ristretto spazio di un palco, accompagnandosi col suono di un cembalo basco. Svelta, ardita, mandava lampi dagli occhi nerissimi, ballando e scotendo i neri capelli sciolti sotto il tricorno che le copriva la testa. Con freschissima voce ella improvvisava cantando; e vedendo ridere, rideva mostrando i bianchissimi denti; e s'interrompeva per scherzare intorno alla sua inesperienza della rima: - Le dico grosse, eh?
Poco tempo dopo, i giornali portarono la notizia che una ragazza della Fabbrica dei Tabacchi si era suicidata per amore: era proprio la ragazza vestita da studente vagabondo, allegra e chiassosa come un passerotto.
Coi suoi risparmi era andata a comprare un revolver, dicendo che doveva regalarlo a un cugino. L'armaiuolo dapprima aveva esitato; poi vedendo quel visetto vivace ed allegro, aveva venduto il revolver. Ella se n'era tirato un colpo dritto al cuore.
E la scrittrice, raccontando il fatto, riflette: - "che nessuna contadina sarebbe capace di ammazzarsi a quel modo; la media cultura operaia, il raffinamento dei nervi, l'impoverimento del sangue e il continuo e malsano contatto della vita cittadina creano una donna nuova, molto complicata e per conseguenza più infelice della contadina."
Studiare i caratteri principali della produzione narrativa alla signora Pardo-Bazan richiederebbe altro spazio che non quello concesso a questi brevi accenni. La critica conservatrice e spigolistra è stata in Ispagna molto severa con lei. Nel 1886 ella mi scriveva dal suo ritiro della Coruña:
"La mia qualità di signora mi ha fatto soffrire maggiormente per l'ipocrisia della critica e per le contraddittorie pretese del pubblico. Io sono, mi creda, una specie di amazzone, ma ho pure un carattere femminilissimo; che farci? Quando però mi si richiedono cose sciocche, io non so persuadermi che la mia condizione di signora abbia qualcosa da spartire con l'arte; e mettendomi a scrivere, dimentico che porto la gonna e mi sforzo di fare lavoro di artista e niente altro."
La signora Pardo-Bazan ha frequentato, nelle sue corse a Parigi, i salotti letterari della capitale francese, specialmente quello di Edmondo De Goncourt, e li descrive con vivacissima efficacia nei suoi Appunti biografici.
Una volta il De Goncourt le domandò se ferveva anche in Ispagna la battaglia tra l'idealismo e il realismo. E alla risposta di lei, che colà non v'era battaglia perchè gli idealisti non si facevano più vivi, il De Goncourt replicò:
" - Non hanno neppure un Giorgio Ohnet?"
- No - disse la signora Pardo-Bazan.
E il De Goncourt, facendo risuonare quella sua particolare risata ironica e geniale:
" - Come sono fortunati questi spagnuoli! Non hanno un Ohnet!"
Singolarissima è la scena della sua visita a Vittor Hugo; merita di essere tradotta per intero.
"Negli ultimi giorni della mia dimora a Parigi, al mio ritorno da Vichy, conobbi Vittor Hugo, ultimo e grandioso superstite della generazione romantica.
L'autore dello Hernani m'invitò a un suo ricevimento; e dovrei dire: alla sua corte, perchè egli aveva l'aria di un sovrano detronizzato, in quel gran salone illuminato da splendidi lampadari di cristallo veneziano, tappezzato di stoffa di seta, col pavimento coperto da magnifici tappeti, e dove31 da un lato e dall'altro, - in doppia fila, zitti, o parlando sommessamente tra loro, quasi non osassero accostarsi molto da vicino al maestro - stavano seduti gli ultimi cortigiani della maestà decaduta, e i neofiti tardivi e sorpassati del romanticismo.
Vittor Hugo mi fece sedere al suo fianco, e mi indirizzò la parola. Si fece subito, un gran silenzio attorno, per prestare attenzione al nostro dialogo, che da parte mia si riduceva a quelle rare e timide risposte che sono di prammatica in simili udienze. Vittor Hugo dichiarò che riguardava la Spagna come sua seconda patria, mostrò il suo dispiacere di vederla molto indietro su la via del progresso e soggiunse che non poteva essere altrimenti in un paese dove la Santa Inquisizione aveva martoriato senza pietà scrittori e scienziati. Con tutti i riguardi che il galateo insegna quando si tratta di dover contraddire una persona, e specialmente quando questa persona si chiama Vittor Hugo, risposi che le più splendide epoche della nostra letteratura erano state appunto quelle inquisitoriali, e che l'Inquisizione non si era mai mescolata di letteratura, nè aveva mai bruciato nessun scienziato e nessuno scrittore, all'infuori di ebrei, streghe e fattucchieri. Non si mostrò convinto; ed io, spinta dalla mia inveterata passione di difender la Spagna dalle accuse gratuite, mi misi a polemizzare col vecchio, con buone parole, s'intende, con frasi rispettose e carezzevoli; e quando il poeta affermò che nel 1824 ci erano stati ancora degli autos da fè, non gli dissi che commetteva un anacronismo, ma lo pregai di verificare la notizia, aggiungendo che l'Inquisizione, soppressa per decreto nel 1812, era stata soppressa di fatto molti anni avanti. Di faccia a me sedeva una signora che faceva gli onori di casa, credo la signora Lochroy, la quale mi domandò con velata ironia se io avevo studiato la storia presso i padri domenicani. Ed io subito replicai negligentemente che nel Michelet, nel Thiers e in altri storici francesi avevo letto le Dragonate, la notte di San Bartolomeo, il Terrore e altri episodi della storia di Francia, a petto dei quali gli orrori della Inquisizione erano pasticcetti e zuccherini; e soggiunsi che la Spagna non aveva perseguitato Clemente Marot, nè mandato al patibolo Andrea Chènier, perchè gli spagnuoli apprezzano e venerano le Muse, come provava la mia presenza in quella casa.
- Voilà bien l'espagnole! - mormorò Vittor Hugo con mezzo sorriso su le labbra.
E cominciò a incensare la Spagna, il paese, secondo lui, più romanzesco di Europa; e a interrogarmi intorno ai nostri scrittori contemporanei dei quali non conosceva neppure un rigo. La serata trascorse in un soffio, e pareva che pei discepoli fosse rotto l'incanto; si agitavano e parlavano, giacchè in quella sala del trono - vera sala d'inquisizione poetica! - soltanto un incidente casuale, come la presenza di uno straniero, poteva recare l'animazione della controversia e rompere il gelo del rispetto quasi jeratico. Alle dodici, Vittor Hugo mi congedò. Mi regalò il suo ritratto e quello dei suoi nipotini, col suo autografo, e mi baciò in fronte; costume francese, che se in altra occasione, a me spagnuola, sarebbe parso dì cattivo gusto, ora mi riuscì commovente in persona di quell'ottagenario già curvato più sotto il peso degli allori che non sotto quello degli anni, e vicino al sepolcro, dove ormai dorme. Sia pace all'anima sua!"
- Voilà bien l'espagnole! - ripeto io, terminando di scrivere.
E penso, con rammarico, che questo semplice episodio potrebbe insegnare qualcosa a parecchi italiani di oggi.