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Sapendo di far piacere alla mamma, tutte le signore amiche di lei giocavano anch'esse alla bambola con quella bambina, che così diveniva di giorno in giorno più vanitosa e più arida di cuore.
Certe mattine di maggio, per consiglio del dottore, la signora Bellotti, verso le dieci andava al Pincio, e non mancava di condurre con sè la figlia. A quell'ora i viali erano affollati di signore e signorine e di bambini che giocavano al salto, al cerchio, alla palla, che si facevano scarrozzare dal minuscolo omnibus tirato da due asinelli, ridendo, chiamandosi, riempendo della loro allegria tutta quella parte del giardino preferita pei frequenti sedili e per l'ombra.
La signora Bellotti sedeva tra le sue amiche, con le quali si era anticipatamente intesa di trovarsi là; cavava fuori, come le altre, un lavorino di uncinetto dalla borsa, e fingeva di mettersi a lavorare, conversando, facendo anche un po' di maldicenza attorno a qualche signora o signorina assente, senza mai badare che Lidia stesse a udire, intanto che le signore e le signorine se la rapivano per baciarla, ammirarla, adularla:
– È un amore!
– È un miracolo!
Di tratto in tratto, la signora Bellotti si rivolgeva alla figlia, in francese:
– Allons, va jouer, ma chérie.
– Merci, maman! Je m'amuse mieux ici.
– O diglielo in italiano! – si lasciò scappare un giorno una vecchia signora.
– È per tenerla in esercizio – rispose la signora Bellotti, piccata.
– Ma gli esercizi che dovresti farle fare sarebbero piuttosto quelli di correre, di scalmanarsi, di giocare con gli altri bambini. È vero che ti annoi, carina?
– No, signora.
– Sfido! la tua mamma ti conduce qui vestita con tanti fronzoli! Butta là quel cappellaccio, quell'ombrellino, quel ventaglio, cavati i guanti...
– Oh, nonna! – esclamò una signorina.
– Io sono vecchia e posso dire quel che mi pare – rispose.
– Ma se è tanto carina, così savia, così tranquilla! –
E siccome Lidia si mostrava già mortificata di sentirsi trattare da bambina, le signore ripresero a rubarsela, a baciarsela, ad adularla:
– È un amore!
– È un angiolo!
– È un miracolo!
Da quel giorno, la signora Bellotti evitò di andare a sedersi dove si trovava quella vecchia; la salutava appena.
E Lidia non la salutava affatto.
La mamma aveva annunziato alle amiche che Lidia avrebbe rappresentata la parte della principessa nella pantomima: La Bella addormentata nel bosco che si preparava, per scopo di beneficenza, nel teatrino di casa Malerba; e tutti facevano complimenti alla bambina, la interrogavano, le promettevano di andare ad applaudirla.
– Mi volevano dare la parte del paggetto. Ma io ho risposto: «O la principessa, o niente».
– Brava!
– La principessa dev'esser bionda, e Dora Ruffo, che voleva avere quella parte lei, ha i capelli neri e corti.
– Brava!
Lidia si pavoneggiava quasi si sentisse proprio principessa.
La vanità la dominava, la prendeva tutta. Studiava per vanità, per vanità prendeva lezioni di pianoforte. Spesso la maestra che veniva a darle lezione in casa l'annoiava profondamente, gli esercizi musicali con quel vecchio maestro rigido e impaziente l'affaticavano, la stancavano; ma l'orgoglio di suonare due o tre pezzi nelle serate della mamma o in casa di una signora amica le facevano sopportare ogni fastidio. E quando gli applausi compiacentissimi scoppiavano nel salotto, ella fremeva di piacere e ringraziava con contegno di provetta sonatrice.
Il babbo, intanto, aveva cominciato a notare un po' di pallidezza su la faccia della bambina, un'aria di stanchezza e anche un principio di dimagrimento.
– Non ti pare? – aveva detto alla moglie.
– Se la mandassimo qualche mese in campagna, dalla nonna che desidera di vederla da tanto tempo... da quasi due anni.
– Figurati! Lidia in campagna! Lidia che non può soffrire i contadini! L'aria di mare...
– Non le ha giovato niente. Avesse fatto almeno dei bagni!
– Ma se ha terrore dell'acqua! Come me.
– Già quest'andare ai bagni senza poi fare bagni...
– Tu brontoli sempre.
– Ho paura, ecco, che la bambina si ammali.
– Tutt'a un tratto t'è venuta questa paura?
– Ah quella vecchia insopportabile! L'altra volta al Pincio si scandalizzava perchè io parlavo a Lidia in francese. Perchè lei non capiva...
– No, mi diceva: «Fate muovere quella bambina, è troppo savia per l'età sua».
– Ma di che si mescola costei? La mamma sono io...
– Parla a fin di bene la buona signora, e mi sembra che non ragioni stortamente...
– Bada ai tuoi affari; alla bambina bado io. –
In verità anche lei si era accorta di quella pallidezza, di quella stanchezza, di quel dimagrimento dei quali si impensieriva suo marito, ma non osava dar importanza a quei sintomi di screscenza, e si confortava così.
Un altro tenore di vita della bambina le sarebbe parso uno sconvolgimento. Non poter portarla attorno, nè presentarla all'ammirazione di tutti, vestita sempre all'ultima foggia, sempre in rappresentazione, quasi un'appendice dei suoi abiti, dei suoi gioielli, un finimento della sua elegantissima toeletta di mamma bella e corteggiata, oh! non vi si sapeva rassegnare. Giacchè le lodi alla bambina si tiravan sempre dietro lunsinghieri complimenti per la mamma. E poi, di che si sarebbe occupata, se non avesse avuto da pensare a vestire, a spogliare, a addestrare quella sua graziosa puppattolina?
Ora specialmente che doveva fare da principessa nella pantomima in casa Malerba!
Prima di condurla alle prove, la incipriava, le dava fin un po' di rossetto alle gote, per scancellare certi cerchi sotto gli occhi che le erano comparsi ultimamente.
– Ti dipinge la tua mamma? – le aveva detto un giorno Dora Ruffo.
Lidia le aveva voltato le spalle senza rispondere.
La signora Bellotti assisteva alle prove per farle poi ripetere in casa i gesti, le mosse, e farle provare la canzonetta che Lidia doveva cantare allo svegliarsi. Questa canzonetta volevano farla cantare a una signorina dietro le scene; ma la signora Bellotti si era impegnata di farla apprendere alla bambina, ed erano stati quindici giorni di nuovo tormento per Lidia con quel suo vecchio maestro che diceva:
– Signora, la bambina non può; la voce non le arriva a certi acuti.
–Provi, provi, non si stanchi. –
E dopo che il maestro era andato via, ricominciava lei.
– Quel maestro è uno stupido. Vieni qua, carina: dobbiamo fargli vedere che è uno stupido. –
E la bambina, invanita più della mamma, continuava a sfiatarsi con lei, risoluta a spuntarla, come l'aveva spuntata su Dora Ruffo per la parte di principessa.
Nei due giorni che precedettero la rappresentazione, Lidia non potè dormire nè mangiare, eccitata, esaltata. E la sera dello spettacolo, stesa sul letto nell'alcova tutta avviluppata di rovi, di piante, di ragnateli, con attorno le damigelle, i paggi addormentati in piedi o su le seggiole, la sua commozione fu tanta che il suo corpicino non resse più.
Quando il principe vittorioso si presentò e ruppe l'incanto e le damigelle e i paggi si svegliarono stirando le braccia e sbadigliando, la principessa rimase immobile sul letto, e il principe, che si era spinto a scuoterla, indietreggiò impaurito vedendola pallida pallida come morticina, chiamandola a nome: – Lidia! Lidia! – invece di chiamarla principessa.
La cosa fece ridere l'affollato uditorio; parve una sbadataggine della bella bambina vestita da principe... Ma quando si videro accorrere sul palcoscenico due signore che evidentemente non dovevano prender parte all'azione, alle risa succedettero un allarme, una gran confusione, un alzarsi, un interrogare, un affollarsi...
Lidia era svenuta. E fu calato il sipario.
Poco dopo la signora Bellotti ricomparve nella sala.
– Niente! Niente! La commozione...
E all'alzarsi del sipario. Lidia già in piedi, sorridente, fu salutata da un subisso di applausi, e cantò la canzonetta con una voce flebile ma intonata, e poi, nella gran sala del castello del Principe, dopo il matrimonio, seduta sul trono accanto allo sposo, ricevette gli omaggi e i doni dei vassalli.
La vanità e l'orgoglio le avevan permesso quello sforzo. Ma il giorno dopo aveva la febbre, e stette quasi un mese tra la vita e la morte. Quando si levò da letto non era quasi riconoscibile.