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MICHELE LA SPINA - IGNAZIO ORLANDO
I.
Due artisti diversi, scultore il primo, incisore in legno il secondo, e tutti e due poderosi e modesti, e per ciò quasi ignorati.
Ignorati, intendo, dal gran pubblico, di quello che dà la fama, la gloria e il resto; giacchè gli artisti, gli amatori d'arte conoscono benissimo il valore di Michele La Spina e ne ammirano da molto tempo le opere; e i pochi che hanno potuto osservare i lavori xilografici del giovane Orlando, lo hanno già in grande stima e gli prognosticano - facile prognostico - un lieto avvenire.
L'uno è all'apogeo della sua forza, l'altro comincia ora la sua carriera. Sono lieto di farmi guida dei lettori nello studio dell'uno e nelle sale dell'Associazione della Stampa dove si trovano attualmente esposte parecchie incisioni dell'altro.
Al numero 113 di Via Margutta: stanzone a pianterreno, ingombro di bozzetti e di busti in gesso, di bozzetti e di busti in plastichina, di qualche bronzo, parte rizzati su rozzi cavalletti, parte posati su casse d'imballaggio, tra tavole, legni, arnesi di scalpellini, seghe, compassi addossati al muro o infissi a un chiodo; pareti nude, tinte di colore di feccia di vino, qua e là scorticate e sgorbiate; tettoia a vetri in mezzo; grande imposta vetrata a ponente, dietro la quale si affacciano le verdi cime di un albero e i festoni di una pianta rampichina con le foglioline di smeraldo trasparenti al sole; a destra dell'entrata - a cui fa da paravento, in modo assai primitivo, una falda di tela grezza - una stanzetta che sembra bottega di falegname; casse, tavole, legni, forme e oggetti di ogni sorta accatastati alla rinfusa, lasciano libero appena il passaggio alla scaletta di legno del mezzanino, dove l'artista si cambia il vestito prima di mettersi a lavorare: ecco lo studio di Michele La Spina.
Entrato, il visitatore non si raccapezza, non sa dove fermare l'occhio. Lo attrae subito la gigantesca testa del Garibaldi, attorno alla quale lo scultore spende, sempre incontentabile, i momenti che i lavori in corso gli lasciano liberi. Ma ecco, lì accanto, un Faunetto di piccole dimensioni che sembra un bronzo antico, uscito assai maltrattato dallo scavo. Non è un bronzo, ma un abbozzo in plastichina, abbandonato da un pezzo; la mano sinistra gli è cascata; sul braccio destro serpeggia uno spacco; la polvere ha sparso su tutta la figura la strana pàtina che gli dà l'aria di cosa antica. Intanto il visitatore, con la coda dell'occhio, ha intravisto più in qua un busto caratteristico e lascia il Faunetto per esso. Quella testa con la faccia rugosa, coi baffi ispidi, appuntati, col collo lungo, secco, circondato da ampio goletto, gli dà una sensazione irritante, che vien subito cancellata dal vicino mezzo busto di donna matura. Le linee dolci e benigne, dalle quali trasparisce un gran carattere di fermezza e di semplicità, fanno restare pensoso il visitatore ora davanti il gesso, ora davanti il bronzo, che lo riproduce con qualche variante negli accessorii. Scosso da così opposte impressioni, il visitatore vorrebbe tornare a osservare la colossale testa del Garibaldi; ma a un tratto gli viene quasi incontro, - altero, col possente naso aquilino dalle narici dilatate, con le labbra screpolate e atteggiate39 a un'amara espressione intellettuale, che si rivela anche nello sguardo e nella fronte circondata da capelli ricciuti e cadenti in zazzera dietro il collo - gli viene quasi incontro un busto in plastichina, più grande del vero. L'abito talare, della foggia del secolo passato, fa riconoscere in lui l'abate Nicolò Spedalieri. Infatti dietro di esso si scorgono i modelli in gesso della statua intera e del monumento col piedistallo e con la base, che ebbero insieme col busto, nel concorso bandito un anno fa, i suffragi unanimi del pubblico, se non quelli (e si vedrà un giorno con quanta giustizia) dei giudici del concorso. La espressione di quella testa, che pare abbia su le labbra semiaperte la parola già scoccante, costringe il visitatore a volgere attorno lo sguardo; ed egli si sente rinfrancare dall'ilare sensualità di quel vecchio Satiro che si protende in avanti, con le orecchie ritte e la barbetta e i bargigli caprini e un che di malizioso e di bestiale negli occhi lustri e nelle labbra carnose che gli fendono le gote.
Allora il visitatore sente più vivo il bisogno di raccapezzarsi, e si ferma e si raccoglie, prima di ricominciare a osservare partitamente, posatamente; ha già capito che non si trova in uno dei soliti studi di scultura commerciale. E per riposarsi, osserva l'artista che gli sta vicino, zitto, intento a spiargli, con ingenuità sorridente, le impressioni su la faccia. Bruno, magro, coi capelli e la barba brizzolati, con la fronte solcata da rughe, gli occhi neri e penetranti e una nervosa vivacità nei movimenti e nei gesti, Michele La Spina rivela nella persona le supreme qualità della sua scultura. Si capisce come quegli occhi così acuti debbano scrutare il modello nelle più intime fibre e strappargli il segreto d'un carattere, d'una passione dominante; si capisce come quella mano vigorosa, con le vene e i muscoli aggrovigliati a fior di pelle, possa violentare la creta e darle tal forma da simulare e, stavo per dire, da superare la stessa vita. E avrei detto benissimo; perchè l'arte fissa quel che nella natura è fuggitivo: l'espressione più evidente e più importante di un carattere, sorpresa a traverso le accidentalità e le ipocrisie sociali; arresta una mossa della testa e dello sguardo, un'increspatura delle labbra, una ruga della fronte, che poco dopo si muta e si cancella per riapparire di quando in quando, riapparire e sparire.
Così la persona dell'artista, per rara eccezione, illumina e chiarisce, illustra come si direbbe oggi, le opere di lui. Così il visitatore si spiega la straordinaria diversità di fattura che differenzia un busto dall'altro, una figura dall'altra. Chi altrimenti potrebbe dire, per esempio, che quella delicata personcina del Faunetto intento a lavorare e ad accordare la sua siringa, con quel visetto dove la forma animale si fonde deliziosamente con la forma del fanciullo umano; che quel corpicino esile, asciutto, composto con spontanea grazia in un atteggiamento che ne fa risaltare le bellissime linee, con una gamba dritta e ferma sul suolo, e l'altra piegata per appoggiarsi al masso là dietro; chi potrebbe dire che questa figurina - che par creata con un soffio, senza stento, in un minuto di ispirazione, quasi in un minuto di intuizione atavica in cui è stata sentita di nuovo e rivissuta l'ibrida esistenza degli esseri primitivi - sia stata plasmata da quella stessa rude mano che ha menato violentemente la stecca, ha strisciato nervosamente col pollice per modellare la maliziosa figura del Satiro, altra meravigliosa intuizione del mondo primitivo, reale o fantastico non importa, probabilmente più reale di quel che non vogliamo immaginare?
Nel Faunetto infatti c'è l'incoscenza, la delizia di vivere, il rigoglio fresco e puro dell'organismo, il serpeggiamento quasi vegetale della forma non ancora mortificata dall'uso. Stando a fissarlo, si ripensa un cielo purissimo, una campagna verdeggiante fiorita, montagne luminose nel lontano orizzonte, e, fra gli alberi, un'azzurra striscia di mare riluccicante di riflessi sotto il sole meridiano; squarcio di mondo antico, quale noi lo intravediamo talvolta a traverso qualche distico dei buccolici greci.
Invece il vecchio Satiro ci fa sognare boschi ombrosi, tronchi di alberi dalla scorza scabrosa e sparsa di muschi e di funghetti, cinti di rovi e di liane: Ninfe dormenti, spiate, insidiate: fosche visioni di sensualità irrompente, fra gridi rauchi e cachinni, dove prende suono la maligna bestiale compiacenza della propria forza muscolare.
Se questa suggestione avviene, e intensa e persistente, vuol dire che la forma ha detto quel che doveva dire, ha compiuto il suo naturale prodigio.
La potenza psicologica dell'arte del La Spina si rivela immensamente meravigliosa in tutti quei busti, davanti ai quali il visitatore è forzato ad arrestarsi stupito. Quelle teste e quelle fisonomie non sono solamente rassomigliantissime agli originali, ma hanno tutte qualcosa di particolare da mostrarci, che l'occhio arguto dello scultore ha intuito, e la mano, pronta e sicura, ha poi reso con felice evidenza.
E l'artista è oramai così esercitato in questo genere di scrutazione, da poter facilmente indovinare particolarità di forma che il suo occhio non ha veduto, quando è stato costretto a interpretare una scialba fotografia, e ricostruire, come faceva il Couvier, dalla linea della fronte tutta la forma del cranio, cavando fuori piani e protuberanze che i parenti del morto hanno riconosciuto esattissimi, come gli è accaduto pel busto del signor Gaetano Garufi.
Ultimi resultati di questa meravigliosa penetrazione nelle intime profondità psicologiche, oltre quello del Garufi, sono i ritratti del signor Gioacchino Fichera, del dottor Tomaselli professore di clinica medica nell'università di Catania, del signor Francesco Badalà e del signor Mariano Campione; cinque capolavori che Michele La Spina ha avuto il torto di non esporre al pubblico per eccesso di modestia, per ormai invincibile avversione a tutto quel che può prendere la più lontana apparenza di ciarlataneria.
Egli li ha amorosamente modellati nella pace quasi campestre della sua casa di Acireale, li ha fatti fondere zitto zitto in Roma e li ha subito spediti ai fortunati committenti, come se non mettesse conto di incomodare la gente e farla andare, per così poco, sin in fondo a Via Margutta!
E per tale eccessiva modestia40, per tale repugnanza di farsi avanti e di dar gomitate a questo e a quello, Michele La Spina è noto a pochi, e non ha potuto afferrar l'occasione di mostrare al gran pubblico quel che egli vale e quel che può.
E così si capisce com'egli, e i rari modesti e valenti suoi pari, debbano intanto veder trionfare per le vie e le piazze delle famose cento città e della lor capitale tante sconcezze monumentali che i posteri certamente abbatteranno, vergognandosi di esse per l'arte, per l'onor di Roma e dell'Italia; e debbano veder accolte nella Galleria dell'arte moderna parecchi orrori scultorii che starebbero bene soltanto in qualche salotto di salumai, o di mercanti di campagna mezzi rinciviliti.
Michele La Spina è modesto sì, ma non inconsapevole del suo valore. E in quei giorni di scoraggiamento e di lassezza, che sopravvengono anche ai più audaci e ai più forti, quando sembra che tutto crolli dattorno all'artista e stia per naufragargli in petto, con la fede nel proprio valore, fin l'amore dell'arte, io credo che gli basterà dar un'occhiata al suo Faunetto che attende l'ultima mano, al suo Satiro a cui manca per l'eternità soltanto esser colato in bronzo, a quella gigantesca testa del Garibaldi dove il gran dittatore rivive come non è mai rivissuto in nessuno dei suoi mille busti, in nessuna delle sue mille statue, in nessuno dei suoi mille monumenti, basterà quella rapida occhiata per ridargli coraggio e vigore, e fargli riacquistare la coscienza della sua forza e la fede nell'arte e nell'avvenire.
*
* *
Tre mesi fa, l'amico Amilcare Lauria mi invitava ad andare ad ammirare assieme con lui alcune incisioni in legno d'un giovane siciliano di cui sentivo pronunziare allora per la prima volta il nome: Ignazio Orlando. L'entusiasmo del Lauria per quelle incisioni era così grande, che io già ne attribuivo molta parte alla sua abituale esagerazione affettuosa quando si tratta di cose dei suoi amici. M'ingannavo.
Ricordo, scrivendo, la stanzetta di via Aliberti, dove l'Orlando aveva installato in quei giorni uno studio provvisorio. Eravamo quattro persone e ci si rigirava a stento. Bruno, corto, pienotto, con folti capelli neri, un po' esitante e imbarazzato nei modi, Ignazio Orlando mi sarebbe parso un intelligente operaio vestito bene, senza quegli occhi neri più del carbone che, mentre egli parlava con modesta semplicità dell'arte sua, dei suoi progetti, delle sue speranze, brillavano, lampeggiavano, rivelando assai meglio delle parole un ardente anima di artista.
Aveva tratto fuori da una valigetta due o tre custodie di cartone avviluppate in vecchi giornali, e apertele sul lettino, che occupava quasi metà della cameretta, ci presentava a una a una le prove di stampa di alcune delle sue incisioni, scusandosi che qualcuna di queste non fosse ancora finita.
Mi attendevo, sì, di vedere dei lavori assai bene eseguiti; avevo saputo dal Lauria che l'Orlando, fatti i suoi primi studi in Italia, era stato parecchi anni a Londra e a Parigi alla scuola dei più valenti incisori in legno di colà; e, invece, avevo davanti agli occhi squisite opere d'arte, dove quel che meno colpiva era l'abilità tecnica, che pure appariva grandissima.
Raramente mi era accaduto di vedere qualcosa di simile, cioè l'interpretazione di un quadro, la quale desse un'idea così fedele di esso, da far scorgere oltre al disegno il colore, e oltre al disegno e al colore la speciale fattura del pittore. Ci passavamo da mano a mano le riproduzioni di un lavoro del Morelli, d'un paesaggio del Lojacono, d'una figura del Leloir; e da ciascuna di quelle incisioni non vedevamo risaltare, a prima vista, la bravura dell'esecuzione, ma il carattere e la natura dell'opera riprodotta, pittura a olio o acquarello; la bravura veniva ammirata dopo, quasi per uno sforzo di riflessione.
Allora l'incisione del Cristo nel deserto del Morelli era appena incominciata. Sul tavolino davanti alla finestra, coperto da un foglio di carta turchina, vicino alla cassetta dei ferri, al cuscino tondo di pelle che serve di appoggio incidendo, quasi sotto la lente mobile, stava il legno da cui la nostra importuna visita aveva, poco prima, staccato l'artista. Egli era intorno agli angioli dalle lunghe vesti ondeggianti, uno col vassoio ricolmo di uva e di frutta diverse, l'altro con su la spalla il recipiente con l'acqua. Sotto i lievi incavi del bulino già sparivano le ultime traccie del disegno, mentre a sinistra la figura del Cristo spiccava in nero, ancora intatta, sul fondo opalino della fotografia col collodione; quasi l'artista volesse accostarsi a quella figura con riverente lentezza e dopo aver superato la prova di rendere quelle creature, umane e celestiali in una, così stupendamente intonate con le brulle montagne del fondo, con gli arsi cardi del primo piano, e con quel rigoglioso tralcio di vite impigliato alle vesti del portatore della frutta.
Ora l'incisione è finita ed esposta al pubblico; e la meraviglia e l'ammirazione da essa destate in coloro che hanno avuto la curiosità di visitare la Sala degli scacchi dell'Associazione della Stampa, hanno già ricompensato l'artista della sua ardua fatica, quantunque la più preziosa ricompensa per lui dev'essere stata la lode del Morelli, contentissimo di veder riprodotto in quel modo uno dei migliori suoi quadri.
Peccato che, appunto in questi giorni, il riordinamento della Galleria dell'arte moderna impedisca di confrontare la riproduzione con l'originale a chi volesse formarsi un'esatta idea del valore artistico dell'Orlando.
Chi ha veduto il quadro del Morelli può fare il confronto di memoria; un capolavoro come quello, visto una volta, non si dimentica più. A me basta socchiudere gli occhi perchè le tre stupende figure mi si ripresentino all'immaginazione con l'evidenza della realtà. Sotto il cielo plumbeo e afoso, fuggono in fondo, a sinistra aride e rossiccie le colline; rizzano i dossi nudi e scabrosi, a destra, le montagne della Palestina. In pieno sole, su un rialzo di terreno roccioso, con la bruna faccia su cui i riflessi del terreno e delle candidissime vesti gittano una velatura violacea, con le braccia aperte, quasi lasse, è seduto il Cristo, che ha nei grandi occhi lo smarrimento della mistica contemplazione e dell'estasi. Ed ecco, a destra, vestiti di azzurro, leggieri, sorvolanti sul terreno, i due angeli ministratori che arrivano compresi di riverenza e di tremore, recanti il ristoro delle frutta e dell'acqua..... Et angeli ministrabant illi.
Non pare di stare davanti a un quadro, ma di assistere a una visione, in quell'afosa atmosfera che incombe grave sul vasto spazio attorno, con quelle rocce scottanti, quasi calcinate dal sole, dove una lista di erbe agonizza invocante qualche stilla di rugiada, dove fin le ombre sono luminose, le carni e le vesti trasparenti, tanto impregnate di sole! E che visione quel Cristo coperto del candido sciamma, assorto, con nella faccia troppo umana i bagliori del cielo che gli splende nell'anima, e quelle due leggere figure vestite di azzurro, con ricche chiome d'oro che fiammeggiano al sole, creature angeliche quantunque non mostrino le ali e le aureole con cui la tradizione artistica suol caratterizzarle! Sì, visione non quadro, cioè non dipinto; perchè qui la fattura non si scorge e le supreme sapienti delicatezze del pennello spariscono dietro la creazione artistica che spazia per altezze sovrane. Il quadro par fatto con niente, a furia di mezze tinte, di colori neutri, eccetto il bianco candidissimo delle vesti del Cristo e l'oro fiammeggiante della chioma del primo angelo. Ma che armonia! E che sincerità! E come siamo a mille miglia dalle abilità del mestiere!
Con questo miracolo d'arte ha dovuto lottare l'Orlando e non n'è rimasto schiacciato. Chi ha visto il quadro del Morelli, lo rivede nell'incisione quasi tal quale; e come le piccole dimensioni del quadro dànno all'occhio l'illusione della grandezza naturale, così le piccole proporzioni dell'incisione dànno quelle del quadro.
L'Orlando s'era preparato a quest'arduo lavoro incidendo precedentemente altri lavori del Morelli: l'Uscita dalla chiesa, Giovedì santo e Studio di donna nei quali ha dovuto superare difficoltà di natura diversa, volendo fin rendere la differenza di talune parti del quadro che il pittore non ha mai finite.
La valentìa dell'Orlando non si smentisce nei paesaggi Ischia e Presso il Vesuvio del Lojacono, che come paesaggi non valgono molto; si afferma anzi grandemente nella piccola incisione dell'acquarello del Leloir, finitissima, caratteristica.
E mi limito a parlare delle incisioni esposte, perchè altrimenti dovrei citare parecchi ritratti, fra i quali notevolissimo quello del senatore Paternò.
Ora l'Orlando intende pubblicare un Album dove saranno da lui riprodotte con l'incisione le più belle opere della moderna pittura italiana; album che avrà un testo illustrativo in quattro o cinque lingue. E qui comincia la triste istoria delle difficoltà d'ogni genere che gli attraversano l'impresa. Ma egli è coraggioso, persistente, forte, e il suo breve passato deve infondergli lena e vigore.
Ha già percorso un bel cammino da quando, povero fanciullo, frequentava le scuole della Martorana in Palermo e le scuole serali operaie di disegno; da quando nell'Istituto di San Michele di qui s'iniziava allo studio della sua arte, fino alla sua dimora in Londra e in Parigi, in quegli studi xilografici dove gli venivano appresi tutti i perfezionamenti tecnici dell'incisione sotto la direzione dei più valenti maestri del genere. Passato maestro alla sua volta, egli ha sentito la nostalgia della patria, ed ha sognato di venir a impiantare in Italia una41 scuola di xilografia, ora che quest'arte torna in onore, ora che il rinascente gusto artistico fa metter da banda le riproduzioni meccaniche della fototipia e della fotoincisione, ora che il libro non vuol più essere soltanto un gioiello di arte letteraria ma anche di arte tipografica e illustrativa.
È rimasto un po' deluso. Nel pubblico, nel mondo artistico, nel mondo ufficiale, che dovrebbe tentare, con alti intendimenti, imprese quasi impossibili per la speculazione privata, non c'è nessun risveglio, anzi neppur un accenno di risveglio in favore di un'arte che è destinata a sostituire i volgari processi meccanici di riproduzione, e, forse, anche pel lato commerciale, la incisione in rame; su la quale ha, fra tanti altri, il pregio di una pastosità che questa non potrà raggiungere mai.
È rimasto un po' deluso; ma non vuol dir niente. Egli ha tanta giovinezza che può attendere ancora un po'. Attenda dunque ed abbia fede!