IntraText Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
VII.
UN PADRE BRESCIANI SPAGNUOLO32
Cioè gesuita e romanziere. Le somiglianze però tra il nostro p. Bresciani e il p. Luigi Coloma non vanno più in là. Coloro che non hanno dimenticato il mirabile studio del De Sanctis intorno all'Ebreo di Verona, leggendo Pequeñeces del gesuita spagnuolo potrebbero credere ch'egli abbia cavato profitto dalle osservazioni del gran critico. Il De Sanctis ha detto al p. Bresciani: " - La parte liberale accoglie in sè, come ogni altro partito, gente di ogni risma; vi ha gl'imbroglioni, gli ipocriti, gli sciocchi, i bricconi. Guardata da questo lato, quanto vi ha di ridicolo! quanto di atroce! La materia questa volta non vi manca. Se avete spirito, fateci ridere; se avete bile, fateci fremere."
E il p. Coloma spirito ne ha davvero e di ottima lega, e bile molta, ma di quella buona, se pure si può chiamare bile la indignazione di un'onesta persona davanti allo spettacolo delle turpitudini umane. Egli è gesuita, sì, come il p. Bresciani, ma, soprattutto, è artista come al p. Bresciani non passava neppur pel capo che essere si potesse e si dovesse. Caso nuovissimo, quasi incredibile, se si guarda la vasta letteratura del loro Ordine, che ha dato scrittori di ogni sorta, artisti no, mai.
Probabilmente questo è avvenuto perchè il p. Coloma si è fatto gesuita assai tardi. Già laureato in dritto all'università di Siviglia, abbandona l'avvocatura per entrare in Marina. Passati due anni alla Scuola navale, n'esce per buttarsi un po' nel giornalismo, nella letteratura, e molto nella politica. Cospirando, compromettendosi pei Borboni, mena intanto vita mondana tra quell'aristocrazia madrilena ch'egli poi descriverà così bene in Pequeñeces.
Un bel giorno, nel '74, una grave ferita di revolver lo fa stare parecchie settimane tra la vita e la morte. Duello? Tentativo di suicidio? Non si è potuto mai saperlo chiaramente. Si sa però che, appena guarito, egli entra nella Compagnia di Gesù, fa il noviziato, prende gli ordini, passa per la fitta trafila di tutti gli esercizi scolastici e religiosi che la regola dell'Ordine impone agli adepti; e dieci anni dopo, dal pulpito di una delle chiese di Madrid, fulmina così rudemente, col suo primo sermone, quell'uditorio femminile, da far scappare di chiesa, a metà di sermone, una delle più grandi dame della capitale. Il caso mette sossopra corte, ministri, Nunzio apostolico; e il terribile predicatore se la cava soltanto con essere rimandato al suo convento.
Ah! gli interdicono il pulpito? Si rivolgerà, da un altro pulpito, quello della stampa, a un uditorio più vasto. Le sue novelle, poi raccolte nel volume Lectures recreatives, attirano infatti verso di lui gli occhi del pubblico. Ma chi poteva sospettare che i Cuentos para niños, El Cazador de venados, Juan Miseria, La Gorriona, Mal-alma, Pilatillo preparassero l'audace e vigoroso futuro autore di Pequeñeces?
Bisogna dire che i gesuiti spagnuoli sono di tutt'altra pasta dei nostri. Pequeñeces è stato pubblicato nel Messaggero del Cuor di Gesù di Bilbao, con l'approvazione dei superiori! I padri della Civiltà Cattolica si farebbero dieci volte il segno della santa croce, se uno scrittore cattolico romano a tutta prova (non oso dire: un padre della Compagnia) andasse a proporre pel loro periodico un romanzo che dipingesse l'aristocrazia nera di Roma o la borbonica di Napoli con la stessa indipendenza e con la stessa crudezza di Pequeñeces.
Giacchè - cosa ancora più strana - il p. Coloma non se la prende tanto coi liberali quanto con gli aristocratici legittimisti, alfonsisti, amadeisti, clericali. Troppi compromessi, troppe venalità, troppi voltafaccia, troppe viltà, troppe sozzure egli ha osservato tra la gente del suo partito borbonico; e ha voluto smascherare tutti: ministri traditori, cospiratori per tornaconto, dame che menano vita da cocotte, grandi di Spagna che meritano il bollo di signori Alfonsi; canagliume, tutti, che della politica e della religione si fanno scherno per nascondere le vanità, l'avidità, le passioni malsane, i vizii schifosi che lor rodono le ossa.
La rigidità monastica impedisce al p. Coloma di giudicare con qualche indulgenza una società che gli pare abbia perduto ogni nozione del giusto e dell'onesto, se, a furia di vigliacche transazioni, essa finisce col chiamare sciocchezze, cose da nulla (pequeñeces), quel che nel vocabolario delle persone oneste dovrebbe venir qualificato assai meno benignamente.
Per ciò egli si paragona "a quei frati del medio evo, che montavano nelle piazze sur un pulpito improvvisato, e di lassù parlavano ai distratti non entrati in chiesa il loro stesso grossolano linguaggio, perchè le rudi verità predicate facessero effetto."
Certamente il p. Coloma, nel suo intento, ha voluto fare una predica; ma, prima che le circostanze della vita lo riducessero frate, madre Natura aveva pensato d'impastarlo artista. Nelle novelle egli si era esercitato a disegnare, a colorire; in Pequeñeces l'artista è maturo; e che artista!
E l'arte lo ha preso così fortemente che il predicatore, il gesuita non si scorgono punto, o così di rado e così poco che non se ne può tener conto. Qualunque più grande scrittore realista, verista, simbolista potrebbe dirsi orgoglioso di Pequeceñcees33; di avervi dipinto (e sarebbe meglio dire inciso all'acqua forte) i ritratti del Marchese Butron ex diplomatico, gastronomo, e l'altro di Pietro de Vivar, detto Diogene pel suo cinismo e la sua cattiva lingua; quello di colui che vien chiamato zio Checco, zio universale di tutti i grandi di Spagna, di tutti i nobili di second'ordine, di tutti i nuovi arricchiti, di tutte le persone più in vista nella politica, nella stampa, nell'amministrazione, non che di tutti gli avventurieri sfacciati e di tutte le anonime celebrità del Toto Madrid e della corte; il ritratto di Giacomo Tellez, marchese di Sabanel, ora borbonico, ora massone, ora alfonsista, e Monsieur Alphonse (il p. Coloma non ha avuto scrupolo di scrivere queste due parole); il ritratto del conte di Albornoz e, finalmente, il gran ritratto, in piedi della contessa Currita (Cecchina) sua moglie, attorno a cui l'autore ha adoprato tutte le audacie, tutte le finezze del suo pennello, che parecchi grandi romanzieri, realisti o veristi, o simbolisti, che si vogliano dire, potrebbero proprio invidiargli.
Ho messo insieme realisti, veristi, e simbolisti perchè il p. Coloma non si è punto curato di appartenere a questa o a quella scuola, ma ha voluto essere, e c'è riuscito, artista sincero e nient'alt ro; e per ciò ha potuto fare la schietta ed eccellente opera d'arte che ognuna di queste così dette scuole letterarie può contemporaneamente reclamare per propria.
Ho riletto in questi giorni nel testo spagnuolo Pequeñeces, letto prima, due anni fa, nella riduzione francese del Vergniol. Mai riduzione non mi è parsa così pretenziosa e ridicola come questa che toglie al lavoro del p. Coloma il suo speciale sapore, sopprimendo interi capitoli, riducendo in narrazione sbiadita quel che colà è presentato in azione vivacissima, ammortendo spesso, senza nessuna ragione, fin l'energia della forma. A un personaggio mondano, per esempio, che, raddoppiando gli erre, parla di una donna datasi alle austerità del misticismo, il P. Coloma fa dire: Como si parra ser santa, se necesitarra ser puerrca! E lo scimmiotto francese annacqua: Comme si, pour devenir une sainte, fallait se travestir en mendiante! Costui però non è francese per niente, e ritrova tutta la malignità della sua razza quando il testo gli porge l'occasione di sporcare qualcosa che riguarda l'Italia. El viejo mamarrachio, dice il gesuita, parlando di Garibaldi; e nel caso da lui raccontato quel vecchio credenzone sta benissimo. Ma al riduttore francese sembra poco, e mette per proprio conto: vieux matamore: nè gl'importa che questo sciocco insulto risulti un controsenso.
- Politica italiana! Es la màs habil - dice Giacomo Tellez.
- Italiana, no, romana! - risponde la marchesa di Villasis legittimista e clericale. - Es la màs sancta!
Ma al ridicolo riduttore, màs sancta non garba, e mette un altro sproposito: C'est la plus loyale!
Questo sia detto di passaggio per coloro che, ignorando lo spagnuolo e non trovando di Pequeñeces una traduzione italiana, dalla curiosità ora fossero spinti a ricorrere alla riduzione francese. Invece della genuina fisonomia di un gesuita romanziere, troverebbero il buffo travestimento di esso in laico romanziere francese.
L'ignorante riduttore non ha capito che una delle attrattive del libro, e non la minore, nella sua riduzione, è già sparita; intendo dire quell'elevata tendenza religiosa che differenzia questo romanzo di costumi e di caratteri dai romanzi consimili.
Niente di straordinario ci sarebbe infatti se lo Zola, o il Daudet, o il Bourget ci avessero dipinto Currita d'Albornoz, e la società madrilena che le sta intorno; l'importante, il piccante consiste principalmente nel sapere che colui che l'ha dipinta è un gesuita. E questo piccante sparisce quando l'imbecillità d'un riduttore si permette di condensare in otto righe quella ventina di pagine che raccontano la conversione e la morte del povero Diogene, del vecchio cinico sporcaccione, caduto da una carrozza, e abbandonato in mano dei padri del collegio gesuitico di Guipùzcoa dagli amici e dalle amiche che non vogliono interrompere, per assistere il disgraziato, una bella partita di campagna.
Currita d'Albornoz! Ma si direbbe che il p. Coloma l'abbia conosciuta molto da vicino, a Madrid, nell'alta società al tempo che egli era cospiratore borbonico e assiduo frequentatore dei ritrovi eleganti, tanto è viva questa terribile figura di donna e così profondamente studiata!
Non è alla sua vigilia d'armi di donna galante quando la prima volta ella ci apparisce dinanzi nel salotto isabellista della duchessa de Bara. Ha per amante un giovanotto inesperto da lei ammaliato e di cui ha fatto, come al solito, l'amico del marito.
Nel salotto della duchessa de Bara, gl'isabellisti sono agitati, indignati; si è sparsa la voce che Currita abbia chiesto di esser nominata Camarera major della Cisterna, come gli isabellisti sprezzosamente chiamano la regina Vittoria, moglie di Re Amedeo I. Al suo arrivo, Currita è salutata da un ironico scoppio di applausi, al suono dell'inno reale amadeista: ed ella, fingendo di non capire l'atto ironico di Gerito Sardona che, servendosi d'un vassoio da tè per cappello, imitava l'angoloso e serio saluto di Re don Amedeo, risponde con la caricatura del cerimonioso saluto della regina donna Maria Vittoria, e s'inoltra prodigando a destra e a manca eleganti saluti di gran signora di Corte.
Quella nomina è un suo intrigo per poter far dire che ella l'ha rifiutata e mettersi più in vista tra il partito di opposizione.
L'ha fatta chiedere dal marito al Ministro d'oltremare; ma il marito invece che a voce, com'ella gli avea raccomandato, l'ha chiesta per lettera. Al rifiuto di lei, il Ministro indignato va a domandarle la ragione dell'insulto; ella nega sfrontatamente di aver mai pensato a quella carica; e quando il ministro le mette sotto gli occhi la lettera del marito, ella gliela strappa di mano e la butta nel fuoco del camminetto. Un altro suo intrigo è la perquisizione che la polizia viene a farle in casa, per ordine del governatore di Madrid a cui ella, con lettera anonima e calligrafia alterata, avea dato la notizia che importanti documenti di una congiura politica si sarebbero trovati nel palazzo Albornoz. La perquisizione riesce vuota, ma l'ispettore ha però portato via un mazzo di lettere profumate trovate nel cassetto a doppio fondo d'un armadio, in camera di lei. La calligrafia di queste lettere amorose, scritte da Currita al predecessore di Juanito Velarde, e ritirate dopo la rottura, mettono il Governatore in caso di riconoscere l'autrice della falsa denunzia. Le lettere, per vendetta, vengono inviate al marito. La stampa se ne mescola: lo scandalo è grande. Ma Currita che pensa soltanto a sè, vuol vendicarsi dell'impertinente direttore della España con honra, e indìce all'amante di sfidarlo. Il povero Juanito Velarde riceve una palla in petto e muore. Tutta Madrid si commove pel caso dell'inesperto giovanotto, e accusa Currita di averlo spinto a morire.
- Che ho da vedere io con lui? - ella risponde a un'amica - Gli ho io detto di battersi forse? Chi gli ha ordinato di fare il paladino? Il mestiere di Don Chisciotte è pericoloso, cara mia!
Ma quando mezza Madrid le affluisce in casa per opprimerla di ipocrite condoglianze cortigianesche, Currita recita mirabilmente la sua parte di inconsolabile. Povero ragazzo! Se ella avesse potuto sospettare! Ma come mai figurarsi!... E quella povera mamma rimasta senza sostegno, in cattive condizioni finanziarie!... Ella e suo marito avevano pensato a lei, mandandole un soccorso in rendita, presso la Banca di Spagna!
Currita però non diceva che quei sedicimila duros (quasi ottantamila lire) ella li avea vinti, ironia della sorte! con un biglietto di lotteria trovato tra le sue lettere mandate a riprendere in casa del Velarde lo stesso giorno della morte di lui! Erano una restituzione e niente più.
E così ella assume la posa di martire politica, e fa dimenticare che è un'adultera sfacciata, una madre senza cuore pei suoi due bambini, abbandonati alle mani dell'istitutrice e poi messi in collegio quando l'età li rende impacciosi in famiglia.
Paquito ha sgorbiato e impiastricciato di colore un ritratto del padre pel suo giorno onomastico. È una figura mostruosa, ma Paquito e la sorella Lilì si figurano che la buona intenzione possa valere qualcosa. Sono penetrati nello studio di pittura della mamma e hanno messo quel capolavoro sul cavalletto. Sentito rumor di passi nella stanza accanto, si nascondono; ed ecco la madre e il suo nuovo amante Giacomo Tellez, marchese di Sabanel, che parlano di cose che i bambini fortunatamente non possono intendere. Visto quello sgorbio, imitato da una fotografia, riconoscono dalle due ciocche curve su le tempie, alla Napoleone terzo, chi si è voluto rappresentare; e l'amante, ridendo, prende un pezzetto di carbonella e, spinte molto in fuori le due curve, disegna l'emblema di quel che era moralmente il conte di Albornoz, marito di Currita. Poco dopo i bambini, uscendo dal loro nascondiglio, veggono lo sfregio fatto al ritratto del padre; non capiscono di che si tratti, ma capiscono che si tratta di uno scherno e di un'offesa.
Questo nuovo amante di Currita la domina, la tiene sottomessa, la spoglia. Ella è così pervertita, che non ha onta di prendere un antico reliquario di argento dalla cappella di famiglia, bruciar le reliquie per superstizioso rimorso, e regalare quel prezioso oggetto d'arte all'amante, facendone una cornice pel proprio ritratto.
Cacciato via Re don Amedeo, spenta la repubblica, intronizzato don Alfonso, Currita è più in voga, più alla moda che mai. Il suo amante, che ha tradito re Amedeo, la massoneria, gli isabellisti - e tradirebbe re Alfonso, se ne avesse il tempo - appena elevato a grande di Spagna dal nuovo re, cade sotto il giustiziere pugnale della massoneria. Allora quella stessa società che non le avea fatto colpa della morte di Juanito Velarde, le fa carico della misteriosa morte del marchese di Sabanel; e, tutt'a un tratto, Currita vede disertati i suoi ricevimenti, e si sente sfuggita, evitata fin nella sacra cappella del collegio dove è la sua Lilì.
"Ella sentì aumentare la desolazione che la opprimeva. Una sorda irritazione, un amaro sdegno la spingeva a rimescolare, a riandare con acre piacere tutte le sue vergognose immondizie pubbliche, tollerate, consentite, applaudite come amabili cose da nulla da quella stessa Madrid che ora le voltava le spalle; ed ella gliele ributtava in faccia, gridando:
- Sono ora forse peggiore di prima? Dunque una calunnia ha per te più valore di tutto quel fango con cui ti ho lordato il viso?"
E l'indignazione contro la ipocrita e repugnante ingiustizia della società produce nel cuore di lei la conversione, che altre tristi circostanze non avevano saputo neppur farle balenare davanti gli occhi come possibile.
Questo è appena un abbozzo a tratti di lapis della figura di Currita de Albornoz, la trista eroina di Pequeñeces.
Ella vien fuori, viva e terribile, dalle pagine del libro, circondata da una folla di altre figure degne di lei: uomini politici, uomini mondani, donne leggere e corrotte, donne buone ma deboli, incapaci di resistere al fascino del vizio trionfante, madri onestissime che pur non temono di affidare a una Currita le loro immacolate figliuole. E tra tanto fracidume, tre figure elette, accennate, sfumate, ma abbastanza vigorosamente trattate per produrre il contrasto: la marchesa di Villasis, la vedova del marchese di Sabanel che si è data da molti anni alla vita religiosa più austera, e il P. Cifuentes, gesuita, lor confessore.
Anche qui l'artista ha felicemente preso la mano al predicatore. Quanta parsimonia! Quanta misura!
E la bellezza dell'opera d'arte fa fin dimenticare quel po' che può esservi di molto spiacevole per un italiano. Quanti italiani sono, contro la loro patria e i loro compatriotti assai più ingiusti e più sgarbati di questo bravo gesuita spagnuolo! Dei nostri cari vicini non parlo!