Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
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I MAJORI.

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I MAJORI.

Bastava che lo vedessero apparire dalla cantonata della Mercede, con quella tuba rossiccia, alta due palmi, a tesa stretta, col soprabito dalle falde lunghe fino ai piedi e ondeggianti al vento. Ragazzi, adulti, tutti gli sfaccendati di Piazza Buglio, fino i soci del Casino dei Civili cominciavano a fare, da ogni lato, il canto della quaglia : – Quacquarà! Quacquarà! – perchè sapevano che Don Mario Majori ci si arrabbiava.

Alle prime avvisaglie, guardando attorno, palleggiando la grossa mazza di sorbo, scotendo minacciosamente il capo, egli faceva due passi in avanti e si fermava, fissando le persone per scoprire qualcuno degli impertinenti che gli perdevano il rispetto, a lui, figlio e nipote di Mastri Notai, a lui che valeva cento volte più di tutti quei signori incivili del Casino... Ma era inutile. Da destra, da sinistra, con la voce e col fischio: – Quacquarà! Quacquarà!

– Non vi adirate! Lasciateli dire.

Se non ne ammazzo qualcuno, non si chetano!

Volete andare in galera per niente?

Loro... ci mando in galera!

Diventava rosso come un tacchino, smaniando e gesticolando, con la schiuma alle labbra.

Se voi non v'arrabbiaste così, starebbero zitti.

Vigliacchi!... Perchè non mi vengono di fronte?

Quacquarà!...

Ah!... Tu, figlio di cane!

Quella volta, se non lo trattenevano in tempo dicendogli: – Vorreste prendervela con un bambino? – avrebbe rotta la testa al  ragazzo del barbiere, che arditamente gli si era accostato per gridargli sotto il naso: – Quacquarà! – E ce ne volle prima che don Mario si lasciasse trascinare nella farmacia Montemagno, piena di gente che rideva.

Allora Tano, il giovane del farmacista, fattosi innanzi serio serio, gli disse:

Che v'importa se vi dicono: – Quacquarà? – Sareste, per caso, una quaglia?

Don Mario gli rispose con un'occhiataccia.

Infine, non vi chiamano ladro...

Sono galantuomo e figlio di galantuomo!

O dunque? Che significa: – Quacquarà – Niente. E Quacquarà sia!

Il farmacista e le altre persone si contorcevano dalle risa per la serietà di Tano che, con la scusa di fare la predica a Don Mario, gli ripeteva: – Quacquarà! Quacquarà! – in faccia, senza che quegli si accorgesse della malizia.

Io, vedete, a chi mi gridasse dietro: – Quacquarà! – gli darei un soldo ogni volta... – Quacquarà! Quacquarà! Quacquarà! – Sgolatevi pure!

E intanto, tu me lo ripeti sul muso! – urlò all'ultimo don Mario, levando la mazza.

Ma si mise in mezzo lo speziale, che temeva pei vetri delle scansìe; e prèsolo sotto il braccio, lo trasse fuori dalla farmacia, rabbonendolo, dandogli ragione:

Svoltate da qui, non vi vedrà nessuno.

Debbo nascondermi?... Per far piacere ai grulli?... Sono galantuomo e figlio di galantuomo!

 

***

 

Vero, verissimo! I Majori erano sempre stati brave persone, Mastri Notai di padre in figlio, fino al 1819, quando era uscito dall'inferno quel gastigo di Dio chiamato Codice napoleonico, per la disperazione del notaio Majori, padre di don Mario, che non potè capirci mai niente, e dovette smettere l'ufficio.

– Come: Non più formule latine?... E gli atti intestati in nome del Re?... Che c'entra Sua Maestà nelle contrattazioni private?

E volle lavarsene le mani, per isgravio di coscienza. Così lo stoppaccio del gran calamaio di rame s'era inaridito, e le penne d'oca si erano sgangherate, e nella sua casa non ci fu più quel via vai di prima, quando tutti accorrevano da lui, che era l'onestà in persona e non metteva mai su la carta una parola di più, una parola di meno di quel che volevano le parti interessate.

E così don Mario, che fin allora aveva fatto da scrivano nello studio paterno e sapeva a memoria tutte le formule latine senza intenderne sillaba, s'era trovato disoccupato insieme col fratello don Ignazio, che valeva poco più di lui: Morto di crepacuore il padre – per quel Codice scomunicato senza formule latine, e che voleva intestati gli atti in nome del Re! – i due fratelli vivacchiarono di quel poco da essi ereditato, ma altèri della loro onesta povertà: ma rigidamente fedeli al passato anche nel vestire; giacchè continuarono per un pezzo a indossare gli abiti vecchi, tenuti con gran cura, senza badare che non fossero più di moda e li rendessero ridicoli.

Don Ignazio, però, non l'aveva durata a lungo. E quando il suo cappello di castoro gli parve proprio inservibile e il suo soprabito troppo sdrucito, comprò, per pochi tarì, da don Saverio il rivenditore, una tuba usata, e poi un vestito, usato anch'esso, ma che aveva migliore apparenza del vecchio soprabito. Don Mario invece tenne duro. E per ciò andava attorno con quella tuba rossiccia, alta due palmi, a tese strette, e portava indosso quel gran soprabito alla foggia di mezzo secolo addietro, lungo fino ai piedi, spelato e rattoppato, senza però una macchia. Non voleva derogare dal passato, lui figlio e nipote di Mastri Notai! Quella tuba e quel soprabito gli parevano quasi un'insegna di nobiltà, e non li avrebbe smessi a qualunque costo.

Poi erano sopravvenuti tempi duri; le cattive annate, il torcicollo epidemico del '37, il colèra, la rivoluzione del '48; e i due fratelli avevano passato brutte giornate e peggiori nottate, almanaccando sul modo di procurarsi un bicchiere di vino e un po' d'olio per la minestra.

Domani andrò dal tale! – diceva Don Mario. – Intanto spazziamo la casa.

Facevano tutto da loro. E mentre don Ignazio tagliuzzava la cipolla da condire in insalata per la cena, don Mario, con indosso la veste da camera di suo padre, tutta stinta e rammendata, si metteva a spazzare le stanze come una serva, attentamente. Levava la polvere dai tavolini sciancati, dai vecchi seggioloni a bracciuoli e col cuoio sbrandellato nelle spalliere; e, radunate in una cesta le immondizie, apriva cautamente la porta per accertarsi se mai non vi fosse fuori qualche vicino o qualche passante. Ma, di solito, usciva a tarda notte per deporre le immondizie dietro il muro d'una casa in rovina, ridotta a letamaio dal vicinato.

Nella via, raccoglieva sassi, torsoli di cavolo, bucce di arance e di poponi, per ripulirla, visto che nessuno vi badava, e tutti anzi facevano il comodo loro, senza punto curarsi della nettezza. La nettezza!... Era la sua fissazione, in casa e fuori. E spesso don Ignazio, vedendolo tardare, era costretto a richiamarlo:

– Sei lo spazzino pubblico, tu?

– La pulizia l'ha ordinata Domeneddio! – rispondeva don Mario.

E lavatesi le mani, si metteva a mangiare quella magra cena di cipolla in insalata e pane, quasi fosse stato un piatto prelibato da leccarsene le dita.

– Questo è l'olio di donna Rosa, e non ce n'è più! – disse una volta don Ignazio, fra un boccone e l'altro.

Domani andrò dal Cavaliere...

– Suo padre era contadino!

– Suo nonno andava a giornata...

Ora è ricco sfondato!...

– Suo nonno diventò fattore del principe e... sfido, s'arricchì.

Andiamo a letto; il lume si spegne.

Dovevano economizzare fino il lume. Dai letti, al buio, continuavano, però, la conversazione interrotta, saltando di palo in frasca:

– Hai visto la banda con la uniforme nuova?

– Sì... Massaro Cola ha raccolto quest'anno cento salme di grano.

– Chi sa se è vero?... Buon pro' gli faccia!

Domani andrò dal Cavaliere, per l'olio.

– Non abbiamo più vino...

Andrò anche pel vino. Paternostro...

Avemmaria...

E si addormentavano.

 

***

 

La mattina, spazzolato ben bene il vestito frusto, rattoppato, e la tuba rossiccia, don Mario si vestiva in fretta e cominciava la giornata con andare alla Messa dell'Immacolata, a San Francesco. cantava le strofette dello Stellario tra i confratelli della Congregazione, battendo forte con un piede sul pavimento quando tutti gridavano: – A dispetto di Lucifero infernale, viva Maria Immacolata! – Intanto don Mario spesso non sapeva frenarsi dal dire a questo o a quell'altro che gli stava accanto, che gl'immacolatisti, come chiamavano quei confrati, erano quasi tutti chi ladro, chi intrigante, chi usuraio.

Canzonano la Madonna e Domeneddio!

Badate ai fatti vostri!

– Voi siete più ladro di loro, se li difendete.

– E voi, bestione.

Gli dicevano sempre così: – Bestione! – tutte le volte che gli scappava detta una verità, compatendolo perchè era ingenuo e non parlava per malizia. Don Mario non replicava, ma non mutava parere:

– Sono quasi tutti chi ladro, chi intrigante, chi usuraio!

E stringeva al petto, sotto il soprabito, la bottiglia con cui doveva andare a chiedere un po' d'olio o un po' di vino alle persone caritatevoli, dopo ascoltata la Santa Messa.

Si presentava umile e cerimonioso:

– È in casa il signor Cavaliere?

– No; c'è la signora.

Ormai le persone di servizio sapevano che cosa significasse una visita di don Mario, e lo lasciavano nell'anticamera ad aspettare, o gli dicevano, senz'altro:

Datemi la bottiglia, don Mario.

Non era raro il caso che, mentre di gli riempivano la bottiglia, egli non stesse più alle mosse vedendo la sciatteria della stanza. Montava su una seggiola per levar via, con la punta della mazza, i ragnateli della volta, e se trovava a portata di mano una granata, uno straccio – che poteva farci? Non sapeva resistere! – si metteva a spazzare il pavimento, a spolverare un quadro, a raccattare i pezzettini di carta o di stoffa sparsi per terra.

– Che fate, don Mario?

– La pulizia l'ha ordinata Domeneddio!... Ringraziate la signora!

Donna Rosa, però, che si divertiva a discorrere con lui, lo faceva entrare ogni volta in salotto e lo invitava a sedersi.

– Che c'è di nuovo, caro don Mario? Come state?

Bene, con la grazia di Dio. Voscenza come sta?

– Come le vecchie, caro don Mario!

Vecchio è chi muore. Voscenza è così caritatevole, che il Signore deve farla campare cent'anni....

Donna Rosa tirava a lungo il discorso, quasi non avesse capito lo scopo della visita; e don Mario si calcava sotto il soprabito la bottiglia vuota, aspettando l'occasione di presentare la richiesta senza parere importuno. Di tratto in tratto, si levava da sedere:

Scusi, voscenza...

E dava una spolverata a un tavolino.

Scusi, voscenza.

E si chinava per raccattare un filo di lana o di refe e buttarlo fuori del terrazzino aperto. Pareva che quella polvere, o quel po' di refe o di lana gli avessero dato il mal di stomaco, tanto egli s'era dimenato su la seggiola dopo che li aveva veduti.

Lasciate andare, don Mario...

– La pulizia l'ha ordinata Domeneddio!... Ero venuto....

– Vostro fratello è contento del suo impiego? – lo interruppe un giorno, donna Rosa.

Contentissimo.

Dovreste farvi nominare Regio Pesatore anche voi. Manca tuttavia quello del mulino degli Archi.

– E l'addizione, signora? E l'addizione?... Ignazio sa farla!

Alzò gli occhi al cielo, sospirando per quella che gli sembrava proprio un'operazione da calcolo sublime.

Povero Ignazio! Torna così stracco dal mulino! Si figuri: quattro miglia di salita, a piedi! Ero venuto per questo....

E mostrò la bottiglia.

Volentieri!

Chi poteva dirgli di no al buon don Mario?

Quando, però, gli accennavano alla maledetta addizione, neppure il regalo di una bottiglia di vino riusciva a metterlo di buon umore. S'era provato tante volte a fare un'addizione! Il guaio per lui erano le decine.

– Nove più uno, dieci... Va bene. Ma: Lascio zero, e riporto uno!... – Perchè riportare uno, se sono dieci?

Non c'era stato verso che gli entrasse in testa! Eppure non era uno stupido. Bisognava sentirgli leggere le vecchie scritture notarili, con tutte quelle strane abbreviazioni latine che i nuovi notai e gli avvocati non sapevano decifrare. È vero che li recitava come un pappagallo, senza capirne nulla; ma, intanto, guadagnava due tarì ogni volta, quando lo richiedevano di questo servigio; e ci entravano un paio di litri di vino e mezzo chilo di carne di agnello! Pasqua addirittura, quantunque ora, con l'impiego di don Ignazio, i due fratelli più non stentassero come prima.

 

***

 

Sarebbero stati, anzi felici, senza quel: – Quacquarà – che faceva arrabbiare don Mario. Donde l'avevano cavato?

Ormai, egli non poteva dare un passo fuori di casa, che non se lo sentisse gridare o zufolare da qualche impertinente ineducato.

Farò uno sproposito, un giorno o l'altro!

E una mattina andò a ricorrere dal regio Giudice, che allora aveva in mano anche la Polizia. Fino il Giudice rideva!

Vi dicono: – Quacquarà? – E voi lasciateli dire!

Li accuso davanti alla vostra giustizia! – urlò don Mario.

Ma chi accusate?

Tutti!

Troppi! Non si può arrestare l'intera popolazione.

Piuttostoriprese il Giudicesmettete di portare cotesto cappello e cotesto soprabito; vedrete che allora non vi diranno più nulla.

Poichè un galantuomo non può ottenere giustizia! –brontolò don Mario.

E andò via dignitosamente, risoluto di farsi giustizia con le proprie mani.

Male gliene incolse, però, la prima volta che lasciò correre un ceffone a Sputa-cristiani, così chiamato perchè parlando sputava tutti!

Sputa-cristiani  quel giorno, non aveva colpa; montò, sulle furie e rispose con parecchi schiaffi sonori. Il povero don Mario, che non se l'aspettava, rimase interdetto:

Come?... Per un ceffone, me ne sei, sette?

Non rinveniva dallo stupore.

Per disgrazia, nella colluttazione, Sputa-cristiani gli aveva anche strappato mezzo il vecchio soprabito che si reggeva a stento.

Il Giudice tenne in arresto un paio d'ore colui che aveva ecceduto, e aprì una colletta in Casino per un vestito nuovo e una tuba da regalare a don Mario. Ma egli non volle lasciarsi mai prendere le misure dal sarto; e il giorno che gli portarono in casa il vestito, tagliato e cucito a occhio e croce, insieme con una tuba nuova, ringraziò con garbo e rimandò indietro ogni cosa.

– Sei stato uno sciocco! – gli disse il fratello, che, tornando dal mulino, lo aveva trovato intento a rammendar il soprabito. – Con questo è impossibile andar fuori.

Starò in casa! – rispose alteramente.

Passava il tempo su la soglia della porta, discorrendo con le vicine, o aggirandosi per le molte stanze vuote della casa crollante. Da anni e anni non vi erano state fatte riparazioni di sorta alcuna. Le imposte si reggevano appena sui gangheri, due solai erano sprofondati e bisognava passare sui tavolini, posti in guisa di ponticelli, per andare da una stanza all'altra, dove i tetti versavano acqua da tutti i punti, quando pioveva.

Vendete metà della casa! – gli diceva qualche vicino. – È troppo vasta per le due mosche che siete.

La sera, a cena, ragionando di questo, don Mario e don Ignazio si erano trovati in un bell'imbroglio.

Vendete! È presto detto. Che vendere?... Lo antico  studio notarile?

Oh! – esclamò don Mario indignato.

È vero che i grossi volumi, rilegati in pelle scura, non si trovavano più negli scaffali attorno: li aveva presi il Governo, quasi fossero stati roba sua, e non dei Mastri Notai stipulatori di tutti quegli atti! Ma che importava? Gli scaffali, tarlati e sfasciati, ridotti a ripostiglio di piatti, di tegami, di utensili d'ogni specie, restavano, ai loro occhi, testimoni quasi viventi dell'antico splendore. I due fratelli si erano guardati in viso:

È possibile?... Vendete! Che vendere? La camera della Nonna?

Camera misteriosa, chiusa da cinquant'anni, di cui s'era fin perduta la chiave della porta. Vi era morta la moglie del Nonno, una santa; quegli aveva ordinato che, in segno di perpetuo lutto, la stanza rimanesse chiusa per sempre; e così era stato fatto. Ogni notte, i topi facevano dentro balli indiavolati... Che importava? Un mastro notaio Majori aveva voluto che nessuno l'aprisse, e nessuno l'aveva più aperta.

Vendete!... Che vendere? La stanza dei ritratti?

Stava schierata alle pareti mezza dozzina di tele incorniciate, annerite dagli anni e dal fumo, dalle quali scappavano fuori qua la testa maschia e severa di don Gaspare Majori, del 1592, rosso di capelli, in gran toga scura e con un rotolo di carte in una mano; gli occhi grigi, i baffi bianchi e il pizzo di don Carlo, del 1620; accanto, la parrucca e il viso tondo, raso, di don Paolo, del 1687. Più in , la testa scarna e allungata di don Antonio, incastrata nel bavero enorme, con il collo fasciato da un cravattone bianco e i ciondoli pendenti fuori delle due tasche del vistoso panciotto, del 1805; don Mario sapeva a memoria vita, morte e miracoli d'ognuno, e don Ignazio pure.

Dobbiamo scacciarli di casa noi?

Oh! Non è possibile!

E preferivano di lasciar crollare ogni cosa; quasi studio  notarile, camera della Nonna, stanza dei ritratti formassero parte integrale del corpo; quasi, col vendere anche un solo palmo di quella casa, essi cessassero d'essere di quei Majori, Mastri Notai da parecchi secoli, di padre in figlio! Tutti erano vissuti , avevano tabellionato ; di generazione in generazione, fino al padre loro, don Antonio Majori....

È mai possibile? – ripeterono insieme i due fratelli.

E andarono a letto, e spensero il lume.

Tanto, ne abbiamo per poco! Siamo vecchi, Mario...

Tu hai due anni più di me.

.... Domani verrà notar Patrizio, per farsi leggere una scrittura antica.

Così, compreremo mezzo chilo di carne.

Saverio il macellaio truffa nel peso. Aprirò tanto d'occhi.

.... Ho prestato il mattarello a comare Nina.

.... Il vino lo prenderò da Scatà, di quello di Vittoria.... Paternostro!

.... Avemmaria....

E si addormentavano.

 

***

 

Siamo già vecchi! Ignazio ha ragionerifletteva don Mario. Intanto, si domandava:

Chi dei due morrà il primo?

Rimaneva triste, scoraggiato.

Io sono il minore. Dopo, erediteranno la casa i parenti lontani, se la spartiranno, la venderanno!... Che ce n'importerà, Ignazio ed io non saremo più qui. I veri Majori siamo noi. Morti noi, morto il mondo!

Pure, continuava a spazzare quella rovina con lo stesso amore, con la stessa accuratezza d'una volta; levando via i ragnateli dalle mura e dagli angoli; spolverando i pochi mobili tarlati e sfasciati; piantando un chiodo in una spalliera di seggiolone, in un piede di tavolino; incollando un foglio di carta oleata a una finestra dove mancava un vetro; portando fuori, al solito, a tarda notte, le immondezze.

Anzi, ora, accadendogli d'addormentarsi anche di giorno, per la solitudine e l'inerzia, passava fuori le nottate, spazzando il vicolo per lungo e per largo, contento di sentire la maraviglia del vicinato la mattina dopo:

È passato l'angelo questa notte pel vicolo.... È vero, don Mario?

Egli sorrideva e non rispondeva, rassegnato alla volontaria prigionia, poichè non poteva più indossare il vecchio soprabito e la vecchia tuba, sempre , spolverati e senza una frittellina, sebbene inservibili.

Un giorno, però, don Mario perdette a un tratto la pace.

Affacciatosi a un abbaino sopra la stanza dei ritratti, aveva guardato laggiù, in fondo alla strada, la bella casa del Reina, dal portone stranamente intagliato, dalle mensole dei terrazzini a foggia di mostri contorti.

Bel palazzo, anzi Reggia! – diceva don Mario, che non ne aveva mai visto uno più bello. – Intanto, il proprietario come non s'accorge dei ciuffi di paretaria cresciuti fra gl'intagli sull'arco del portone, e che deturpano l'edificio?

La sera, appena don Ignazio, stanco e trafelato, arrivò dal mulino:

Senti, – gli disse don Mario; – dovresti andare dal signor Reina. Lascia crescere tra gl'intagli del portone, sotto il terrazzino di centro, certe erbacce!... Fanno stizza a vederle!

Ebbene?

Dovresti avvertirlo, almeno quando lo incontri.

Lo avvertirò.

Don Ignazio, rifinito dalla via fatta a piedi, aveva ben altro pel capo; voleva cenare e andarsene a letto.

Ma d'allora in poi non ebbe più requie neppur lui. Ogni sera, all'arrivo dal mulino, non finiva di deporre in un canto il bastone, che don Mario non gli domandasse:

Hai parlato al signor Reina?

No.

Va' a dirglielo ora stesso. Peccato! Quelle erbacce guastano l'architettura!...

Se le sentiva come un bruscolo negli occhi; non sapeva persuadersi in che maniera il signor Reina potesse sopportare quello sconcio. E si affacciava più volte ogni giorno all'abbaino, montando su una scala a piuoli, appoggiata al muro, con pericolo di fiaccarsi il collo, se per caso fosse cascato. Quelle erbacce, Signore! erano sempre ; crescevano a ciuffi che tremolavano al vento.... Se fossero stati dolori allo stomaco, forse egli non ne avrebbe sofferto altrettanto!

Gliel'hai detto al signor Reina?

Sì.

Che ti ha risposto?

Una parolaccia!

Quella notte don Mario non potè chiudere occhio.

E appena s'accorse che il fratello russava, riacceso il lume, tornò a vestirsi, prese in collo la scala a piuoli, che gli storpiava la spalla, e s'avviò verso la casa del Reina, rasentando il muro dalla parte dell'ombra per evitare il lume di luna, come ladro che vada a dare la scalata.

Per ladro, infatti, lo presero le guardie di ronda, trovàtolo arrampicato lassù, in cima al portone, affannato a strappare le erbacce parassite, a dispetto del proprietario che non se ne curava.

Che fate costì?

Strappo quest'erbe.

Scendete giù, birbante!

Lasciatemi finire; sono un Majori....

Giù, vi dico!

E alla brusca intimazione, il povero don Mario dovette scendere, tremando, lasciando parecchi ciuffi di paretaria, che avrebbero continuato a deturpare la bella architettura.

C'è mancato poco non mi conducessero in carcere!... Per aver voluto fare un po' di bene! – disse al fratello, emettendo un gran respiro.

Ma fu tanto lo spavento preso che morì, povero Quacquarà, da a tre mesi, con l'incubo di quelle erbacce sul cuore.


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