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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Lusinga dell'immaginazione o realtà (che gliene importava?), quell'atto da credula femminuccia era servito intanto a liberarlo dall'indefinibile invasamento che lo aveva tormentato parecchie settimane. La mattina dopo, alla vista dei frantumi del bel vasetto arabo, pietosamente raccolti da Eugenia, Patrizio, sì, aveva sentito per un istante avvamparsi la faccia da una fiamma di rossore; e l'esclamazione: «Peccato!» sfuggita a Eugenia nel punto che i bricioli del vasetto schizzarono qua e là sfavillando, gli si era ripercossa nell'orecchio come un rimprovero. Lusinga dell'immaginazione o realtà (che gliene importava?), ora però poteva tranquillamente assaporare la sua vita nuova, come egli si compiaceva di chiamarla.
Da qualche tempo, il triste passato gli tornava più spesso alla memoria, quasi per fargli apprezzar meglio la serenità presente; talvolta indistinto, lontano; talvolta così vicino, così nitido, così particolareggiato, che uomini, cose, fatti, paesaggi parevano sorgergli improvvisamente dinanzi agli occhi e domandargli: Ricordi?... Ricordi?...
Oh, se ricordava!
Una notte, la balia era entrata nella cameretta di lui, e svegliàtolo, vestìtolo in fretta in fretta, così mezzo addormentato, avvoltolàtolo in uno scialle, se lo era tolto in collo, muta, con gli occhi rossi dal pianto. Egli s'era messo a piangere, gridando:
«Zitto, poverino! Si va dalla mamma!» gli avea risposto la balia.
E si era chetato, anche per paura. Faceva buio; attraversavano vie deserte, e poi campagne alberate, dopo che un contadino lo aveva preso con sé a cavallo di una mula:
E le strane forme delle piante e dei colli attorno intraviste sul cielo; e le viottole sprofondate fra scoscendimenti di terreno; e la nera figura della balia che seguiva a piedi la cavalcatura, asciugandosi gli occhi di tratto in tratto con un fazzoletto bianco, gli eran rimasti talmente impressi, che li rivedeva, dopo più di vent'anni, proprio come se li avesse visti il giorno avanti.
Poi avevano costeggiato un precipizio. Al barlume dell'alba, si scorgeva in fondo, tra gli ulivi, una casa con le finestre aperte e illuminate. Ombre umane passavano e ripassavano nel chiarore. Da quel lato, con prolungamento di voce, era stata gridata qualche domanda. L'uomo che lo teneva tra le braccia, su la mula, aveva risposto:
E di là:
La voce si era spenta per la vallata. Egli si stringeva a quell'uomo, spalancando gli occhi, sporgendo la testa per vedere a traverso le fronde degli alberi le finestre illuminate della casa che già gli pareva di riconoscere.
A questo punto, come se nella sua memoria fosse avvenuto uno strappo, egli non riusciva a ricordare altro che la figura di suo padre, smorta smorta, con la testa abbandonata sui guanciali, gli occhi semiaperti, senza sguardo, e un filo di sangue raggrumato in un angolo della bocca... E, subito dopo, baci della mamma che gli singhiozzava in volto:
«Figliuolino mio! Orfanello mio!...»
Oh, se ricordava! Se ricordava!
Sua madre vestita di nero. Per la casa silenziosa, un via vai di gente cattiva; lo capiva dalle lagrime di lei. E un rapido sparire di mobili, di stoffe, di quadri, ai quali si era affezionato senza sapere perché, forse perché li vedeva tutti i giorni. Persone ignote venivano e li portavano via.
«Non sono più nostri, mamma?»
«No!»
Per non farla scoppiare in pianto, com'era accaduto due volte all'ingenua domanda, egli avea continuato ad assistere in silenzio, con sguardo crucciato, alla desolazione di quello spoglio.
Portavano via specchi, tavolini, seggiole, libri!
Perché?
Avrebbe voluto saperlo. E non staccava gli occhi dai carri sopra i quali i facchini li ammonticchiavano nell'atrio, legandoli con funi, quasi tavolini, seggiole, poltrone, specchi avessero potuto scapparsene e tornare su, al posto dove erano stati tant'anni.
Appena i carri si avviavano lentamente e rumoreggiando sparivano sotto l'arco dell'atrio, egli correva al balcone che dava su la via, per vederli ancora fino alla svolta della cantonata. E, torvo, aggrappato alle sbarre della ringhiera, guardava, guardava, confusamente sentendo che qualche briciolo del suo cuoricino andava via assieme con tutti quegli oggetti. «Non sono più nostri!» Il salone, però, le camere, la cucina, la terrazza?... Non potevano portarle via, oh, no!... Eppure non avrebbe voluto aggirarvisi più, dal giorno che gli stanzoni vuoti cominciarono a impaurirlo, con gli echi che risuonavano da le volte quasi gli facessero il verso. Pur troppo quelle cattive persone, dal viso duro e dalle maniere scortesi, che venivano ogni giorno a tormentare la sua povera mamma, pur troppo alla fine si presero pure la camera della mamma, la cameretta di lui, la cucina, la terrazza e il gran salone dov'erano prima le stoffe rosse alle pareti, listate dall'alto al basso da comici a cartocci di legno dorato, sua viva ammirazione! Pur troppo, una sera a ora tarda, la mamma, pallidissima e con le mani ghiacce che le tremavano, lo aveva quasi trascinato fuori, lasciando gli uomini a raccattare gli ultimi pochi arnesi rimasti!
Ah, quelle tre stanzine misere misere, senza terrazzini, coi vetri delle finestre mezzi rotti, dove essi erano andati a rannicchiarsi!
Vi si era sentito rattrappire.
Se ricordava!...
Anzi ora egli afferrava al balzo ogni più piccola occasione di ritornare addietro con la memoria; e s'indugiava nei ricordi, sfoggiando altera compiacenza, quasi per dire al suo passato: «Vedi? Alla fine ti ho vinto!».
Così (ed erano già trascorsi due mesi dal loro arrivo) una mattina, dopo colazione, si era abbandonato a raccontare l'unico episodio della sua fanciullezza.
«Vieni, vieni!»
Eugenia lo aveva trascinato carezzevolmente per un braccio, lungo il corridoio dove il Padreterno faceva sollevare, spazzando, un nugolo di polvere dai mattoni.
«Padreterno, un po' di pioggia» disse Patrizio, celiando. «Non siete Padreterno per nulla!»
«Se fossi Padreterno davvero, farei piovere vino schietto.»
E il borbottìo della risposta, un po' mangiato dallo spazio, un po' dal fruscio della granata nuova, era appena arrivato fino a loro.
Un istante il Padreterno li aveva sentiti ridere in cima alla scala che conduceva alla selva.
Presi per mano, sotto il pergolato, poco dopo non ridevano più. Al ronzio delle api attorno le macchie di spigo e di rosmarino, al cinguettio dei passeri e dei cardellini tra i cipressi e gli aranci, al mormorio dello zampillo della fontana, una parola di Eugenia era bastata per evocare il più caro dei ricordi ch'egli teneva chiusi in fondo al cuore.
Oh, là si sentivano segregati dal mondo, tra l'alta muraglia che cingeva la selva, e la facciata interna del convento nascosta da gli alberi, col campanile torreggiante in alto, sgretolato, sormontato da una banderuola di ottone, che strideva mossa dal vento. Qual luogo più opportuno per una confidenza di quel genere?
Non ne aveva mai parlato con nessuno; era proprio un'esumazione. Gli sarebbe parso di profanare quel ricordo ragionandone con altri.
«Di' dunque...»
«Allora ero magro, pallido, di quel pallore dei bimbi malaticci che paiono vecchini. Tutto il mio svago, nella misera casetta dove la mamma nascondeva i dolori, le privazioni, le umiliazioni della vedovanza, consisteva ordinariamente nell'uscire sul pianerottolo e passarvi le ore pomeridiane baloccandomi, solo solo, con pezzetti di legno, trucioli, frammenti di carta colorata, sassolini.
«Un pigionale dell'ultimo piano, che scendeva tutti i giorni a ora fissa, mi accarezzava la testa passando; e la tacita tenerezza di quel vecchio mi faceva piacere. Curvo, bianco di capelli, con gran barba gialliccia che gli scendeva fino a metà del petto e sotto braccio un ombrellone rosso, quel vecchietto un giorno mi aveva fatto un cenno strano. Lo compresi poco dopo, quando vidi comparire una bambina che, dubbiosa, esitante, si fermò a metà degli scalini, guardandomi con curiosità.
««È vero che vuoi giuocare con me? Me l'ha detto don Antonio.»
«La guardai stupito. Non l'avevo veduta mai. Don Antonio doveva essere quel vecchietto.
«E senza aspettare la risposta, venne su. Mi parve della mia età, tra gli otto e i nove anni. Bruna, gracile, con indosso una vestina di mussola azzurra un po' stinta e i neri capelli sciolti per le spalle, teneva stretta al seno una bambola sciupatina in viso e a cui mancavano le braccia dentro le maniche. Addossata al vano della finestra, stette a osservare in silenzio i miei ninnoli, dandomi occhiate interrogative quando alzavo la testa.
««Tieni, gioca con la bambola. Giochiamo assieme.»
«La mamma, affacciatasi all'uscio, la guardò con aria sospettosa, la interrogò e si fermò più a lungo, probabilmente per accertarsi che non fosse una cattiva compagna. Ella continuò a giocherellare co' miei legnetti, mentre io tenevo tra le mani la bambola, senza sapere che cosa farmene. Appena la mamma rientrò, la bambina, accarezzandomi il viso e sorridendo, mi disse:
««Non sai fare il chiasso dunque?»
«E cominciò a insegnarmi.»
La voce di Patrizio era un po' turbata. Il suo sguardo pareva ricercasse, lontano, nel pianerottolo di quella meschina casetta, la bruna e gracile figurina dai capelli neri, sciolti dietro le spalle, che gli aveva preso il volto tra le mani con affettuosa compiacenza da sorellina maggiore. Ed Eugenia, che ascoltava intentissima, si mordeva lievemente le labbra sentendosi già invadere da vago senso di rancore contro quella creaturina che doveva aver lasciato nel cuore di Patrizio orme profonde, se questi rammentava così bene tanti minuti particolari d'un avvenimento d'infanzia.
Egli continuò.
«Il vecchio, che scendeva curvo e lento con l'ombrellone rosso sotto braccio, ci trovava ora sempre assieme; e scotendo la gran barba gialliccia, stendeva la mano scarna all'una e all'altra delle nostre testine, evidentemente compiaciuto dell'opera sua. Gli badavamo appena. Stufi di ripetere i soliti giochi, ci prendevamo per mano, o ci passavamo le braccia attorno al collo; ed era il momento delle confidenze. Lei mi parlava del suo babbo, della sua mamma, di tante cosettine di casa sua; o stavamo abbracciati a lungo, muti sovente. Un giorno ella non comparve. Ne sentii sgomento, quasi mi si fosse fatto buio improvviso nel cuore. Non comparve nemmeno il giorno appresso. Il vecchietto passò, curvo, col solito ombrellone rosso sotto braccio; né mostrò di aver notato che l'altra non c'era. «E se non fosse più mai venuta?» Non rimpiangevo i giochi che non potevo fare assieme con lei; rimpiangevo lei, rimpiangevo le sue manine tra le mie, le sue braccia attorno al mio collo, il suo sorriso, il suono della sua voce, qualcosa che non capivo bene che cosa fosse e di cui soltanto molti anni dopo mi resi ragione. Sai quando?»
Eugenia, accigliandosi, accennò di no.
«Quando attendevo che tu venissi a sederti al terrazzino di casa tua, dietro la ringhiera di ferro ricurvo, tra le graste in fiore, nelle prime settimane che ti conobbi. Tu non t'eri ancora avvista che io stavo a guardarti dietro la tenda della mia finestra e che già ti amavo. La stessa smania, la stessa angosciosa aspettativa! Finalmente ella ricomparve. Era stata malata di febbre. Ci baciammo, e restammo un gran pezzo abbracciati. Sentivo affollarmisi alle labbra tante e tante cose da dirle; e non riuscivo a dir niente. La mamma, trovatici così, domandò brusca:
««Che cosa fate?»
«Ci sciogliemmo dall'abbraccio, quasi vergognosi di esserci lasciati sorprendere in un atto che avremmo dovuto fare di nascosto; e per scusa, risposi:
««È stata malata.»
«Il vecchietto da allora in poi, invece che su gli scalini del pianerottolo, ci trovava seduti a metà della scala del piano superiore. Ci nascondevamo, per baciarci e abbracciarci senza che la mamma potesse coglierci all'improvviso e domandarci: «Che cosa fate?». Io mi sentivo scotere tutto, quando Giulietta mi abbracciava. Si chiamava Giulietta. Ella, meravigliata, mi domandava:
««Che hai? Perché tremi? Senti freddo?»
«E mi abbracciava più forte.
«Era tranquilla, con grande soavità di sguardo e di sorriso, con fare benevolo di protezione. Un giorno tutt'a un tratto, mi domandò:
««Mi vuoi bene? Io ti voglio bene.»
««Sì, ti voglio bene.»
«E levàtasi in piedi, di faccia a me, tenendo incrociate le manine dietro la schiena, seria seria, soggiunse:
««Quando saremo grandi, ci prenderemo per marito e moglie, come il babbo e la mamma. È vero?»
««Sì sì!»
««Ora la bambola è nostra figlia.»
«Son vissuto molti anni col cuore invasato da Giulietta, dal ricordo, dalla visione di lei, quasi ella fosse venuta crescendo di mano in mano ch'ero cresciuto io; quasi le parole: «Quando saremo grandi...» fossero state giuramento, indissolubile legame.»
«La rimpiangi forse?» lo interruppe Eugenia impallidita.
«Cattiva!... Cose da bambini!»
«Sei così commosso!»
La selva era piena di sole. Le api ronzavano più numerose per le macchie di timo e di spigo. Patrizio si era fermato a osservare una lucertolina, che, affacciàtasi alla estrema punta del banco di pietra dove sedevano, spingeva la testina verdognola, quasi fosse stata ad ascoltare e volesse sentire la fine del racconto.
«Una mattina» egli riprese «appena uscito sul pianerottolo, ecco un urlo, poi stridi e pianti e tutto il casamento sossopra! La mamma, che era venuta ad accompagnarmi fino all'uscio, mi afferrò per un braccio, e mi spinse subito dentro. Poco dopo, picchiarono. Una casigliana chiedeva urgentemente non so che cosa. Il nome di Giulietta, misto alle frasi interrotte e confuse che le uscivano di bocca, mi gelò il sangue. Appena quella donna andò via, la mamma mi si accostò, severa:
««Hai sentito?... Quando si è scapati!... È precipitata giù dalla finestra... È moribonda!».
«Rimasi di sasso. Che nottata! La mamma mi avea messo a letto di buon'ora. Avevo paura, con l'urlo e le grida e il tumulto della mattina negli orecchi. Terribile cosa precipitare da una finestra! Essere moribonda! Di questo però non sapevo formarmi un'idea precisa. Il cuore mi batteva violentemente nel petto. Dove s'era fatta male? Alla testa? Alle braccia? Alle gambe?
«E nel silenzio della notte tendevo l'orecchio, per udire qualche rumore nel piano sottostante... Non si udiva niente. La mattina dopo, la mamma non voleva neppure permettermi di uscire sul pianerottolo.
««Non mi moverò di qua!» supplicai.
«Avevo però in testa il mio disegno: scendere in fretta le scale, andare da Giulietta e subito subito risalire, avanti che la mamma se ne accorgesse. La gente entrava ed usciva muta, commossa. Mi feci animo; entrai anch'io. Giulietta, stesa sul letto, allungata, bianca, con le manine incrociate sul seno, pareva dormisse. Nessuno badava a me. Mi accostai, le toccai un braccio. Era rigido, inerte. Mi rincanttucciai a piè del letto, sbalordito, dubbioso se fosse morta davvero o pure assopita. Una donna la tolse in braccio baciandola e la portò verso la cassa. Ficcatomi tra le persone che stavano là attorno, ve la vidi riporre. Le aggiustavano la testina, i capelli, le manine. Ma non appena il becchino, abbassato il coperchio, girò la chiave della serratura, scoppiai in urli, in pianto:
«Diventato furioso, strappavo i vestiti delle persone, davo calci e pugni, volevo mordere tutti:
«E caddi in convulsione.»
«Basta, non ti commuovere troppo!» disse Eugenia con durezza gelosa nella voce, levandosi da sedere.
«No, io sono Eugenia» ella rispose, ritirando la mano vivamente.
Patrizio stava per slanciarsi ed abbracciarla, ma l'arrestò l'apparizione della signora Geltrude, che veniva avanti senza far rumore pel viale, simile a un fantasma, con la ruga della fronte più severa che mai.
E prese il braccio di suo figlio, senza neppur guardare la nuora. Pareva volesse portarglielo via.
Eugenia li seguiva, canticchiando per dissimulare il dispetto.