Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
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FRATELLO E SORELLA.

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FRATELLO E SORELLA.

Ogni volta che don Stellario Blanco chiamava il falegname di casa, per rabberciare gli scuri d'una finestra, o per inchiodare un pezzo di tavola fradicia a un uscio che non si reggeva più, mastro Croce indugiandosi per quei stanzoni mezzi affumicati, con le volte ingombre di ragnateli, fra tutti quegli oggetti polverosi, buttati alla rinfusa, che mandavano un tanfo di cose vecchie in fermentazione, si sentiva prendere da un soffoco alla gola e da nausee irresistibili.

– Volete economizzare anche l'aria che non costa niente! – egli esclamava, rivolto al compare don Stellario. – Che ne farete dei quattrini messi in serbo da cinquant'anni? Non potete portarli via, nell'altro mondo!

Don Stellario rideva alle barzellette del compare, chiamato anche Noce-di-collo; ma donna Salvatrice, spettinata, e con quei cenci stinti addosso che la facevano sembrare una mendicante, gli dava su la voce:

– Che quattrini andate fantasticando, mastro Croce benedetto! Volete attirar qui i ladri con le vostre stramberie?

– Pei ladri ci sono quegli arnesi ... – soggiungeva don Stellario.

Infatti agli angoli d'ogni stanza si vedevano due vecchi fucili carichi da anni, coperti di polvere anch'essi e arrugginiti; e quella bravata faceva sorridere mastro Croce che conosceva bene il compare.

 

***

 

Tutte le sere, dopo l'Avemmaria, don Stellario si barricava in casa, come se da un momento all'altro si attendesse un assalto. E nella nottata, ora che la vecchiaia gli dava sonni brevi, interrotti, si alzava da letto due o tre volte, e faceva un giro per la casa, mezzo vestito, col lume in una mano e una pistola nell'altra, seguìto da donna Salvatrice, che saltava giù dal suo canile, buttandosi su le spalle una tarlata mantellina di panno, appena sentiva da la sua camera lo strascinìo delle ciabatte del fratello.

– Che è stato?

– Niente. Torna a letto. Darò io un'occhiata....

Donna Salvatrice, senza badargli, gli andava dietro, raggrinzita nella mantellina, seguendolo di stanza in stanza, girando attorno gli occhi sbarrati dalla paura dei ladri, raccogliendo nel passaggio un oggetto caduto in terra, spingendo più in un sacco pieno di cose inservibili, o una sedia che non stava ritta su i tre piedi rimastile.

Lascia andare; non far rumore – gli raccomandava don Stellario.

Poi scendevano in cantina tra le lunghe file di coppi pieni d'olio d'oliva, con la morte in centro, come si chiama il coppo sepolto dentro il suolo, a fior di terra, pel caso che qualcuno di essi crepando, spandesse l'olio. Sul pavimento, fatto a posta saldo e liscio, si camminava a fatica e con pericolo di scivolare e rompersi l'osso del collo.

Giravano attorno sospettosamente, temendo sempre di scoprire qualche cattivo soggetto nascosto in un angolo, dietro un coppo, per poi aprire la porta ai compagni e farli salire su ad assassinare nel letto i padroni e svaligiare la casa.

Di tanto in tanto, un topo, grosso come un gatto, sguizzava lungo i muri, sparendo dentro qualcuno dei buchi delle rozze pareti umidicce, o saltava via su pei coperchi di legno dei coppi, inseguito dal lume della candela che don Stellario levava in alto, per vedere.

Erano così abituati tutte e due a quelle fughe di topi, quasi di animali domestici, che non se ne curavano. E passavano nelle dispense delle botti, pregna di esalazioni di vino che davano il capogiro. Si ficcavano tra i fusti e il muro, guardando in basso e in alto, portando via ragnateli coi gomiti e con la testa; fermandosi dinanzi ai caratelli prediletti, dov'era il vino vecchio che si vendeva più caro: tastando i cocchiumi, dando un'occhiata alla stoppa che stipava la fecciaia per accertarsi che non ne gemesse stilla di liquido; sarebbe stato peccato mortale.

Poi, contenti e sodisfatti, risalivano per visitare la cucina, le soffitte, ogni angolo dei ripostigli, minutamente, come avevano già visitato la stalla, il pollaio e il magazzino del grano.

– Niente! Niente! – diceva don Stellario.

– Per grazia della Madonna della Stella! – rispondeva donna Salvatrice. – Fammi lume, e chiudi l'uscio.

Così evitava di accendere la candela in camera per ritrovare il giaciglio ch'ella aveva faccia di chiamar letto; e don Stellario, tossendo, tornava a ficcarsi anche lui sotto le coperte del suo, che faceva il paio con quello della sorella.

Ogni notte così.

 

***

 

All'alba però, donna Salvatrice era in piedi e chiamava comare Stella, che abitava dirimpetto, perchè venisse a darle una mano nelle faccende di casa. C'era sempre qualcosa da fare: mondare il grano da consegnare al mugnaio; impastare e infornare il pane; vagliare il frumento e metterlo nei cannicci.

– Qui non si perde niente! – diceva comare Stella, piena d'ammirazione.

La poveretta lavorava come un facchino tutta la giornata, pel tozzo di pane duro e la manciata di fave che donna Salvatrice le regalava ogni sera, all'Avemmaria, prima di chiuderle il portone alle spalle. E spesso don Stellario brontolava contro la sorella che, secondo lui, allargava troppo la mano.

– Non basta mezza pagnotta?

Nei giorni in cui non andava in campagna a cavallo della sua vecchia asina spelata, don Stellario non mancava mai di ascoltare la santa Messa, quella del Rosario, sua particolare devozione. E andando alla chiesa, non mancava mai di dare una capatina nella bottega di compare Noce-di-collo. Si trovava appunto nella stessa via, alla cantonata della piazzetta di S. Maria della Stella, parrocchia di don Stellario; per questo gli avevano messo quel nome al fonte battesimale.

Don Stellario, aspettando il segnale della campana, si divertiva a osservare il compare intento al lavoro, in maniche di camicia e con gli occhiali a capestro sul naso adunco.

Buon giorno, compare.

Benedicite, signor compare.

Una mattina egli trovò mastro Noce-di-collo fuori della grazia di Dio. Sbraitava sull'uscio della bottega, fra un gruppo di comari e di contadini, che ridevano davanti a una cassa di morto messa quasi a traverso la soglia.

– Che me ne farò?

– State zitto, non bestemmiate! – gli diceva una vecchia, segnandosi.

Levatevi tutti di torno! O ve la sbatacchio su la testa....

E visto accostare don Stellario, si rivolse a lui:

– Ecco le belle azioni di voialtri galantuomini!

Cosa non mai vista una cassa da morto nella bottega di mastro Croce! Ma la notte avanti erano andati a svegliarlo per commissione di quel ladro di don Pietro Nigido Ciuco-vestito (bene appiccicato il soprannome!). Gli moriva il figliuolo: – Presto, una cassa! – E aveva lavorato tutta la nottata, sciupando quattro tavole, da cinque bolli, che erano una bellezza....

– Ebbene?

– Ebbene, ora il malato sta meglio, e Ciuco-vestito risponde che più non sa che farsene del tabbùtu. – Vendetelo a un altro, mastroCroce. – A chi debbo venderlo?... Lo farò citare dal Pretore, ricorrerò in Tribunale, se non mi fanno giustizia. Quattro tavole da cinque bolli!... E una nottata di lavoro!

– O che non morrà più nessuno? – rispose don Stellario, ridendo.

– Chi volete che lo prenda? È fatto su misura. Ladro! Ladro! – tornava a sbraitare mastro Croce.

E dava calci alla cassa che risonava cupamente.

– Non la sfasciate, intanto... – soggiunse don Stellario.

Il falegname, continuando a dare calci per traverso, l'aveva già fatta ruzzolare dentro la bottega.

Solida! – osservò don Stellario. – E col coperchio da baule.

– L'ha voluta così, per farmi lavorare di più. Ladro! Ladro!... Commetterò un eccesso; ci chiuderò dentro lui, Ciuco-vestito com'è!

– Non urlate. Può darsi che ve la paghi.

– Mi ha detto: – Vendetela a un altro! – A chi debbo venderla?... E poi, lo sapete meglio di me, questi son lavori che si pagano a merito. Ladro d'un Ciuco-vestito!

Chetatevi, compare, chetatevi. Parlerò io con don Pietro. Su, venite a sentire la santa Messa insieme con me.

Giusto, era quello il momento d'andare a sentire la santa Messa!

 

***

 

D'allora in poi, tutte le volte che don Stellario dava una capatina da mastro Croce, spingeva gli occhi in alto, verso la catasta del legname, dove era stata buttata la cassa da morto.

–Sempre quel tabbùtu?

Gli frullava pel capo un'idea.

– Se la comprassi io quella cassa? Sarebbe un bel risparmio.

Ma non ne diceva nulla a mastro Noce-di-collo, per lasciar passare del tempo, e farlo convinto che gli conveniva disfarsene anche a metà del costo. Tanto, non la voleva nessuno.

E decise la mattina in cui trovò mastro Noce-di-collo che bestemmiava peggio d'un turco:

Accadono tutte a me! C'era una bella occasione di dar via quel tabbùtu del diavolo, ed è riuscito troppo stretto pel pancione del notaio Tirella!

Andiamodisse don Stellario. – Se sarete ragionevole, lo prenderò io.

– Voi? che ve ne fate?

– Dieci lire!

Il falegname gli diè un'occhiataccia.

– Dieci lire. Lo faccio soltanto per voi; non siamo compari per nulla... – soggiunse l'altro ridendo.

Mastro Croce mugolava bestemmie:

C'è il San Giovanni di mezzo!... se no, ve la darei io la giusta risposta, compare!

Quindici; e facciamola finita.

– Neppure il costo delle tavole? Quattro tavole di abete, da cinque bolli; volete sentirlo?

Quindici e una bottiglia di vino. Lo porterete a casa domani mattina. È per rendervi un servizio....

Mastro Croce tenne duro.

Due giorni dopo, don Stellario tornò all'assalto.

– Siete ancora ostinato? Quindici lire e una bottiglia di vino.

– Gli do fuoco piuttosto!

Anche questa volta il povero mastro Croce tenne duro; ma l'altro non si diè per vinto. E la spuntò il giorno che il falegname non sapeva dove dare il capo per pagare la pigione della bottega.

Venti lire, compare, – gli disse in tono di preghiera. – Le tavole mi costano di più.

Quindici.

Levate via il vino?

– E una bottiglia di vino, poichè mi scappò detto.

A quel prezzo il tabbùtu era proprio regalato.

All'alba del giorno appresso don Stellario, che si era levato di buon'ora, andò lui stesso ad aprire il portone, sentendo picchiare il compare venuto con la cassa da morto.

Portatela su, nel camerone.

Donna Salvatrice strabiliò e si fece più volte il segno della croce, vedendo entrare in casa quell'arnese di cui suo fratello le aveva parlato più volte, senza mai comunicarle l'intenzione che aveva.

– Che volete farne? Madonna della Stella!

Zitta; è un bell'affare! – le sussurrò all'orecchio il fratello. – Quindici lire e una bottiglia di vino.... Bada, di quello guastosoggiunse, abbassando ancora la voce.

– Ah, compare! Mi levate di tasca per lo meno dieci lire! – disse Mastro Noce-di-collo, prendendo denaro e bottiglia. – Il vino lo berrò alla vostra salute.

A desinare, quando si provò a gustarlo, mastro Croce fece le boccacce al forte sapore d'aceto:

Accidenti, compare ladro! – esclamò, versando il resto per terra.

 

***

 

– Che ne faremo? – ripeteva donna Salvatrice nei primi giorni, imbronciata contro il fratello perchè aveva fatto portare in casa quel malaugurio.

Servirà, fra cent'anni, per me o per te.

Don Stellario glielo diceva tranquillamente, riflettendo, senza malizia, che sua sorella aveva cinque anni più di lui. Gli pareva naturale che, nata prima, dovesse anche morire prima. E per confortarla. Aggiungeva:

– Intanto, è una cassa come un'altra; può servire a qualunque uso.

La verità era che a nessuno dei due, benchè oltre la sessantina, passava pel capo che un giorno dovessero andarsene al camposanto, e lasciare la cantina con l'olio, la dispensa con le botti di vino, il magazzino coi cannicci ricolmi di grano e il morto sotterrato dietro la botte di San Francesco. Avevano salute di ferro, non erano mai stati gravemente malati; e si sentivano così attaccati a tutta quella roba ammassata in casa a prezzo di tante privazioni e di tanti stenti, da non pensare che, finalmente, una volta avrebbero dovuto distaccarsene, e lasciare per forza ogni cosa a quei due parenti lontani che ora essi non volevano neppure sentir nominare.

– È una cassa come un'altra; vuoi capirlo?

Parve anche a donna Salvatrice una buona ragione. Così, un giorno, non sapendo dove riporre le frutta secche portate dai mezzadri, ella disse:

– Le riporremo .

Mastro Noce-di-collo, che non poteva perdonargli la bottiglia di vino inacetito e aveva la celia brutale, quando il compare andava alla Messa del Rosario, e si fermava per salutarlo, dopo il solito: Benedicite, signor compare, – gli ricantava sempre la canzone:

– Ce n'avete ancora di quel famoso moscadello?

E vedendolo ridere, aggiungeva sùbito:

– Avete fatto come i giudici con Gesù Cristo, dandomi il fiele delle quindici lire e l'aceto per giunta. Ma non c'è Dio lassù, se non vi riporrò io, con queste mie proprie mani, dentro quel tabbùtu rubato!

Da principio, don Stellario si divertiva alle cattive parole del compare; non era una femminuccia da credere al malaugurio; e poi, poverino, bisognava lasciarlo sfogare. Si riprendeva forse la cassa, parlando così? E gli rispondeva:

– Eh, via, compare! Acqua passata non macina più!

Ora però che sentiva anche lui, ogni notte, un brividino alla schiena vedendo la cassa stesa nel camerone, col coperchio socchiuso, quasi non fosse ripiena di frutta secche ma attendesse dentro qualcuno, don Stellario rideva agro; e una mattina, appena il compare ricominciò la trista celia, egli lo interruppe:

– Volete finirla, compare Noce-di-collo? Dovreste anzi ringraziarmi!

E da quel giorno in poi non mise più piede nella bottega del falegname.

 

***

 

Non gli valse a niente. Egli andava notando un po' di debolezza alle gambe nel montare le scale di casa, un po' di affanno ai polmoni quando giungeva all'ultimo pianerottolo, quasi gli scalini si fossero raddoppiati. Eppure da più di sessant'anni egli li aveva fatti una diecina di volte al giorno, fino a una settimana addietro, senza ombra di fatica.

– Che significa? E la mattina, perchè mi levo con una specie di confusione nella mente e sto con quell'accapacciatura fino a tardi?

Alzava le spalle, non voleva pensarci; intanto guardava con un po' d'invidia la sorella che pareva fatta di acciaio, e si levava sempre prima dell'alba, e non stava un minuto con le mani in mano, e andava su e giù – in cantina, nella dispensa, nel magazzino del grano – senza mai riposarsi, quasi non le pesassero addosso cinque anni più che a lui.

No, non voleva pensarci!

E poichè da un pezzo non andava in campagna, una mattina, anche per svagarsi, mise all'asina la vecchia sella sdrucita, con le staffe e il posolino che si reggevano a furia di  spago, e partì per la Balata, quantunque il cielo minacciasse di piovere e la sorella gli avvertisse:

– Non andate, con questo tempaccio!

A mezza strada, cominciò a piovigginare. Poi, lampi, tuoni... e le cataratte del cielo si apersero!

Don Stellario cercava di ripararsi alla meglio, con quel ferraiuolo stravecchio e rapato che assorbiva l'acqua senza perderne nemmeno una goccia; e spiava torno torno la campagna, per iscoprire una casupola dove ripararsi, pentito di non aver dato retta alla sorella e d'essersi avventurato così alla sbadata.

– Sarà meglio tornare indietro. Con questa lumaca, arriverei morto alla Balata!

Appena giunto a casa, dovette mettersi a letto; e non valsero a riscaldarlo il bicchiere di vino bevuto, la scottatura di tiglio preparatagli dalla sorella, che non cessava di ripetergli:

– Per non darmi retta!

– Che concludi ora col brontolare? – rispose all'ultimo don Stellario, seccato.

Si vedeva passare e ripassare davanti agli occhi la cassa da morto, e dentro gli orecchi gli zufolavano le male parole di mastro Noce-di-collo:

Dovrò mettervi io, con queste mie proprie manidentro il tabbùtu rubato!

E batteva i denti, non per la febbre soltanto.

 

***

 

Donna Salvatrice, vedendo da due giorni che suo fratello peggiorava e che le scottature non gli giovavano, una mattina cominciò a domandarsi se non era opportuno, anche per gli occhi della gente, chiamare un dottore.

– Non servirà, forse, e sarà una spesa!... Ma per sapermi regolare... – esclamò tristemente, pensando che sarebbe rimasta sola, nel caso d'una disgrazia del povero fratello.

– Come ti senti? Debbo mandare pel medico?

– Sei matta? – strillò don Stellario, sbarrando tanto d'occhi, quasi avesse sentito dirsi: – È finita per te!

E con uno sforzo si rizzò sul letto; ma la tosse lo costrinse a buttarsi giù. Era estenuato, aveva un febbrone da cavallo; pure non voleva medici, medicine.

Infreddatura; non si tratta d'altro. Le scottature di tiglio bastano. Sprecar quattrini pel dottore e il farmacista? Impostori! Intrugli! Intrugli! Impostori! Senti? Hanno picchiato, vogliono forse del vino.

Di tratto in tratto giungevano gli avventori consueti, e donna Salvatrice accorreva; e tornando presso il letto del malato, vi portava l'odore del vino mesciuto allora allora:

– Quattro soldi. Era comare Pina la mineòla. Oggi se n'è venduto sette lire sole, di quello della botte della Madonna.

– Ne rimangono ancora sei salme! Cola Nasca non si è fatto più vedere?

– Te l'ho detto: vuol pagarlo a sei lire il barile. Il prezzo è calato, pretende.

– A dieci lire! Non lasciarti infinocchiare.

– Tu bada a guarire, e la Madonna t'aiuti! – ripeteva donna Salvatrice, tutte le volte ch'egli entrava a ragionare di affari.

Di giorno in giorno, intanto, ella perdeva fede nella guarigione augurata al malato; e l'osservava da piè del letto, scuotendo tristemente il capo quando don Stellario non poteva vederla.

– Insomma, dovrà morire senza medico e senza confessore? – le disse un giorno comare Stella, tirandola da parte.

– Non vuole! Non vuole!

– Almeno il confessore! – soggiunse comare Stella.

 

***

 

Vedendo entrare il prete in camera col pretesto d'una visita, il malato si perdette d'animo tutt'a un tratto.

Don Stellario, son venuto qui per caso, per assaggiare una partita di vino; saputo che state a letto.... Cosa da niente. Coraggio!

– È inutile cercar d'ingannarmibiascicò il malato, con flebilissima voce. Poi rivolto alla sorella, mormorò:

– Tu pensa a sbarazzare la cassa....

Fissava il prete paurosamente:

Ditemi la verità: Non c'è più speranza per me?

– Le cose di Dio, se voi le volete, sono vera medicina!... Non siamo agli estremi, no; non c'è pericolo per ora: ma....

Capisco, capisco!

E parve rassegnarsi.

Appena il prete avvertì donna Salvatrice che egli sarebbe tornato poco dopo col viatico e l'estrema unzione, per la camera del malato fu un gran tramenìo. Le due donne volevano dare un po' d'assetto a quel canile, spazzare, spolverare per ricevere degnamente Gesù Sacramentato.

Salvatrice! – chiamò il malato.

Ella gli si accostò al viso, per risparmiargli di affaticarsi alzando la voce:

– La cassa... non occorre farla ricoprire di stoffa... Spesa perduta! È bella anche così.... Hai capito?

– Che cassa e non cassa! Tu starai bene. Ho fatto accendere una torcia alla Madonna della Stella che ti farà il miracolo!

Non era vero; ma la pietosa bugia fu di buon augurio.

 

***

 

Allorchè don Stellario si sentì, come diceva, proprio ritornato dall'altro mondo e mise i piedi a terra, la prima cosa di cui parlò alla sorella fu appunto della torcia.

– Si è consumata tutta?

E sentito come la cosa era andata, se ne rallegrò assai.

– Se ero destinato a morire, sarei morto lo stesso!

Il giorno in cui potè uscir di camera volle vedere innanzi tutto il tabbùtu che si trovava appunto a bocca spalancata, come lo aveva lasciato donna Salvatrice nella fretta di sgombrarlo.

Don Stellario gli fece tanto di corna, e disse:

Ora ci rimetteremo i fichi, le prugna, ogni cosa!

 


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