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I pecorai che guidavano il gregge al pascolo e facevano ogni giorno la stessa strada, vedendolo ora qua ora là, in diversi punti del suo fondo, curvo, a scavare con grandi colpi di zappa, gli davano la voce:
– Eh! Mastro Neli! Avete trovato il tesoro?
Tutti sapevano che dal giorno che si era fitto in testa di prendere l'incantesimo della Grotta dalle Sette Porte, egli aveva abbandonato la sua bottega di pizzicagnolo, e stava ad arrostirsi la gobba al sole nel suo fondo del Monte, e a rompersi le braccia scavando per trovare il tesoro, incantato, secondo lui, dai Saraceni in quei dintorni.
Egli non rispondeva e continuava a dare colpi di zappa. Soltanto col vecchio pecoraio zi' 'Ntoni, uomo di esperienza e che la sapeva lunga, mastro Neli non evitava di attaccare discorso.
– Non vi è mai capitato d'incontrarlo?
– Chi? Il Mercante dal berrettino rosso? Neppure da lontano, mastro Neli. Dicono che la sola vista fa morir di paura. Deve farsi temere il Mercante perchè non gli rubino il tesoro....
– Io, caro zi' 'Ntoni, mi sento un coraggio da leone. Avrebbe voglia di urlare, di fare versacci. Se mi capitasse tra le mani! Ci vuole un uomo di fegato in queste circostanze: afferrarlo pel braccio ed entrare insieme con lui per le Sette Porte...
– Sono proprio sette?
– Sette; fino all'ultima grotta, in fondo dove il tesoro aspetta da secoli la fortunata persona che deve impossessarsene.
– Ricordatevi di me, mastro Neli, se mai!
– Non ridete. Qualcuno, infine, deve vincere l'incantesimo. Non posso esser io?
– Magari!
Mastro Neli ne ragionava quasi lo avesse visto proprio con que' suoi occhietti orlati di rosso e lo avesse palpato con quelle mani callose che ora maneggiavano la zappa giorno e notte, scavando sepolcreti antichi.
Di giorno, egli scavava nel suo fondicello che pareva una Gerusalemme distrutta, tutto buche spalancate e mucchi di terra torno torno; di notte, nei fondi dei vicini, al lume di luna o a quello di una lanternina quand'era buio, perchè i vicini non volevano rovinato il terreno, e si burlavano delle sue trovature di vasetti inservibili e di monete antiche, con cui non si poteva comprare neppure un soldo di pane.
Mastro Neli rideva, sotto il naso, di quei tangheri di contadini che non capivano niente. Lui sapeva, per prova, che quei vasetti – specie se con le figurine – e quelle monete ossidate diventavano sùbito quattrini sonanti, appena li portava al barone Padullo, che si metteva gli occhiali per osservarli e sfogliava certi libroni grossi quanto un messale, tutti pieni di figure, per fare i riscontri. Così s'era persuaso che il mestiere di salumaio valeva assai meno di quest'altro di scavatore di cose antiche; e faceva il sornione e alzava la gobba allorchè i contadini gli dicevano:
– Dovreste scavare le fosse per le fave, invece di rompervi le braccia a disotterrare ossa di morti!
E rideva loro in faccia, canzonando in cuor suo chi gli ripeteva la solita burletta:
– Sapete dove c'è una trovatura, mastro Neli?
– Dove?
– Nella vostra gobba.
– La trovatura tu l'hai in testa, e te l'ha messa tua moglie! – rispose una volta stizzito.
E quasi venne alle mani con Taccareddu che, cornuto pacifico, non voleva intanto sentirselo dire.
Mastro Neli però non la perdonava a quell'asino calzato e vestito di don Ottavio Giglio, proprietario della Grotta dalle Sette Porte, il quale non permetteva che nessuno andasse là a smuovere un sasso. Don Ottavio credeva anche lui che in quella grotta ci fosse il tesoro incantato dai Saraceni e che il Mercante dal berrettino rosso vi facesse la guardia; ma era convinto che per rompere l'incantesimo occorrevano i libri di Rutilio. E se mastro Neli lo tastava su questo soggetto, dalla lontana, sapendolo iroso e ombroso di tutto, gli rispondeva secco secco:
– Minchionerie!
– Ma persone con tanto di barba – insisteva mastro Neli – il decano Vita, Padre Mariano d'Itria, il dottor Puglisi mi assicurano che la cosa è possibile.
– Ve la dànno a bere. E poi ci vuole il Rutilio!
Questo: E poi ci vuole il Rutilio! don Ottavio lo diceva così solennemente che tagliava corto a ogni discorso.
Per due paginette di Rutilio, di quello autentico – correva attorno il falsificato e non valeva uno spicchio d'aglio! – mastro Neli avrebbe dato tutta la sua pizzicheria e l'asino e le due vacche e chi sa che altro ancora. Ma chi possedeva quel libro se lo teneva caro e non voleva nemmeno farlo sapere, perchè correva voce ci fosse la pena della vita e la scomunica della Santa Chiesa! Mastro Neli si sarebbe infischiato della scomunica, quantunque fosse timorato di Dio e sentisse messa le domeniche e le feste comandate, e si comunicasse a Pasqua come ogni fedel cristiano.
Impadronitosi del tesoro, sarebbe andato sùbito a Roma, a confessarsi dal Papa, per ottenere l'assoluzione, e finirla con le chiacchiere. Ma l'oro e le pietre preziose sarebbero rimaste a lui; e allora avrebbe fatto il signore. Per lui e i suoi figliuoli si sarebbe fabbricato un palazzone, avrebbe comprato dei feudi, e non avrebbe più mangiato pane e cipolla, come gli toccava ora che doveva abbrustolirsi al sole, e bagnarsi alla pioggia, rompendosi la schiena a scavar sepolcreti, spesso non trovando altro che stinchi e crani, o lagrimatorii da nulla.
Anche al tempo dei Saraceni – e per mastro Neli voleva dire al principio dei secoli – la società era stata allo stesso modo: molti poveri e pochi ricchi; si vedeva dalle tombe. Allora però fino i miserabili avevano una moneta da farsi mettere in bocca per pagare il pedaggio nell'altro mondo; mentre oggi con le tasse, che si mangiano viva viva la gente, nessuno ha più un soldo da portar via nella sepoltura.
E così ragionando da sè da sè, dava colpi di zappa sodi ma cauti, per non rovinare gli oggetti, caso mai sottoterra ce ne fossero. E quando gli accadeva di tornare con le mani vuote alla grotta antica e scavata nel vivo masso, della quale, murandovi un uscio, s'era fatto una casa di campagna comoda e sicura, malediva la propria sorte e quel porco di don Ottavio che non gli permetteva di scavare nella Grotta dalle Sette Porte! Costui lo aveva fin minacciato di tirargli addosso una schioppettata, se l'avesse incontrato di giorno, dalle sue parti; ed era capace di farlo.
Invece, quando gli scavi davano buoni risultati, e venivano fuori al sole qualche bel vaso, belle monete d'argento o d'oro che parevano uscite allora allora dal conio, o qualche braccialetto di bronzo, mastro Neli non capiva nella pelle. Si fregava le mani indolenzite, accarezzava delicatamente quegli oggetti, li ripuliva, li lustrava con la manica della camicia, quasi gli si dovessero guastar fra le dita toccandoli sgarbatamente. E ammirandoli da tutti i lati, interpretava le figure a modo suo, ora che ci aveva un po' di pratica, e calcolava il valore e il prezzo meglio d'un dotto
– Questa volta il barone Padullo deve snocciolarne parecchi dei suoi scudi colonnati!
E, nella grotta affumicata, la minestra di farina di cicerca o le fave lessate gli sapevano più saporite; e il vino se lo sentiva scender giù giù per la gola, dal fiasco di terra cotta, come balsamo ristoratore.
***
Quelle però erano tutte cosine da nulla; se non gli riusciva di prendere la trovatura del Mercante, aveva fatto un buco nell'acqua. Intanto ci voleva il Rutilio, come diceva don Ottavio. Dove pescarlo?
– Il Rutilio è qui – venne a dirgli un giorno don Tino il mussolinaio, andato a trovarlo a posta lassù, col pretesto di ammazzare un coniglio in quelle fratte, per non dar nell'occhio ai vicini.
E cavò fuori uno scartafaccio squadernato, unto e bisunto.
– Quello vero?
– Quello vero. Guardate; è stravecchio.
Infatti, si vedeva. Caratteracci grossi; cartaccia ingiallita, e figure di pianeti, circoli, triangoli ghirigori seguiti da sfilate di numeri da far perdere il cervello. Lui, don Tino, aveva stentato due mesi per raccapezzarvi qualcosa
– Perchè, capite, bisogna trovare la chiave.
– E l'avete trovata?
– Mi par di sì. Proveremo, con la sonnambula di don Micio il crivellatore, che vede fino a trenta metri sotto terra, come io vedo qui voi e quest'alberi e questi sassi e quei fichi d'India... Ma, zitto!
– Venite a prender un boccone.
Mastro Neli lo condusse nella grotta per essere al sicuro da sguardi traditori. E, mangiato e bevuto tornarono a scartabellare quel libro miracoloso; tanto più sorpresi e più ammirati, quanto meno avevano capito della profonda scienza colà nascosta. Presi gli accordi per condurre lassù don Micio il crivellatore e la sonnambula, don Tino disse:
– Dev'essere di venerdì, a mezzanotte. Avete paura?
– Di chi? Del Mercante. Mi conoscete male, don Tino!
E glielo provò la notte di quel venerdì. Notte tempestosa: lampi, tuoni, vento, pioggia, grandine! Pareva si fossero scatenati tutti i diavoli della Làmia e del Lago della Vuria dove è il Prete che balla con la Nipote, portati via dai diavoli ai tempi dei tempi; infatti l'acqua di quel lago, con sotto il gran fornello dell'inferno, bolle e ribolle.
Il vento aveva già smorzata la lanterna; la sonnambula tremava a verga a verga, e non voleva guardare sottoterra, come don Micio gli ordinava tenendo le braccia tese e strabuzzando gli occhi che gli luccicavano nel buio a ogni scoppio di saetta.
– Coraggio! coraggio! – ripeteva mastro Neli.
La voce però gli tremava e le braccia gli si spezzavano nel dare, insieme con don Tino, i colpi di zappa nel posto indicato dalla sonnambula, prima che la lanterna si spegnesse, appena don Tino aveva compitato lo scongiuro del Rutilio.
E il vento soffiava, urlando tra gli ulivi e le roccie attorno: e la pioggia veniva giù a catinelle; e i lampi incendiavano la vallata e le coste del Monte; pareva il finimondo. Ma dopo tre ore di fatiche e di stenti, avevano dovuto smettere; ed erano tornati alla grotta più morti che vivi, inzuppati fino al midollo delle ossa, col Rutilio mezzo rovinato; il peggio guaio, perchè di quei libri non se ne trova più, nemmeno a pagarli a peso d'oro.
– Siamo stati tante carogne! – disse mastro Neli il giorno dopo, mordendosi le mani nell'osservare la gran buca scavata quella notte è già ripiena d'acqua e di fango – Siamo stati tante carogne... o il vostro Rutilio è falso.
Don Tino cominciò a sacramentare.
– Corpo!... Sangue!... Falso questo Rutilio?... La colpa è nostra; non abbiamo saputo trovare la chiave.
***
E non la seppero trovare nè allora, nè poi. Don Ottavio Giglio però, quantunque non avesse testimoni del fatto, sporse querela contro quel gobbaccio che gli aveva rovinato il fondo. E ora stava, giorno e notte, in guardia lassù, tra i fichi d'India, per fargli fare una fiammata con lo schioppo a due canne, a quel gobbaccio!
Aveva una gran paura che non gli rubassero davvero l'incantesimo della Grotta dalle Sette Porte, dopo aver saputo da don Tino che il Rutilio, quello proprio autentico, era nelle loro mani. Forse mancava la chiave. Don Tito gli aveva mostrato il libro con una pagina strappata.
– Giusto quella della chiave, sacro Dio!... Ma può darsi che c'inganniamo.
Dal canto suo, mastro Neli stava in guardia contro don Tino, don Micio il crivellatore e la sonnambula. Gli era entrato il sospetto che volessero operare soli, da quella domenica in cui aveva visto colui in stretti ragionamenti con don Ottavio sotto il portone di casa di questi. Don Tino gesticolava, si strappava i capelli, e l'altro approvava, serio serio.
– Perchè smisero di parlare, appena mi accostai?
Ma egli non era uomo da lasciarsi canzonare da quei due.
Si lasciò canzonare però da Zangàra, Perillo e Passolone, tre burloni che, avuta notizia degli scongiuri fatti da mastro Neli con gli altri, volevano divertirsi.
Mastro Neli se li vide arrivare lassù, una mattina: Zangarà col trombone, Perillo col clarinetto e Passolone col corno di caccia; e assordavano le gole di Rosignolo, dell'Arcura e di Santa Margherita Trù! Trù! Titiri! trù.
– Ehi! Fate la mattinata alle mulacchie?
– Andiamo per una scorpacciata di fave novelle, da un amico qui vicino – rispose Perillo.
– Buon pro'!
– E voi, la trovatura quando la prendete? – gli domandò Zangàra, ridendo.
– La prenderà don Tino – aggiunse Passolone – ora che possiede il Rutilio.
Mastro Neli alzò la gobba, tentennando il capo, mostrando indifferenza:
– La vera trovatura sono i quattrini in tasca.
Passolone raccontò di aver inteso dallo stesso don Tino che egli l'avrebbe presa certamente l'ultimo venerdì di marzo, a mezzanotte, perchè quella notte aveva luogo lassù, presso la Grotta dalle Sette Porte, la fiera delle Fate e degli Spiriti che accade ogni dieci anni. Fortunato chi ci si trova!
– Non lo sapete che il pecoraio di massaio Ravagna, anni fa, ci capitò in mezzo per caso, e le Fate gli vendettero tre arance per un soldo? Il grullo le diede al padrone, senza sapere che fossero di oro massiccio; così è arricchito massaio Ravagna.
Mastro Neli lo guardava in viso con tanto di occhi, pensando allo scellerato di don Tino che voleva fargli quel tradimento; e si tenne la notizia in corpo, fingendo di non averne saputo niente, fino all'ultimo venerdì di marzo, che era il Venerdì Santo.
Quel giorno, egli non vedeva l'ora che annottasse; e seduto su di un sasso davanti a la grotta, non senza un po' di terrore in corpo – con gli Spiriti non si canzona! – guardava quel fioco chiarore di luna tra le nuvole dense, dietro i colli di Daguara, che illuminava la campagna silenziosa; non s'udiva neppure il rosignolo che soleva cantare ogni notte laggiù, tra i pioppi dell'Arcura. Poi egli era andato ad appostarsi su d'un masso per sentire il rumore dei passi di coloro che dovevano arrivare: don Tino, don Micio e la sonnambula. Non stormiva foglia nell'oscurità, e non si scorgeva ombra umana a quel po' di barlume del cielo nuvoloso. I tronchi degli alberi gli mettevano paura; e i macigni e le macchie già gli parevano strane figure di mostri. Verso la mezzanotte fu buio pesto, appena la luna venne intieramente velata dalle nuvole.
Ed ecco, qua e là, tra le macchie, lumicini che vanno e vengono, e si spengono e si riaccendono; ed ecco colpi di cembalo coi sonaglini che si agitano, e tacciono, e si rispondono; ed ecco grandi fiammate che spariscono sùbito.
– Ah, Madonna santissima! E proprio vero questa volta!
E i lumicini erravano qua e là tra le macchie, dietro i fichi d'India, tra i melogranati di massaio Baccannello e il pagliaio di Cudduzzu; e le fiammate scoppiavano dietro i massi, tra gli ulivi, al suono dei sonaglini del cembalo agitati continuamente...
– Ah, madonna santissima! È proprio vero questa volta!
I lumicini si accostavano da tutte le parti, stringendolo in un cerchio, e le fiammate pure; e mastro Neli si sentì diventare piccino piccino quando scorse, al chiarore d'una fiammata, una figura mostruosa che gli parve di fuoco e sparì.
Poi, da destra, da sinistra: Psì, psì, psì! Gli Spiriti gli accennavano: Psì, psì, psì!
– Ah, Madonna santissima! Perchè, tremo? Mi lascerò scappar di mano la fortuna?
E mosse incontro agli Spiriti, che continuavano a fargli; Psì, psì, psì! Tratteneva il fiato, vacillando, inciampando, senza una goccia di sangue nelle vene, fino a che gli Spiriti non gli saltarono addosso, picchiandogli forte sulla gobba.
– Mamma mia!... Santissimo Cristo alla colonna! Santa Agrippina protettrice! – egli urlava, segnandosi per cacciarli via, correndo a rotta di collo verso la grotta, inseguito fino alla porta dagli Spiriti, che gli picchiavano su la gobba, facendo scrosciare catene infernali!...
E non ritentò più, quantunque don Tino e don Micio il crivellatore lo stuzzicassero; neppure quando si convinse che la burletta degli Spiriti gli era stata fatta da Zangàra, Perillo e Passolone. A chi gliene parlava, giurava che non era vero; giurava che quella nottata egli si trovava a Palagonia per la festa del Santo Sepolcro; e rigiurava con le mani in croce, per non far ridere alle proprie spalle. Intanto si divorava il fegato, e scavava, scavava, dopo trovate certe belle figurine che il barone Padullo gli aveva pagato dieci scudi. Chi sa quanto valevano, se colui si era spinto fino a pagarle dieci scudi!
Allora il barone lo vide arrivare più spesso, insieme con un vecchietto che mastro Neli diceva compagno di scavi. Visto però che essi portavano sempre figurine simili alle prime, tutte sporche di terra, un giorno il barone disse a mastro Neli:
– Trovate qualcosa altro, o risparmiatevi di venire. Di queste, guardate, ne ho già pieno un armadio.
E gli additava le statuette schierate in fila dietro i vetri dell'armadio, tra vasi greci, lucerne, bronzi e monete antiche d'ogni grandezza....
Mastro Neli stette un bel pezzo senza farsi vedere. Quando gli si ripresentò, insieme col solito vecchietto, posata delicatamente per terra la cesta coperta di fieno portata sotto il braccio, cominciò a gesticolare, annunziando a quel modo i maravigliosi oggetti riposti nella cesta e coperti di fieno:
– Signor barone, gran novità! Voscenza resterà incantato!
Il barone si era messo gli occhiali per ammirare meglio; e vedendo quelle quattro figurine di Cerere simili in tutto alle altre ma con tanto di pipa in bocca, invece di restare incantato cominciò a urlare
– Ah, mastro Neli ladro! Ah, mastro ladro!
E avrebbe, con una pistolettata, sfracellato il cranio a quei due, se non fossero saltati dalla finestra a pian terreno, senza neppur badare che potevano rompersi il collo.
Mastro Neli si ruppe soltanto un braccio; e fece dire una messa al suo santo protettore che lo aveva aiutato in quella circostanza. E col braccio legato al collo, imprecava al tristo compagno da cui gli era stata suggerita la bella novità della pipa!
– Non bastava aver fatto così bene la forma dell'idoletto che aveva ingannato il barone Padullo?
D'allora in poi, mastro Neli si contentò soltanto di scavare e scavare. E se don Tino e don Micio gli riparlavano del Rutilio, rispondeva:
Pure non disperava di poter avere in mano, un giorno o l'altro, l'autentico, quello del 500, come gli aveva detto il decano Vita.
L'anno dopo, mentre padre Mariano d'Itria, confortandolo in punto di morte, gli raccomandava di chiedere a Dio la grazia dell'anima:
– La vera grazia sarebbe stata un buon Rutilio! – esclamò mastro Neli con voce mezza spenta.
Pareva che attendesse una risposta, che padre Mariano gli dicesse:
– Il Rutilio del cinquecento è qui!
Stette a guardarlo un momento; poi gli voltò la gobba, sdegnosamente, gorgogliando parole che gli morirono in gola.