Luigi Capuana: Raccolta di opere
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CANI, FURETTO E... CHIOCCOLI

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CANI, FURETTO E... CHIOCCOLI

Era ridotto proprio come quel vecchio merlo a cui donna Totò aveva posto nome Canonico! e che non cantava più e stava appollaiato tristamente su la stecca della gabbia, quasi seccato di vivere, cibandosi soltanto di zuppa di biscottini, di quelli che il canonico Motta amava intingere nel caffè.

Il canonico intanto lavorava tranquillamente a fabbricar chiòccoli per la caccia delle quaglie, seduto davanti alla cassetta, posata su una seggiola, dove stavano riposti brani di pelli di capretto conce, cannellini di stinchi di tacchino, minuzzoli di candele di cera, matasse di refe grosso, forbici, aghi, un ditale e il legnetto intagliato a vite con cui dava le pieghe a mantice ai sacchettini dei chiòccoli.

La podagra lo aveva ridotto mezzo invalido. A casa, sua sorella donna Agnese, vedendogli sciupare quelle buone pelli di capretto che costavano tanti quattrini, brontolava da mattina a sera:

– Che ne fate dei chiòccoli, ora che non potete più andare a caccia? Pazzo da legare!

Da donna Totò, invece, egli poteva svagarsi, in tanti modi. Pipava mandando fuori grandi boccate di fumo, guardava il vecchio merlo quasi fosse stato il suo ritratto e gli fischiava, come se dovessero intendersela bene tra loro, uno più invalido dell'altro. Canonico rizzava la testa spiumata, scoteva le ali e la coda, mandava fuori un flebile chiòccolio, e rimaneva , appollaiato su la stecca, immobile, aspettando di morire.

Pareva impossibile che la podagra lo avesse ridotto in quello stato! Non solamente la podagra, per dire la verità, ma anche gli anni.

Ne erano passati parecchi da quando, bruno, con folti capelli neri, corto e grassoccio, indossava la bella cotta ricamata, la mozzetta e la stola, assumendo un'aria dignitosa che i suoi colleghi non avevano.

Usciva a passi lenti dalla Sagrestia, faceva un profondo inchino davanti all'altare del Sacramento e si avviava verso il coro.

Quantunque non amasse molto il breviario, mancava di rado all'uffizio delle Laudi e del Vespro. Allora questo fruttava, e le rendite venivano spartite soltanto tra i presenti, segnati su lo scartafaccio bislungo conservato in sagrestia.

Spesso però, tra un versetto di salmo e l'altro, appiccicava conversazione con questo o con quello dei canonici seduti ai lati del suo stallo, ragionando di caccia, sua gran passione, senza curarsi delle bieche occhiate del Prevosto che, di rimpetto, bofonchiava l'ufizio con voce roca, quasi invece di cose sante dicesse bestemmie.

E mentre i suoi colleghi brontolavano: Retribuere servo tuo con quel che segue, egli sussurrava al canonico Desi:

Sabato andrò ad ammazzare una lepre a Poggio Rosso; l'ha scovata il fittaiolo.

Perchè me lo dite? – rispondeva quegli, con l'acquolina in bocca. – Incola ego sum in terra.... Ve la mangerete voi; buon pro vi faccia!

– Sono arrivate anche le pernici.

In lingua nostra exultazione. Non me ne importa niente. Tanto, se vorrò cavarmene il gusto, dovrò comprarle al mercato.

– Ve ne manderò una in regalo... Portantes manipulos....

– Come il coniglio dell'altra volta!

Amen!

Quell'amen così stiracchiato era del Prevosto, per interrompere la conversazione.

Raglia! Raglia! – gli rispondeva il canonico Motta, sottovoce. E continuava:

– Il mio levriere è malato! È cane che vale cent'onze!

– Forse anche meno!

– Più di cent'onze, se ve n'intendeste. Domani andrò a provare certa polvere inglese portentosa.

Domani c'è l'anniversario di Pocasemenza sei tarì a testa.

– Allora, domani l'altro.

Et Spiritui sanctooo! Stiracchiava il Prevosto.

Raglia

Il canonico Motta non lo poteva soffrire.

C'era della ruggine tra loro, per la prevostura. Secondo lui, Monsignore gli aveva fatto torto nella circostanza di quel concorso, che gli era costato una vera indigestione di trattati di teologia dommatica, di teologia morale, di casistica, di diritto ecclesiastico, dopo che non ne aveva più aperto neppure uno da che indossava la mozzetta e la stola canonicale.

Quel capriccio del concorso gli era saltato in testa tutt'a un tratto; e per dieci mesi, rassegnatosi al sacrificio di lasciar da banda cani, fucile, furetto, reti, ogni cosa, s'era rimesso a sgobbare come in seminario, facendo centinaia di pipate su gli in-foglio dell'Antoine, del Le Clerc e compagnia bella, per insegnare la creanza, com'egli diceva, a quel villanzone del canonico Costa, che voleva diventare prevosto lui.

Aveva anche evitato, per tutto quel tempo, certa pratica. che dava da sparlare alle cattive lingue, e per la quale il Vescovo, nell'ultima visita diocesana, gli aveva fatto, a quattr'occhi, un predicozzo.

Egli si era difeso:

Calunnie, Monsignore! Io vado da cotesta signora soltanto per prendere una buona tazza di caffè, dopo la messa.

– La prenda piuttosto a casa sua, signor canonico.

– Ci ho fatto l'abitudine, Monsignore.

Cattiva abitudine!

E per un po' di tempo, aveva dovuto smettere.

Così, preparandosi a insegnare la creanza a quel collo torto del canonico Costa, una mattina, nel sorbire la solita tazza di caffè dalla signora, le aveva annunziato:

Passerranno dei mesi, prima che venga a prenderne un'altra!

Donna Totò, che imbeccava in quel momento una nidiata di merli, s'era voltata con gran stupore negli occhi, domandando:

Perchè?

– Il concorso!... Monsignore!...

E tenendo fra i denti la pipa, ch'egli stava accendendo, buttava dietro a ogni parola uno sdegnoso sbuffo di fumo.

C'è quel collo torto, capite?... che vuol darla a bere alla gente e a Monsignore. Combatte con tutte le armi, capite?

E sbuffi di fumo, a ogni due, tre parole.

Donna Totò, non sapeva capacitarsi in che maniera quel concorso alla prevostura potesse impedirgli la pipata durante la fermatina in casa di lei prima di dir messa, e l'andarvi a prendere il caffè coi crostini dopo, per non guastarsi lo stomaco restando digiuno fino a tardi.

Fatelo intendere a Monsignore! – aveva conchiuso il canonico.

E non gli giovò a niente.

Monsignore s'era lasciato abbindolare, e aveva nominato Prevosto quell'altro, senza tener conto del parere degli esaminatori, delle eresie, dei solecismi di latino coi quali l'ignorantone aveva infiorato a larga mano gli scritti del concorso.

Raglia! Raglia!

Era quel che si meritava.

 

***

 

Il canonico Motta, che poteva spiegare benissimo per quali cattive ragioni non fosse diventato prevosto, non avrebbe intanto saputo dire perchè si fosse messo il collare e avesse preso gli ordini sacri. Nella famiglia, ab immemorabile, c'era sempre stato un canonico; per continuare la lucrosa tradizione, suo padre gli aveva fatto indossare la zimarra mandandolo in seminario. Lui come lui, non aveva detto sì, no. Studicchiata un po' di teologia, come avrebbe studiacchiato un po' di Codice o di medicina all'Università, ricevuti gli ordini, la messa, e in fine il canonicato, aveva posto sùbito i libri teologici a dormire sotto la polvere negli scaffali, e s'era abbandonato interamente alla sua passione giovanile, la caccia.

Ora, il vero breviario gli pareva quel fucile a due canne, novità fatta venire da Malta, e costata un occhio; e i colpi sparati alle beccacce, ai conigli, alle pernici, alle lepri, alle volpi, quando capitavano, ai porci spini, anche più rari, gli suonavano all'orecchio assai meglio di tutti i salmi, di tutte le antifone e dello stesso ufizio dei morti, che pure veniva pagato per , appena terminata la funzione.

A casa sua era un via vai di cacciatori dilettanti e di professione.

Chi lo pregava per ottenere in prestito il bracco o il levriere, o il furetto; chi si raccomandava per un po' di quella polvere miracolosa, che si trovava soltanto presso il signor canonico, ed era inutile cercarla altrove; chi veniva a dargli l'avviso di certo posto dove la selvaggina formicolava; chi a raccontargli le peripezie di una partita di caccia andata male:

– Ah, ci voleva il signor canonico!

E il signor canonico, sorridendo, invanito, prestava il bracco, il levriere, il furetto, pei quali poco prima s'era lasciato scappare:

-       Non li presterei neppure a mio padre!

E regalava, due tre cariche di quella polvere proprio inglese, che a sentir lui pareva provenisse a dirittura di mano degli angeli, e di cui c'erano al mondo le sole poche libbre ch'egli possedeva.

 

***

Il gran confidente del canonico però era 'Nzulu Strano, la prima balestra del paese, come lo aveva battezzato.

Arrivava ordinariamente verso un'ora di notte, stanco d'una giornata di caccia, mestiere di cui viveva, allampanato e giallastro, con quel vestito di frustagno color cece, che lo faceva parere più smorto, coi calzoni infilati negli stivali e la pipa di radica in bocca. Quando portava qualche gran notizia, si fermava nel vano dell'uscio, con le gambe allargate agitando una mano:

– Il Padre Eterno dei bracchi! L'ha un saponaio di Ragusa.

– Chi te l'ha detto?

E 'Nzulu, una sera, aveva sfilato una storia che non finiva più: vita e miracoli di quel Padre Eterno.... Inchiodava la selvaggina! Il cacciatore poteva con tutto il suo comodo ricaricare il fucile e godersi il colpo; una maraviglia!

– Vorrà venderlo?

– Neppure a Ferdinando II.

Gli occhi del canonico sfavillarono cupidi:

– Se tu riesci!

'Nzulu, compreso che significassero quelle tre parole buttate, così, per aria, alzò le spalle masticando il bocchino della pipa:

– E se mi arrestano?

Va' ! Il Capitan d'Armi di Modica è un amico. Ti hanno forse arrestato per Regina e per Cardillo?

Trattandosi di cani, il canonico Motta aveva pochi scrupoli, perdeva facilmente le giuste nozioni del tuo e del mio. Per quel Padre Eterno dei bracchi, avrebbe speso mezzo canonicato, senza rifletterci un solo istante; ma poichè il saponaio diceva di no: – Neppure a Ferdinando II! – voleva fargli vedere che lui, povero canonico e nient'altro, si sentiva più forte del re.

'Nzulu, se tu riesci!

Riusciva sempre quel diavolo allampanato e giallastro, maledetto da Dio! E il mezzo canonicato se lo beccava lui, a poco a poco, lamentandosi tutti i giorni del suo brutto mestiere che non andava più, della selvaggina diventata rara, della polvere cattiva, dei pallini che costavano cari, quasi fossero fatti di argento o d'oro; di quella tristaccia della Capraia, che gli costa gli occhi del capo, malata dodici mesi dell'anno!

– Costei è la mia rovina. Ora ci vogliono sei tarì per un intruglio dello speziale, e non ho nemmeno due grani.

Così, oggi erano sei, domani dodici tarì, che il canonico gli metteva nel pugno, di nascosto di sua sorella donna Agnese, la quale sarebbe diventata una lima sorda, se se ne fosse accorta.

Ella ce l'aveva contro lo scrocconaccio e non dava requie al fratello.

Succedeva un battibecco di due ore, quando il canonico le diceva:

– Verrà 'Nzulu, per due tumoli di frumento. Poveretto! Perisce di fame.

Dategli quello del canonicato, che mandate in casa di donna Totò! Chi ne vede un chicco?

E spesso, infatti egli inviava 'Nzulu da donna Totò, perchè il grano del canonicato i fittaiuoli della Collegiata andavano a scaricarlo , con la scusa che il canonico gliel'aveva venduto. E sacravano sotto voce:

La roba di Dio va al diavolo!

 

***

 

Ogni mattina, donna Totò preparava la pipa al canonico, perchè facesse una fumatina, intanto che si riposava della salita, ora che la podagra gli faceva mezze spezzate le gambe. Il fumo non rompe digiuno; e se Gesù Cristo, entrandogli in bocca dopo la consacrazione, sentiva un po' di puzzo di tabacco, poteva ben compatirlo. Fumava anche il papa!

Poi, il caffè di donna Totò aveva un aroma speciale. Quello preparato da donna Agnese pareva al canonico proprio acqua affumicata. E sua sorella non pensava a crostini, a biscotti, a pan di Spagna da intingere.

Indossando il camice e la pianeta, egli già cominciava a sentirsi solleticare le narici da quel profumo delizioso. Al vedere nella patena l'ostia da consacrare, pensava sùbito ai crostini, che erano assai più sostanziosi; e si spicciava, si spicciava dall'introibo all'ite missa est, tanto che il sagrestano durava fatica a tenergli dietro con gli amen e i cum spiritu tuo.

In campagna, nella chiesola della masseria, egli si sbrigava per un altro verso.

Ogni sabato sera, suo fratello don Franco gli mandava la mula, e la partenza del canonico era uno spettacolo nella viuzza dove egli abitava. Tutti i suoi cani, sguinzagliati, abbaiavano, si rincorrevano festosamente, facevano un chiasso indiavolato attorno alla mula sellata, che il garzone teneva per la briglia, aspettando che il canonico scendesse le scale portando in mano il fucile e la carniera ad armacollo.

'Nzulu Strano era alla cantonata, con la pipa in bocca e il fucile in ispalla per fargli compagnia; e carezzava i cani, o li richiamava col fischio e con la voce, se si allontanavano per le vie accosto:

Tèh, Regina! Tèh, Cardillo!

Tutte le donnicciuole sugli usci. Bambini scalzi e stracciati schiamazzavano insieme coi cani attorno alla mula, che si lasciava tirare per la coda o per la criniera pacificamente, conoscendoli uno per uno, tante volte li aveva visti per la stessa occasione.

Buona caccia, signor canonico!

Felice viaggio, signor canonico!

Solo una vecchiarella ora non gli diceva nulla, comare Nina la sciancata.

Il canonico aveva notato che a ogni «Buona caccia, signor canonico» di quella vecchia sciancata, la polvere non gli diceva più, i cappellotti non prendevano, i conigli si scotevano da dosso i pallini quasi fossero stati gocce d'acqua benedetta, e nell'andar via quatti quatti, si voltavano indietro, agitando le orecchie per canzonarlo.

– Voi non dovete dirmi niente, jettatoraccia! Avete capito?

E la povera vecchiarella non gli aveva detto più niente.

Alla masseria, il preparatio ad missam era la posta pei colombi selvatici. Intanto che il massaio, sonando con la buccina marina l'appello ai contadini per la santa messa, faceva rintronar la vallata, il canonico andava ad appostarsi laggiù, sotto il sorbo, e 'Nzulu buttava sassi da cima alla rupe, tra i fichi d'India e gli oleastri, per ispaventare i colombi e farli scappare dai nidi. Essi scappavano a stormi, con gran fruscìo di ali, a ogni sasso che rumoreggiava sbalzando tra le schegge della rupe, i fichi d'India e gli oleastri; e sùbito, si udivano due colpi di fucile, uno dietro l'altro, laggiù, di sotto il sorbo. 'Nzulu ne vedeva il fumo; e vedeva anche il canonico: raccogliere frettolosamente la preda e riporla nella carniera. E la buccina del massaro continuava ad assordare la vallata; e i colpi di fucile a echeggiare tra le rupi.

Nella chiesuola, i cani scodinzolavano e saltavano attorno al canonico mentre 'Nzulu lo aiutava a indossare i paramenti sacri, a preparare il calice e aprire il messale.

Il canonico gli aveva insegnato a servir messa. Che quegli storpiasse il latino, non importava; Domineddio capiva lo stesso. E poi, era affare di un quarto d'ora.

Un giorno però la messa del canonico durò anche meno.

A un Dominus vobiscum, dalla porta spalancata, in fondo al viale, affollato di contadini in ginocchio che la chiesola non capiva, davanti alle piante dei carciofi, avea visto un cane di pelo castagno, piccolo, seduto su le gambe posteriori, col muso all'erta, le orecchie ritte e lo sguardo fisso. Testa intelligente, naso di razza, musino bene affilato, da cane da fermo; non poteva sbagliarsi.

Da prima, resistette alla curiosità e sbrigò l'evangelo; ma voltatosi di nuovo, a una squadratura più lunga, da quell'espertissimo cacciatore ch'egli era, potè giudicarlo meglio. Accennò a 'Nzulu, e fingendo di dirgli qualcosa che riguardava il servizio divino, gli soffiò a voce bassa

– Quel cane... presso i carciofi, guarda. Di chi è?

'Nzulu, data un'occhiata, rispose con una mossettina di testa e di spalle: Di chi? Non lo sapeva. Ma ne domandò al massaio inginocchiato presso l'altare. Il massaio si rivolse per guardare; e allora coloro ch'erano nella chiesuola si voltarono tutti, incuriositi; e fuori, nel viale, seguì un più rapido movimento di teste alla direzione della carciofaia, un domandare e un rispondere con monosillabi e con cenni... Nessuno ne capiva niente.

Il cane, quasi ne avesse capito qualcosa lui, si levò e disparve, mentre il canonico, aprendo le braccia per un altro Dominus vobiscum, sgranava gli occhi arrabbiato che fosse andato via prima ch'egli avesse terminato la messa. Quei pochi minuti, che occorsero per arrivare affrettatamente alla benedizione, trinciata in un battibaleno, gli erano parsi una eternità. Cavàtosi il manipolo, la pianeta, il camice, che stracciò a una manica, disse al massaio:

– Di chi è quel cane?

Dev'essere di Corda-al-piederispose un contadino accostatosi per sapere di che si trattasse.

Infatti, presso i carciofi, il figlio di Corda-al-piede lisciava l'animale e gli diceva ridendo:

– Hai sentito la messa anche tu?

Il cane salterellava, faceva le viste di volergli mordere la mano, per carezza, ringhiando eccitato e allegro; e abbaiava, a riprese, se qualcuno gli toccava la coda, o il padrone tentava di accarezzarlo.

– Che ne fai di questo cane? – gli domandò il canonico.

– È di mio padre.

– Me lo prendo io.

– Neppure per scherzo. Gli costa mezza salma di fave.

– Gliene darò una intera.

–Niente, signor canonico. Gli vuol bene più che a me che gli son figlio.

– Su, venga a prendersi le fave. Va' a dirglielo.

Ma, un'ora dopo, Corda-al-piede arrivò trafelato pel cammino fatto, strepitando:

– Voglio il mio cane!

Bestia, che te ne fai?

– Voglio il mio cane!

Non rispondeva altro. E siccome 'Nzulu e il massaro cercavano d'inframmettersi, cominciò a sbraitare e a dir parolacce.

'Nzulu lo tirò da parte, vicino al pollaio:

– Come? Dite di no al signor canonico? Non lo sapete dunque ch'egli può giovarvi in tutte le circostanze?

– Voglio il mio cane!

Quel giorno il canonico tornò di malumore al paese; e per una settimana discorse di quel cane con 'Nzulu e con gli altri che venivano a fargli visita, al solito, pel levriere, o pel furetto, o per qualche carica di polvere da caccia, di quella che si trovava soltanto presso il signor canonico ed era inutile cercarla altrove...

Cottone, un altro cacciatore di mestiere, lo conosceva meglio di tutti il cane di Corda-al-piede.

Animale coi fiocchi! Caccia da , e porta i conigli al padrone senza che nessuno l'abbia addestrato. Ma quello zotico non si degna nemmeno di prestarlo.

Mezzo paese si mise in moto, per far cosa grata al signor canonico. E 'Nzulu andava e veniva, annientando ogni volta il prezzo che quegli era pronto a pagare. Corda-al-piede più si vedeva pregato, e più diventava duro. Il canonico, quando gli riferivano le risposte, si mordeva le mani. Non gli era mai accaduto un caso simile; gli pareva impossibile che quel pezzo di villanaccio resistesse alle offerte e alle minacce. Giacchè egli, alla fine, era ricorso alle minacce per intimorirlo. Corda-al-piede rispondeva:

– Nel mondo, due sono potenti: chi ha molto e chi non ha niente. Che può farmi il canonico?

Questi, tornando a dire la messa in campagna, aveva delle distrazioni. Vedeva sempre, , in fondo al viale, presso la carciofaia, il cane di Corda-al-piede, quantunque non vi fosse e non s'era più visto perchè il padrone lo teneva in casa incatenato.

io, lui! – decise il canonico.

E trovò chi, con la scusa di dire una parolina a Corda-al-piede, andò a buttargli in casa una polpetta di stricnina pel cane.

Ma un sabato sera, il canonico Motta, andando a Bardella per la messa della domenica, vide proprio la morte con gli occhi, come diceva 'Nzulu Strano, raccontando il fatto. Corda-al-piede, che attendeva allo svolto della strada, presso il vallone della Làmia, gli puntò il fucile in faccia, esitante:

– Per la Madonna!... Dovrei farvi fare una fiammata e andarmene in galera!

Il canonico, colto alla sprovvista, fermò la mula, pallido come un cadavere, balbettando:

– Contro un sacerdote?

Ringraziate la chierica di Cristo, che non siete degno d'avere in testa!...

E Corda-al-piede, abbassato il fucile, aveva tirato, per spavalderia, su le macchie di rovi del ciglione, avanti che 'Nzulu spiccasse un salto per tentar di disarmarlo.

 

***

 

Ahimè! I bei tempi delle grandi giornate di caccia erano ormai lontani; gli anni e, più, la podagra, avevan ridotto il canonico a camminare come un invalido, reggendosi su la canna d'India, allorchè s'avviava per andare a celebrare la messa, o a recitare l'ufizio. Le sue fermate da donna Totò, grassa e fresca a dispetto dell'età, erano diventate più lunghe pei malanni e per l'abitudine.

Il nuovo Vescovo, rigido quanto il predecessore, nell'occasione della visita diocesana, fece al canonico un'altra lavata di capo.

Scandalo! Dovrò levarle la messa?

– Che scandalo vuole che io dia, Monsignore mio? – avea risposto, l'altro con voce di rimpianto. – Non vede come sono ridotto?

E il vescovo s'era stretto nelle spalle brontolando, e lo aveva lasciato in pace.

Per ciò ogni mattina si vedeva il canonico Motta che, appoggiandosi alla canna d'India, trascinava per la salita le gambe indolenzite, fino alla porta di donna Totò. Ella lo attendeva al balcone sapendo l'ora, e accorreva per aiutarlo con una mano a montare i pochi scalini, levargli il mantello e prendere il nicchio per riporli sul letto, e porgergli la pipa già preparata sul tavolino con accanto la scatola di latta per i fiammiferi di legno.

Pareva che, senza quella pipata preventiva, il canonico non potesse dir messa, cantare al coro: pareva che, senza lo stimolo di quella tazza di buon caffè e il conforto dei crostini, non avesse potuto più avere la forza di arrivare a casa.

In verità, le sue visite erano oramai la cosa più innocente di questo mondo. Il canonico si divertiva coi merli e con le gazze che donna Totò ammaestrava per proprio svago e chiamava figliuoli.

Le due gazze intanto accorrevano a beccare familiarmente la punta delle scarpe del canonico, che si compiaceva d'incitarle. Vivaci, striminzite per le ali tagliate assai corte e il codione senza penne, esse gli s'arrampicavano su per le gambe, sporcandogli la zimarra, impertinenti, crocidanti, ciangottando parole con la lingua mozzata a posta per addestrarle a parlare.

Figlio! Figlio! – suggeriva donna Totò, contenta e superba delle sue bestioline. – Chi è? Chi è?

E le gazze ripetevano roche e stridule:

Figlio! Figlio! Chi è?

Il canonico, continuando a fumare, diceva alla signora:

Prendetemi la cassettina.

Si occupava e a casa, fabbricando chiòccoli per la caccia delle quaglie.

Ritagliava la pelle sul modello di cartone e ne cuciva gli orli combaciati attentamente: poi, foggiata con le dita una pallottolina di cera, la cacciava in fondo al sacchetto allestito; serviva per dare appoggio al chiòccolo sul polpastrello del pollice, quando dovevano suonarlo.

Indi, infilàtovi il legnetto, avvolgeva la pelle con uno spago tra i pani della vite, perchè prendesse le pieghe e servisse da mantice. E che ammattimento quei cannellini di osso, forati in mezzo, da adattare alla bocca del sacchetto con un tappo di cera, pel suono! E quei peduncoli di spago da appiccicar in calce al chiòccolo, per poter tenerlo fermo!... Lavoro di pazienza, che svagava molto il canonico. Gli rammentava i bei giorni d'estate tra i seminati della Piana, ai tempi che egli e 'Nzulu, davano la caccia alle quaglie con reti e fucile. Quacquarà! Quacquarà! E le quaglie accorrevano al richiamo, incappando fra le vaste reti stese sui seminati che si piegavano, cascando fulminate da colpi infallibili: Tum! Tum! Gli pareva di sentirseli ancora dentro gli orecchi: Tum! Tum!

A casa sua, se la sorella donna Agnese lo trovava a frugare pei cassettoni in cerca d'un mozzicone di candela di cera, o d'una matassa di refe, lo sgridava peggio d'un bambino:

Sconvolgete ogni cosa! Non vi bastano ancora cento e più chiòccoli?

Egli stava zitto, e intascava i mozziconi di candele se ne trovava.

Quando non ne trovava, ricorreva fin alle candele benedette della Candelora che donna Agnese teneva appese al capezzale e dovevano servire in punto di morte.

Scomunicato! E siete sacerdote! Anche le candele benedette!

Donna Agnese non se ne dava pace.

Per questo, a ogni accesso di podagra che inchiodava il canonico su la poltrona e lo faceva trambasciare, non lo compativa, indispettita

– È gastigo di Dio! Dovreste capirlo.

Faceva meraviglia come egli non perdesse la pazienza.

– A che siamo coi chiòccoli? – gli domandava 'Nzulu, che ora veniva più di rado.

Quattrocento

Dovreste darmene un paio; è la stagione delle quaglie.

Serviranno per me, quando sarò morto.

– Come mai, signor canonico?

– Gli ho destinati ai ragazzi poveri, per testamento; dovranno accompagnare la mia bara, suonandomi dietro: Quacquarà! Quacquarà!

E rideva. Con tal pretesto non regalava un chiòccolo neppure a 'Nzulu Strano.

– Non vi si riconosce più, signor canonico!

 

***

 

Non si riconosceva egli stesso, su quella poltrona maledetta, dove non trovava requie da un mese.

'Nzulu gli recava notizie di donna Totò.

Il vecchio merlo Canonico, morto di sfinimento; una delle gazze, la migliore, annegata in un catino d'acqua; donna Totò, poverina, l'avea pianta quasi come una figliuola! E non si sentiva bene neppur lei. Voleva il dottore...

Da a qualche giorno, le cattive notizie incalzarono: donna Totò stava assai male.

Il canonico dondolava la testa:

– Ah, se accade una disgrazia, 'Nzulu!...

Dove sarebbe andato per la sua fumatina prima della messa? E, dopo, pel caffè coi crostini e i biscotti?

Una mattina che si sentì in gambe, cominciò lentamente a vestirsi.

'Nzulu allora, atteggiando a compunzione il viso allampanato e giallastro, credette opportuno di dirgli:

Restate in casa, signor canonico... Fate la volontà di Dio!... Siamo tutti destinati a morire!

Due lacrime rigarono la faccia smunta del canonico; pure volle finire di vestirsi, e scese le scale reggendosi al braccio di 'Nzulu.

– Almeno celebrerò la santa messa in suffragio dell'anima sua!

Presero però un'altra via, per non passare davanti a quella porta dove donna Totò gli veniva incontro ad aiutarlo a salire i quattro scalini.

In sagrestia, rivolti gli occhi al gran crocifisso di carta pesta che sormontava gli scaffali:

Signor Iddio! – esclamò lamentosamente il canonico: – O che non vi bastavano Maria Maddalena... e le altre, in Paradiso?

E lasciò infilarsi il camice dal sagrestano.


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