Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Istinti e peccati
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DA LONTANO

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DA LONTANO

Diego Maccari, in piedi, tra un piccolo circolo di belle signore e di signorine sue ammiratrici, sorbiva lentamente la tazza di thé e latte versatagli dalla gentile padrona di casa. E intanto, con quel tono di voce ch'egli soleva assumere in certi momenti quando pareva non volesse far capire se parlava seriamente o per burla, continuava a dire:

— Noi scrittori di romanzi e di novelle siamo gente superflua. La grande romanziera, la meravigliosa novellatrice, la inesauribile creatrice è la Natura, o meglio la Società. Non ha esitanze non ha scrupoli, non ha nessuna vanità; le tragedie più straordinarie ella spesso le nasconde tra le pareti di un palazzo o di un'umile casa borghese, quasi pensi che i suoi fiacchi rivelatori, diluendole in romanzi, o castrandole in novelle, farebbero perdere il pregio della forza, della violenza, della originalità. Mentre noi ci svaghiamo a imitarci l'un l'altro, ella non si ricopia mai. Quando sembra che sia arrivata all'estremo limite dell'invenzione, balza lontano sorpassa ogni ostacolo... Noi, lo ripeto, siamo gente superflua. L'attenzione, l'interesse, l'entusiasmo che ispirano i nostri libri sono evidentissimi segni del basso livello dell'intelligenza dei lettori...

Grazie! — proruppe la signorina Micheli.

— E allora — soggiunse la signora Valentiperchè si prepara a scrivere un nuovo romanzo?

— Oh, bella!.. Perchè non so far altro.

— Lei, scusi, è un vanitosodisse la signorina Rioli, attenuando con un rispettoso inchino il crudo significato delle parole. — Tutti gli scrittori sono dei vanitosi: non si stimano mai ammirati a bastanza, e se la prendono coi lettori.

— Se io potessi arrivare ad ammirarmi! — fece Maccarani, sorbendo l'ultimo sorso di thé. — Sarei sicuro di scrivere un capo lavoro. Ma ho la coscienza della mia miseria...

Ora vuol fare il modesto! — replicò, ridendo la signorina Micheli. — Il mio babbo dice che gli artisti non dovrebbero mai parlare dell'arte loro, ma produrre, produrre, e lasciare il resto agli altri.

— Il commendatore Micheli avrebbe ragionerispose Maccari — se gli artisti non portassero anche essi nel cervello gli elementi della discussione. Dovrebbero, per lo meno, vivere fuori della società, non leggere libri di critica, giornali, niente... e produrre, produrre, sissignore, se questo fosse possibile. Io sto per tentarlo.

— Si farà frate? Ora è di moda.

Sparirò. Per otto, dieci mesi, un anno, nessuno saprà dove io sarò, se sarò vivo o morto. E quando forse appena qualcuno si ricorderà di me, ricomparirò, come un fantasma dell'altro mondo, e saprò quel che valgono la fama, la gloria...

— È una réclame ben trovata pel suo futuro romanzo — fece la signora Rioli. — I suoi libri però non hanno bisogno di simili mezzucci.

— E sparirà?...

Domani l'altro, signorina Micheli.

— Posso annunziarlo nelle Cronache femminili?

— Nel modo più semplice, signorina.

— Lei però parla in maniera che non si capisce mai se dica sul serio o per burla.

Crede lei che ci sia gran differenza tra le cose serie e quelle da burla?

— Le darò la risposta al suo ritorno.

— Io credo tanto poco nella sua partenza di domani l'altro — entrò a dire la signora Rioli —che lo invito a colazione per domenica; ho una sua grande ammiratrice da presentargli... giovane e bellissima. Glielo dico anticipatamente per metterlo in guardia.

— Mi dispiace...

— Verrà! — Non mancherà! — Altro se verrà!

Le signore e le signorine ridevano, esclamando così, mentre Maccari ripeteva:

— Mi dispiace...

Si era accostato alla signora Viola che faceva gli ultimi onori della serata alle sue amiche e ai suoi amici.

Va via anche lei? Ho un favore da chiederle... Non ha fretta suppongo.

— Ai suoi ordini, signora, — egli rispose inchinandosi.

E per nascondere il turbamento che lo aveva fatto impallidire, Maccari si avvicinava al pianoforte, fingendo di osservare i fascicoli di musica posati sul leggìo.

Fugge? — disse la signora Viola appena furono soli.

— Potrei far peggio.

— Vuol darmi questo inutile rimorso; non lo merito.

— Voglio lasciarla in pace... e trovar un po' di pace anch'io: è la soluzione migliore. Forse le dovrò esser grato di riprendere a lavorare dopo un anno e mezzo d'inerzia. Non tutti i mali vengono per nuocere: è la volgare filosofia di un proverbio.

Dove andrà?

— Non lo so; poi, a che scopo farglielo sapere?

— Potrei aver bisogno di scriverle.

— Le lettere a me dirette rimarranno presso il portiere.

— Mi scriverà lei, qualche volta, almeno.

— Oh, no!.. A che scopo?

— Nella sua solitudine....... badi!....... mi amerà di più.

Tenterò di scordarla.

— E un uomo come lei, acuto psicologo, profondo osservatore — lo rivelano i suoi libri — non sa rendersi conto di una situazione di animo così semplice e così sincera come la mia, non riesce a giudicarla imparzialmente, ed è ingiusto contro di e contro gli altri al pari di un uomo volgare qualunque?

— La passione uguaglia tutti; non me ne vergogno.

— Non vorrei arrivare ad essere odiata.

— Anche l'odio, talvolta, è una medicina spirituale.

— Dunque..... è deciso?

Decisissimo.

— E non le importa niente di darmi una grande mortificazione e un grandissimo dolore? Se fosse vero.....

— Forse l'arte mi salverà. Sa come s'intitola il romanzo che scriverò? Il vano amore.

— Sarà una vendetta contro di me.

— Certe bassezze non so neppure pensarle. Riuscirà, probabilmente, la sua glorificazione!

— Un'altra tenterebbe di lusingarlo...

Ormai! Sono corazzato contro qualunque lusinga. Vede? In questo momento noi ci parliamo come due estranei. Io dovrei avere parole di fuoco, tentare un'ultima prova, piangere, pregare, assalire il suo cuore con tutti i mezzi che l'amore disperato può suggerire; lei dovrebbe parlarmi diversamente, da annoiata, da stanca della mia stupida insistenza... e invece, ci intratteniamo del nostro caso quasi abbia, per tutti e due, un interesse di curiosità; nient'altro. — Parte? — Sì parto — Mi scriverà? Potrò scriverle? — Non scriverò e non riceverò lettere. — Forse, dal canto mio, c'è stata qualche commozione nella voce, qualche turbamento negli occhi, qualche irrequietezza nei gesti; lei è rimasta... quella che è stata sempre; cortese, indulgente, con un lieve, lievissimo senso di ironica compassione... Sbaglio? Può darsi... Addio, gentile amica! Amica, sì, voglio crederlo. Sarebbe molto per un altro; poco, assai poco per me... Addio!

— Non mi stringe neppure la mano?

— Vorrei baciargliela, ma farei male a me e lei. Ho le labbra che mi scottano.

— Le scriverò; scoprirò il suo eremitaggio. Sono indovina io.

Addio!

Diego Maccari fece un altro rigido inchino, e uscì dal salotto come uno che vuol sottrarsi a insopportabile sofferenza.

 

*

*   *

 

Tre giorni dopo, si leggeva nel Giornale d'Italia:

Una felice sparizione.

L'illustre romanziere e drammaturgo Diego Maccari è partito per ignota destinazione; e durante otto, dieci mesi i suoi ammiratori e le sue più numerose ammiratrici non avranno notizie di lui. C'è chi sospetta un'avventura galante con una bellissima straniera, un romanzo vissuto, come due o tre dell'illustre scrittore, vivamente letti e discussi. Noi possiamo intanto affermare che la sua salute, un po' scossa dal troppo lavoro, reclamava da parecchio tempo un assoluto riposo. Nella misteriosa villa dov'è andato a rifugiarsi sarà però difficile che egli rimanga in ozio. Ci auguriamo di vederlo ricomparire con un capolavoro di più. Augurii, Maestro!

Misteriosa davvero la villa dove Diego Maccari era arrivato di sera, accompagnato dal suo ospite Marchese Del Pozzo che ripartiva il giorno dopo, lasciandogli due servitori su la discrezione dei quali poteva contare, anche perchè ignoravano chi fosse quel bell'uomo su la quarantina, alto, mingherlino, con folti capelli un po' rizzolati e baffi che sembravano tinti e non erano; signore, si vedeva dalla eleganza dei vestiti e dalla gentilezza dei modi: e per quei due era tutto.

Essi si maravigliarono la mattina dopo, quando attendevano di esser chiamati da una scampanellata, di veder invece rientrare il signore, andato fuori molto di buon'ora, con in mano un fascio di fiori selvatici, e con le scarpe bagnate di rugiada.

— Se mi avesse avvisato! — disse il più anziano dei servitori, cercando di scusarsi.

— Oh! Non badate a quel che faccio. Forse finirete con annoiarvi stando poco occupati.

— Non sarà gran malerispose sorridendo, l'altro. — Attendo gli ordini per la colazione e pel desinare.

Fingete che io sia qui a pensione. Voglio sedermi a tavola — è mia abitudineignorando quel che starò per mangiare.

Si era immaginato che il mutar posto avesse dovuto immediatamente produrre un cambiamento nei suoi pensieri, nei suoi sentimenti; e durante quella passeggiata mattinale quasi sperduto sotto gli ulivi, tra le querce che rivestivano il dosso della collina, tra siepi di piante delle quali ignorava il nome, tra piccole rocce che formavano terrazze da dove poteva godersi la larga vista della pianura sottostante, con le colline e le cime delle montagne in fondo all'orizzonte, egli si stupiva di sentirsi ancora ossessionato dalla visione della signora Viola, quasi stesse per avverarsi quel che ella gli aveva detto sere addietro forse ironicamente: — Nella sua solitudine... badi! mi amerà di più!

Avea dormito male. Ai primi luccicori dell'alba era saltato giù dal letto, e, vestitosi in fretta e in furia, si era precipitato fuori della villa; ma la figura della signora Viola pareva si affacciasse da un tronco di albero, da un angolo di siepe, sorridendo maliziosamente, sparendo quand'egli, allettato, cercava di fissarla.

Un anno e mezzo! Si era sentito invadere, a poco a poco, da un sentimento nuovo per lui, simile a tenerezza infantile, ad attaccamento pieno di riguardi e di sottomissione, che però di settimana in settimana si modificavano, si acuivano tormentosamente, quantunque non avessero niente che li facesse somigliare gli impeti di passione dai quali era stata sconvolta la sua giovinezza.

Si compiaceva di quella compenetrazione — la chiamava così — della gentile figura da Madonna conservata intatta dalla signora Viola anche dopo il disgraziato suo matrimonio; compenetrazione per cui Diego Maccari provava un senso di rinnovamento, di delicata esaltazione, una specie di misticismo, che lo aveva fatto sorridere di maraviglia, finchè si era mantenuto in uno stato di delizioso stordimento bastante a se stesso.

Poi, una mattina, tutt'a un tratto, l'incanto si era rotto. L'esperto scrutatore dei cuori altrui e di stesso, rimasto atterrito della violenza della passione che gli tumultuava nel petto, quasi avesse improvvisamente vinto gli ostacoli che l'avevano tenuta in freno, coi gomiti poggiati sul piano della scrivania, con la testa tra le mani — si domandava sommessamente:

— E ora? E ora?

Gli sembrava impossibile che fosse arrivato a tanto, che si sentisse disarmato contro la potenza che lo sconvolgeva, involontariamente da parte sua, poichè la signora Viola non aveva mai fatto nulla da far supporre la più piccola velleità di destare negli altri qualcosa che non fosse rispettosa ammirazione; tanto più grande e profonda quanto più degna di compianto era la sua sorte con quel vilissimo marito che l'aveva abbandonata, fuggendo dietro un'esotica artista di Caffè-Concerto.

Era stata così austera, così dignitosa che le sue amiche, i suoi amici non avevano osato di manifestarle sentimenti di condoglianza in quell'occasione. La vita della bellissima signora non avea sofferto nessuna sosta, nessun mutamento nelle sue diverse manifestazioni. Parlava talvolta tranquillamente di suo marito in viaggio, frequentava le riunioni, i concerti, i teatri, come se niente di tristo fosse venuto a sconvolgere la bella serenità della sua vita, senza che un lieve sospetto contro di lei si spandesse tra i maligni e, più, tra le maligne che la spiavano per invidia della sua splendida giovinezza della sua ricca condizione sociale, del fascino che emanava dalla sua bontà, dalla sua cultura, dal suo spirito argutamente gentile.

Infatti, il giorno che Diego Maccari si accorse della irresistibile passione per colei ch'egli soleva chiamare nelle conversazioni la Demi-veuve, sentì un profondo sgomento, come chi capisce di tentare l'impossibile. Per mesi e mesi, egli continuò ad abbandonarsi a quell'intima adorazione, credendo di evitare qualunque atto, qualunque parola che potesse rivelare i suoi vanitosi sentimenti, la sua folle aspirazione, ma non così compiutamente da non farne trasparire qualcosa, anche per quell'eccessiva cura di tener celata l'esaltazione dell'animo suo.

Non gli era mai accaduto niente di simile. La passione, pure efimera, lo rendeva arditissimo. Soleva dire che un amore prudente non merita nome di amore. Oltre che sul prestigio della sua persona, contava su la fama del suo nome di scrittore.

— La gloriapensava — bisogna scontarla vivendo: la vera gloria è il possesso della donna, a tutti i costi; il resto è illusione.

Fu preso da grande scoramento, da invincibile tristezza. La bellissima signora Viola era inaccessibile; gli sembrava circondata, da un'atmosfera che la difendeva da ogni attentato. E intanto, per quale inesplicabile suggestione, ella, da parecchi mesi, mostrava una compiacente grazia verso di lui, che qualunque altro avrebbe potuto interpretare per lieve, sottile invito, quasi per incoraggiamento?

Perdè la testa in quei giorni; e nell'occasione una Festa di Beneficenza, avendogli ella chiesto il braccio per farsi largo fra la folla degli sconosciuti che ingombravano i viali del giardino, Diego, quasi improvvisamente, le sussurrò:

— Ah! Come vi amo, signora!

— Non avrebbe dovuto dirmelo! — ella rispose con accento di delicato rimprovero.

— Ve n'eravate accorta?

— Forse.... E bastava!

— Se sapeste, signora!

— Non devo, voglio saper altro. Dimentichi di avermi detto quelle parole. Dimenticherò di averle udite. E tutto procederà tra noi come è proceduto finora... O dobbiamo evitare di vederci. Capirà bene...

— È una terribile condanna!

Troverà facilmente da consolarsi.

Egli passò alcune settimane inebriato del ricordo di quella rivelazione inattesa: — Se n'era accorta! Poteva prestar fede alla severità di quel divieto: — Dimentichi?

Ma le settimane, i mesi trascorsero e il contegno della signora Viola non accennò un istante a modificarsi. Per non arrivare all'estremo di evitare di vedersi, il romanziere, l'artista, l'uomo di mondo, si ridusse un volgare innamorato, nient'altro che un furibondo innamorato pel quale l'unico scopo della vita consisteva nel respirare l'aria che la donna amata respirava, nel saziarsi gli occhi con la incessante contemplazione della bellezza di lei; eroicamente rassegnato al sacrifizio di non far scorgere a nessuno la sua crudele tortura; sorretto soltanto dalla lontana dubbia speranza che, un giorno o l'altro, quando meno se lo aspettava, tutto questo crollasse, e l'adorata gli dicesse:

Ora è troppo! Ecco: sono tua! Lo hai meritato!

Un anno e mezzo!

Diego Maccari sentiva che non avrebbe potuto durarla più a lungo. In certi momenti arrossiva, si sdegnava contro quella ch'egli qualificava viltà di cuore. Ma dunque la situazione sociale, la cultura, l'arte, l'esperienza della vita, la sazietà dei piaceri, non valevano a garentire da un miserabile impeto di passione? Se lo domandava, atterrito.

Avea trascorso una settimana di violentissime smanie. Era stato sul punto di commettere la sciocchezza di presentarsi alla signora Viola, di gettarlesi ai piedi, come un ragazzo, d'invocare pietà.... Ma sùbito aveva avuto uno scatto di orgoglio. Parecchi nella stessa condizione, si ammazzavano; egli, no; doveva ammazzare la passione.... Gli era balenata l'idea di un viaggio nelle Indie, nel Giappone poi si ricordò d'un invito tante volte replicato, di una offerta di ospitalità del suo amico marchese Del Pozzo, in una villa quasi nascosta in mezzo a boschi di ulivi e di querce, un vero romitorio «dove le Muse verrebbero a visitarti senza essere disturbate» disse il marchese l'ultima volta che replicò l'offerta.

Diego Maccari, appena presa la ferma risoluzione di isolarsi per ammazzare la passione col silenzio o col lavoro, scrisse al suo amico, e questi fu lietissimo di ospitare l'illustre romanziere, lasciandolo libero nella villa che raramente veniva abitata da lui e dai suoi, e aveva per ciò potuto conservare il carattere schietto e un po' scolorito del Settecento.

 

*

*   *

 

Diego tentava di distrarsi aggirandosi per quelle stanze dove poteva darsi l'illusione di vivere una altra esistenza in compagnia delle dame e dei cavalieri, i ritratti dei quali ornavano le pareti di due salotti: si sedeva alla scrivania rococò dipinta in verde, con disegni a colori sui cassetti panciuti, filettata di oro e riprendendo in mano i fogli dei primi capitoli del romanzo, pensava che su quella scrivania qualcuna di quelle dame aveva forse scritto lettere di amore... un po' spropositate... ma calde di passione... Se non che la figura della dama, quasi immediatamente, si trasformava in quella della signora lontana... Che pensava? Gli aveva scritto? Le sue lettere giacevano confuse con le altre nella cassetta che il portiere doveva custodire fino al ritorno di lui? Ella aveva detto: — Scoprirò il suo romitaggio; sono indovina io. — E non aveva indovinato: forse non si era curata d'indovinare! E così egli passava ore e ore, senza scrivere neppur mezza pagina; così cercava di leggere qualcuno dei libri nuovi portati con , ma si sentiva inetto a gustarli. E usciva all'aria aperta perdendosi tra gli ulivi e le querce, immaginando la sorpresa di un'apparizione, la felicità di ospitare, ignorata da tutti, la signora Viola, non importava se severa, se gelida, se unicamente venuta per confermargli: — Sono indovina io! —

Dopo due mesi di solitudine, il suo pensiero era insistentemente fisso a quella cassetta delle lettere in portineria. Voleva cavarsi soltanto la curiosità se lei aveva scritto.

— Che poteva avergli scritto?.. Ma no, no, non doveva darle questa ultima sodisfazione. Preferiva di ignorare...

Allora riprendeva quasi con rabbia il manoscritto del romanzo, e le pagine si accumulavano su le pagine senza ch'egli si accorgesse che ciò non formava un diversivo, perchè l'eroina di Il vano amore era una mirabile idealizzazione della signora Viola; alla quale egli, nel romanzo, voleva infligere il gastigo di amare troppo e... inutilmente. La realtà veniva trasformata, come in tutti i romanzi di Diego Maccari, esagerata, spinta a estreme conseguenze; ma appunto il fascino dell'artista consisteva in questo che lettori e critici riconoscevano per un grave ma delizioso difetto. Un critico anzi, recentemente, aveva sentenziato: Guai se il romanziere se ne correggesse! Non sarebbe più lui.

E di mano in mano che nelle pagine, scritte un giorno sì e parecchi altri no, la figura ideale della protagonista si disegnava energicamente, più viva e più irresistibile diveniva in lui l'ansietà di sapere della donna reale:

— Ha scritto? Che può aver scritto?

Mandò a chiedere le lettere per mezzo dell'amico Del Pozzo; e quando, tra tante, riconobbe in tre la scrittura di lei, le mise da parte, chiudendole in un cassetto, risoluto di non leggerle, sodisfatto di esser certo che lei aveva scritto.

Ma una notte egli si era levato da letto, e, mezzo vestito, si era indirizzato come un sonnambulo verso la scrivania, aveva aperto il cassetto, preso le lettere... Le mani gli tremavano, il cuore gli balzava violentemente nel petto mentre apriva, una dopo all'altra, le buste...

— «Diego!.... (Ora che siete lontano posso darti del tu?) Non ho mentito, ho taciuto. Tanto, era inutile confessarti che ti amavo. Tu pretendevi qualcosa che mi repugnava, che mi repugna, e che non avrei mai potuto concederti. Il mio cuore non ti bastava: volevi me, tutta, anima e corpo! Forse tu avevi ragione: lo spirito senza il corpo, in amore, è un'assurdità quasi immorale, che soltanto i così detti gli idealisti non vogliono ammettere. Ma io ho il pregiudizio di non credermi libera, quantunque abbandonata da mio marito. Ho sofferto e soffro più di te, perchè faccio soffrire anche te....»

Buttò quella lettera su la scrivania, borbottando parole intelligibili, e prese un altro foglio, saltando le prime righe:

— «......... che m'importa se queste parole non saranno lette da te? Le scrivo per mio sfogo. Se tu fossi qui, dovrei ricacciarmele indietro nella gola, e mi si muterebbero in veleno. Già il mio sangue è da un pezzo avvelenato, e devo far ogni sforzo perchè nessuno se n'accorga o indovini. Tu sei più felice di me: sai che il tuo amore non è ignorato e puoi lusingarti che, un giorno o l'altro, avvenga il prodigio... Amor che a nulla amato amar perdona... Io, invece, devo esser giudicata di gelo, superba, forse anche stupida, specialmente nella penosa situazione in cui mi trovo e che potrebbe essermi, presso molti, un gran motivo di scusa. Non me ne lagno.

«Può darsi che, a quest'ora, quella che io immagino solitudine sia un luogo di potenti distrazioni, e che nel tuo cuore d'artista io già sia un ricordo molto sbiadito e sul punto di scomparire completamente.

«Mi sembra di sentirmi morire a poco a poco pensando a questa probabilità. Ne sarei lieta per te.... Io, ormai, ho coscienza di vivere soltanto nel tuo cuore. Tutto quel che mi circonda è apparizione vana: vorrei dire: finzione dei miei sensi, non realtà. L'unica realtà è l'amor tuo. Non saprei mai, mai più consolarmi, se dovessi convincermi che il tuo amore per me è stato così forte da annientare in te lo scrittore, l'artista!... Ah, se potessi avere la certezza che tu lavori, e che io — se non sono già morta nel tuo cuorecontribuisco in qualche modo a ispirarti, a spronarti....»

Diego Maccari, buttò via, sdegnosamente, anche questo foglio; e, accortosi che erano più fogli uniti insieme dentro la stessa busta, fece un gesto di incredulità. Scorse rapidamente con gli occhi le otto fittissime pagine quasi potesse leggerle con un atto di misteriosa comprensiva, e si fermò all'ultima:

— «Non so quel che ho scritto. Mi è parso che la mano andasse, andasse via, per proprio conto. Avrai la pazienza di decifrare questa nervosa e febbrile calligrafia?... Non mi scrivere: Niente è mutato nel mio cuore. — Lo capirò dal tuo silenzio. Se però... scrivimi soltanto: — Guarito! — E sarà una grande gioia e..... un mortale dolore per me!»

No, non riusciva a credere che quelle tre lettere fossero sincere; gli parevano un maligno svago di signora che non sa come occupare le sue giornate. Se le fosse improvvisamente ricomparso davanti, ella avrebbe avuto il coraggio di ripetergli le stesse parole di quella sera: — Dimentichi.... Dimenticherò anche io! — E ora voleva farsi credere un'altra!

Pensò che non c'era, contro la sua passione, miglior rimedio di leggere e rileggere ad alta voce quelle tre lettere, e si provò a farlo; ma l'artista, in questo strano tentativo, prendeva il sopravvento su l'innamorato. Egli le leggeva con tale accento da potente attore, da sentire investirsi a poco a poco del sentimento di quella parte, da imitare la sommessa calda intonazione della voce di lei, e da provare la indefinibile sensazione di uno spettatore profondamente commosso.

Ma quando si riscoteva come da un sogno, diceva che tale effetto era anzi una prova innegabile della nessuna sincerità di quelle lettere.

Per qualche ora, dopo tali prove, si sentiva più calmo; si credeva già sul punto di vincere la prepotenza della sua passione, capace di poter affrontare la vista della signora Viola — di Elsa, come in certi momenti di maggior tenerezza la chiamava — e usciva fuori, a inebbriarsi di aria ossigenata, di verde, di fragranza di erbe e fiori selvatici; e, appena tornato a casa, si metteva lietamente al lavoro; e le calde mirabili pagine si accumulavano su la scrivania, nitide, senza un piccolo pentimento, fino a tarda sera, col solo breve intervallo della sua frettolosa frugalissima colazione.

E allora, quasi la spossatezza della fantasia lasciasse libere le forze delle sensazioni e del sentimento, riprendeva a smaniare, a contristarsi, come un ragazzo — se lo rinfacciavaconsolandosi col pensare che quella da lui giudicata finzione, svago di signora sfacendata, poteva benissimo essere sincerità, strana eccezionale situazione di animo ch'egli dovrebbe ammirare e rispettare.

— Eh, via! No! — esclamava poco dopo, ribellandosi.

Ora riceveva, giorno per giorno, la corrispondenza che il marchese Del Pozzo aveva cura di far ritirare dalle mani del portiere: fasci di giornali, di rassegne, volumi in omaggio, lettere di ogni sorta; ma, da parecchi giorni, nessuna di quelle da lui attese con ansietà.

— Ah! Si era annoiata del suo soliloquio! Avrebbe voluto le repliche?

La mattina, però, che riconobbe sùbito, tra le altre, una nuova lettera di lei, non resistè alla smania di aprirla immediatamente, e si sentì deluso dalle poche righe che essai conteneva:

— «Sono gravemente malata.... di un male che imbarazza il mio medico. Ha voluto un consulto. L'illustre suo collega ne ha capito meno di lui... lo so bene di che male languisco; è irrimediabile. Fortunatamente esso tarda ad uccidere. Lo crederai? Vorrei ancora vivere per non cessare di amarti sempre così, sempre così!»

Esitò, davanti a quella calligrafia incerta che rivelava il tremito della mano. Ebbe la rapida visione della bellissima signora, con la testa rovesciata, su i guanciali, un po' pallida, con gli occhi socchiusi, le labbra semiaperte, stesa sul letto, sotto le coltri, nel santuario della sua camera dov'egli non era mai penetrato. E rizzò la fronte, sorridendo amaramente della sua credulità.

— Che pretende? Che io accorra, per godersi l'effetto del suo inganno?

Egli stesso si maravigliava dell'azione deleteria di quelle lettere che reputava scritte con l'intento di ottenere un opposto resultato.

Da qualche settimana, dopo quest'annunzio della malattia, egli provava lunghi intervalli di calma. Quando non si sentiva in vena di lavorare, rileggeva gli ultimi capitoli del suo romanzo, e ne rimaneva sodisfattissimo. Due, tre settimane ancora, e avrebbe potuto scrivere la parola fine.

Se non che era incerto intorno alla catastrofe dell'insolito dramma passionale da lui creato, alla sua maniera, con violente esagerazioni di analisi, di colore, di ricercatezze stilistiche, e, in certi punti, con limpide semplicità che facevano strano contrasto con l'insieme dell'azione.

Aveva detto, quasi inconsapevolmente alla signora Viola, quando del romanzo erano appena tracciate le linee principali, e lei temeva che fosse una vendetta: — Probabilmente sarà la sua glorificazione. — E, in verità, era riuscito un'ideale glorificazione del vano amore — quello di lui — ma assai meno di quello di lei. Parecchie frasi delle sue lettere erano andate naturalmente a incastonarsi qua e senza che egli ci avesse badato nel punto di trascriverle. Solamente una sera egli fu maravigliato di aver attribuito alla sua protagonista malata, quasi moribonda, le parole: «Vorrei vivere ancora per non cessare di amarti sempre così, sempre così!»

Si sentì invadere da una specie di malessere.

Smise di lavorare e andò quasi immediatamente a letto, col proposito di alzarsi di buon'ora per scrivere le poche pagine che dovevano chiudere il romanzo.

Verso la mezzanotte si svegliò di soprassalto come se qualcuno lo avesse chiamato. Tese l'orecchio. Si udiva attorno alla villa il forte stormire degli alberi investiti dal vento, simile a rumore di ondate di mare in tempesta. Tentò di riaddormentarsi; e non riuscendo, balzò fuori del letto.

— Mi ha chiamato Elenapensò con lieve sorriso di soddisfazione — Non vuol più tardare a morire.

Elena era la protagonista di Il vano amore; persona reale e viva per lui.

Bevve una tazza di caffè freddo, com'egli lo preferiva, e si mise a lavorare, dopo aver riletto l'ultima pagina, lasciata a mezzo la sera precedente.

Quattr'ore di intenso lavoro; e avea potuto scrivere con grosse lettere la parola Fine e, sotto, la data: 26 di Maggio 1902, alle sei e quaranta di mattina!

Provava uno sbalordimento, un senso di pena, che non riusciva a spiegarsi. Avrebbe dovuto sentirsi liberato dall'oppressione di quella creatura della sua fantasia, ora che era uscita totalmente fuori dalla coscienza e dallo spirito di lui ed esisteva, indipendente, nell'opera d'arte compiuta. Così gli era accaduto le altre volte in simili occasioni, e gli era parso di respirare a larghi polmoni la libertà riconquistata.

Ora, invece....

Aperse la finestra. Sul limpidissimo orizzonte impallidivano le ultime rose dell'aurora colpite dai raggi del sole che stava per levarsi dietro i monti vicini. Una fresca letizia era diffusa nella campagna attorno, piena di sussurri, di canti di uccelli, di saluti di galli, di abbai di cani.

Rimase indifferente davanti a quel mirabile spettacolo che, di minuto in minuto, inondato da nuova vivissima luce, sembrava trasformarsi sotto i suoi occhi.

Col pensiero che fuggiva lontano, egli si sorprese nell' atto che ripeteva le parole: Vorrei vivere ancora per non cessare di amarti sempre così, sempre così!... — Di Elena o di Elsa? Non sapeva distinguerlo più!

 

*

*   *

 

Quattro giorni dopo, gli parve d'impazzire leggendo per caso in un giornale l'annunzio della morte della signora Elsa Viola avvenuta il 26 di Maggio, alle sei e quaranta!

— E non le ho creduto! Non le ho creduto!

Non sapeva dir altro, anche dopo parecchi anni, ricordando, vivendo soltanto di questo amaro ricordo.


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