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«Non vi turbate senza ragione» disse il dottor Mola. «Qui possiamo parlare liberamente. Che bellezza questa terrazza! Io ci venivo spesso al tempo dei frati. Persone dottissime, teologi, filosofi. E che bei ragionamenti! Dicano quel che vogliono, i frati che ho conosciuto qui non erano fannulloni certamente. Io facevo la parte del diavolo, per aizzarli a parlare. Che serate!... Avevano anch'essi i loro difetti, pur troppo; qualcuno anche era indegno di portare l'abito che indossava... Dovevano mandar via questi soltanto. Gli altri, no. Ma, chi lo sa? forse Dio ha voluto dar loro, per mezzo del Governo, una severa lezione. Senza la volontà di Dio non casca foglia d'albero... Se siamo cristiani, dobbiamo pensare così. Divago. Scusate. Di che si tratta?»
«Di qualche terribile malattia, caro dottore!»
«Chi ve l'ha detto?»
«Nessuno; ma il fenomeno è così nuovo, così assurdo, che io temerei di non essere creduto se non potessi dirle: osservi!»
«Nuovo, assurdo per voi, non per la scienza, m'immagino.»
«Dopo quell'accesso nervoso che lei sa, dalla pelle di tutto il corpo d'Eugenia, specialmente dalle punte delle dita, si spande un profumo di zagara, che si attacca alla biancheria, alle vesti, e invade fin la camera durante la notte.»
«Ah!... Capisco.»
«Capisce?»
«Fenomeno raro. Son contento di poter osservarlo; non mi era mai capitato. Dalle punte delle dita specialmente? Proprio così.»
«Che cosa significa?»
«Senza dubbio, una condizione eccezionale dell'organismo, indizio di grande delicatezza dell'apparecchio nervoso. Ma allora, scusate, l'accesso di giorni fa non dev'essere stato il primo.»
«Interrogheremo la signora.»
«Dopo; ora rassicuri me. Sono atterrito. È sintomo grave?»
«Secondo» rispose il dottore, aprendo le braccia e le mani. «Con le malattie nervose, non si sa mai. La scienza è bambina intorno a esse; va a tastoni. Noi mediconzoli, imbattendoci in un caso che c'imbarazza, specialmente se si tratta di donne, sogliamo uscirne pel rotto della cuffia, dicendo: «Nervi! nervi!». Parole, nient'altro. E questo per la diagnosi. In quanto alla cura, non ne parliamo. Botte da orbi. Indoviniamo; lasciamo il tempo che abbiamo trovato; facciamo peggio. Parlo schietto, da medico che ha un po' di praticaccia, e studia e legge qualche giornale scientifico per non rimanere al buio di quanto si scopre ogni giorno dai luminari della scienza... Non faccio il modesto... È la verità. Tornando al profumo, guardate come si comportano gli scienziati! Sono morti centinaia di santi e di sante, consumati da penitenze e da digiuni (ce n'è stati sempre al mondo, ce ne sono ancora e ce ne saranno, speriamo, sino alla fine dei secoli; parlo a modo mio, da credente; non conosco le vostre opinioni); dai loro cadaveri si è sparso attorno un odore delizioso, odore di paradiso, è proprio il caso di chiamarlo così; centinaia, migliaia di persone hanno potuto verificarlo; e quel profumo talvolta è servito come imbalsamatura, ritardando la putrefazione dal cadavere... Ebbene... «Non è vero!» hanno sempre detto gli scienziati. «Imposture! Aberrazioni di gente superstiziosa e ignorante!.» Bravi. La Chiesa proclama: Miracolo! Io sto con la Chiesa. Ed ecco, uno, due, tre scienziati di buona fede, che ora ci vengono a dire: «È vero! Verissimo! Chiamiamolo pure: odore di santità». Scartano il miracolo, s'intende: ma giudicare di questo non spetta a loro. Se c'è miracolo, c'è! Se non c'è, non c'è! Ragiono bene? Essi non hanno più potuto negare il fenomeno, ora che se n'è riscontrato uno simile in parecchi ipocondriaci e isterici. Il dottor Hammond, di Nuova York, ha curato un ipocondriaco la cui pelle spandeva odore di violetta; un altro che esalava odore di pane fresco; due isteriche che mandavano una odor d'iride, l'altra odore d'ananasso. Un dottore con nome che pare uno sternuto, Ochorowicz, se non sbaglio, ha avuto una cliente isterica che esalava effluvi di vaniglia. E già - siamo fatti così, Dio benedetto! - e già si corre troppo innanzi, già si comincia a fare l'ipotesi che a ogni nostro stato psicologico corrisponda la produzione di speciali odori; che fin ogni nostro pensiero (quantunque per difetto dei sensi non giungiamo ad accorgercene), fin ogni nostro pensiero si traduca continuamente in linguaggio di odori... La mia poca scienza, per non chiamarla ignoranza, in questo momento non può dirvi altro. Ma non v'impensierite. Lasciatemi osservare, lasciatemi interrogare la signora. Se non ne capirò niente, ve lo dirò subito; e vi consiglierò di rivolgervi a qualche specialista...»
«Ho fede in lei» disse Patrizio, stringendogli le mani.
«Grazie; ma occorre pure che abbia fede io in me stesso. Il caso è, non dico grave; ma da non prendersi alla leggera. Intanto, l'essenziale mi sembra che la signora sia tranquilla, evitando qualunque più lieve pretesto di eccitazione. E io la credevo placida, serena, mite! È vero che l'ho vista poche volte soltanto.»
Patrizio si passava e ripassava la mano su la fronte...
«Se la mamma sapesse» rifletteva, stando ad ascoltare il dottore. «Il senso dell'olfatto, ottuso dagli anni e dalle malattie, le ha impedito finora di accorgersene. Se arrivasse a sapere!»
«Coraggio!» gli disse il dottore. «Non c'è da affliggersi tanto.»
«Ella fa il suo dovere, trattandomi quasi come un malato; non vuol farmi paura col darmi a scorgere tutta la gravezza del caso...»
«Che cosa vi passa per la testa?»
«Ma io sono un disgraziato. Porto la iettatura addosso! La mia vita è stata fino a pochi mesi fa una lunga sequela di sventure. Lei non sa nulla! Debbo aspettarmi sempre di peggio!... Lei non sa nulla!...»
«Coraggio!»
«Venga domani... col pretesto del suo reclamo per la ricchezza mobile. Dico così perché Eugenia non si figuri... L'immaginazione delle donne è portata a ingrandire, a esagerare. La mamma poi non deve venir messa a parte di niente. Ignora; lasciamola nella sua ignoranza. È così impressionabile, povera donna! Sono tanto agitato io, uomo!...»
«E non c'è ragione, caro Agente!... Il caso può essere e non essere cosa grave. Nei fenomeni nervosi, chi si raccapezza? Scoppiano all'improvviso; spariscono all'improvviso; fanno guasti; non lasciano traccia. Può darsi che questo profumo sia fenomeno passeggero, di quelli che non lasciano traccia. Allora: «Benvenuto! Buon viaggio!». Sarebbe peggio se si trattasse di puzzo. Rido, pensando che se a ogni nostro pensiero corrispondesse davvero un profumo, i cattivi pensieri dovrebbero produrre gran puzzo! E le corbellerie? Quelle che dico io, per esempio, al letto degli ammalati? Mettiamo che le corbellerie non abbiano né puzzo, né odore, perciò nessuno se n'accorge. Basta... Vedrete domani come saprò recitare la commedia! È quasi il nostro mestiere... Già, in questo mondo, recitiamo la commedia tutti, un po' per uno, quando non recitiamo la farsa o la tragedia... Mondo di guai! Pure non dobbiamo ridurcelo peggiore di quel che è. All'ultimo - è la mia antifona - antifona da vecchio e fuori di moda: «Ricordiamoci che c'è Dio!». Giova sempre a qualche cosa.»
Il dottor Mola si era alzato dal sedile di pietra, e batteva familiarmente con una mano su la spalla di Patrizio, per consolarlo e incoraggiarlo.
«Guardate la campagna! Guardate il mare! Non vi sentite schiarire l'animo? Lo spettacolo della natura è sempre consolante. Voi vivete troppo da eremita. Ci avete fatto l'abitudine, me lo avete detto... Ragione di più per romperla, almeno qualche volta. Aria! Aria! E gamba lunga. Io faccio, in media, una diecina di miglia al giorno, salendo scale, andando su e giù per vicoli e vicoletti. Ho sessantotto anni, e porto la mazza soltanto perché i dottori debbono portarla: è di prammatica. Aria! Aria!»
Patrizio, accompagnandolo, si strizzava le mani: «Se la mamma arriva a sapere!»
Eugenia notò un gran cambiamento nei modi di suo marito. Ora egli le stava attorno con insolita premura, guardandola con occhi così pietosi, così pieni d'indulgenza, ch'ella cominciò a insospettirsi.
Prima, egli rimaneva nella stanza di ufficio fino all'ora di colazione. Da qualche settimana, invece, pareva che un pensiero fisso e tormentoso lo spingesse a fare rapide apparizioni in camera o nel salottino.
«Ti occorre qualche cosa?» ella domandava.
«No. Voglio distrarmi da un lavoro noioso che mi dà il mal di capo.»
«Debbo farlo io, per forza. Mi arrufferebbero ogni cosa.»
E passeggiava per la stanza, accarezzandole fuggevolmente la testa quando le passava vicino.
Tornava da lì a qualche ora, col pretesto di un oggetto da ricercare nella cassetta del tavolino e che non trovava.
«Che cerchi?»
«Cerco un appunto, un pezzettino di carta così!»
Subito però smetteva la ricerca e s'intratteneva con lei.
«Che cosa fai?»
«Orlo dei fazzoletti, lo vedi.»
«Bisognerà ricamarvi le cifre.»
«Pensavo a questo.»
«Gotiche?»
«Di che ti mescoli? Le sceglierò io.»
Si vedeva che era un pretesto per osservarla; infatti non le levava gli occhi d'addosso.
E tutte le volte finiva con domandarle:
«Sì. Perché dovrei sentirmi male?»
«Ti paio sempre pallidina, Dio mio!»
Era dunque proprio malata e intanto non se ne accorgeva?
Il dottor Mola veniva quasi tutti i giorni:
«Non da medico, ma da buon vicino. Vicinanza è mezza parentela.»
Il brav'omo voleva ingannarla, con quel risolino malizioso, con quegli occhietti neri, che quasi gli schizzavano fuori dalla faccia schiacciata.
«Si dà l'aria di canzonarmi, pel maledetto profumo... E mi tempesta di domande. Perché? È dunque sintomo cattivo? Perciò, forse, non me ne vogliono dir niente. Mi trattano da bambina.»
E notava tutto, piena di sospetti vaghi.
Notava il leggero malessere, specie di spossatezza che la faceva rimanere a lungo nella stessa positura, con lo sguardo fisso in un punto. Notava i sordi rumori che le assalivano gli orecchi, ora come lontano scroscio di acque correnti, ora come leggero fischio, ora come tintinnio. Aveva già notato più volte una rigidezza nell'estremità della lingua, che ricompariva specialmente qualche giorno prima che l'odor di zagara diventasse più intenso. L'acutezza di esso variava, senza ragione comprensibile, anche nella medesima giornata, a periodi diversi, a sbalzi, con nessuna corrispondenza di intervalli. L'aumento dell'emissione le apportava uno stato di eccitamento ilare, simile a quello che le dava il caffè, se ella eccedeva nella dose.
Non le pareva d'essere sempre sul punto di cadere in un accesso nervoso come giorni fa? Si sentiva portar via, via, via, verso un ignoto abisso; il terrore del prossimo sfacelo le dava il capogiro, le faceva correre un brivido diaccio da capo a piedi; e, a un tratto, ecco una mano che l'arrestava proprio sull'orlo e le impediva di precipitare. Così anche l'irritazione prodottale fin dalle cose più insignificanti, ella se la sentiva svaporare da tutto il corpo con quel profumo di zagara, che appunto allora diventava più acuto e che la lasciava spossata e abbattuta poco meno che non potesse fare un accesso compiuto.
Non ne diceva niente a Patrizio, né al dottor Mola; sentiva vergogna. Da ragazza le avevano fatto capire che quei disturbi femminili bisognava dissimularli, per pudore; ed ella, senza intenderne bene la ragione, si conformava anche ora a quel consiglio. Interrogata dal dottore, aveva negato di averne mai avuti prima di quel giorno. E teneva nascosti i fenomeni interni: l'ansia, il terrore, la sovraeccitazione, se fosse stato possibile, avrebbe nascosto fin il profumo. Infatti tentava ogni mezzo per attenuarlo, lavandosi continuamente le mani e le braccia, facendo inutile sciupio di sapone, che all'ultimo produceva un resultato contrario, rendendo più libera e più facile la traspirazione voluta impedire. Perciò ella avea smesso, attendendo che il fenomeno, un giorno o l'altro, sparisse da sé com'era venuto.
Intanto diventava più sospettosa, più diffidente. Le pareva di sentirsi circondata da un'atmosfera maligna. La tregua apparente nel contegno della suocera, le affettuose sollecitudini di Patrizio assumevano stranissimi significati per lei. La vecchia - come la chiamava - doveva essere troppo soddisfatta di saperla malata di quella inesplicabile malattia; per ciò sembrava acchetata. Chi sa che cosa s'attendeva la vecchia cattiva?
Ah, ella avrebbe voluto interrogare a quattr'occhi il dottore, se fosse stata sicura di strappargli di bocca la verità! Ma il dottor Mola si divertiva a sgusciarle di mano ogni volta che ella tentava di afferrarlo e indurlo a parlare. Non la prendeva sul serio.
«Siete diventata una pianta d'arancio in fiore. Di che vi lagnate, signora mia?»
Il dottore non aveva torto. Perché si ostinava a nascondergli i sintomi interni che ella andava notando e che il pover'uomo non poteva indovinare?
E, irragionevolmente, s'indispettiva di sentirsi osservata, compatita. Le blande carezze di Patrizio la irritavano, con grande meraviglia di lui.
«Ma che hai?»
«Niente» rispondeva, brusca, senza accorgersene.
E siccome nessuno dei due ardiva di provocare una spiegazione che avrebbe tolto di mezzo facilmente l'equivoco, lo stato dell'animo di lei peggiorava; ed egli ricorreva invano al dottore, che si stringeva nelle spalle dicendo:
«Stiamo a vedere.»
Il dottore aveva replicatamente insistito:
«Uscite da questa prigione volontaria. Abbiamo nei dintorni molti punti deliziosissimi da poter farvi belle e lunghe passeggiate. Gioverebbero immensamente alla signora.»
Patrizio ne aveva parlato più volte a Eugenia, quasi fosse stata un'idea propria, un capriccio che avrebbe fatto molto piacere anche a lui.
«No» ella aveva sempre risposto. «Qui si sta tanto bene! Se volessi passeggiare, c'è la selva, ci sono i corridoi, c'è la terrazza!»
E lo fissava, e lo costringeva ad abbassare gli occhi.
Un giorno però, tutt'a un colpo, Eugenia si era decisa a chiedere una franca dichiarazione al dottor Mola.
Stata alla vedetta, all'arrivo di lui gli uscì incontro nel corridoio, e lo prese per una mano:
«Venga, venga qui.»
Il gesto, l'espressione insolita della voce lo fecero mettere in guardia.
Quella celletta dell'antica infermeria, col vano della finestra ingombro dai fitti rami d'una pianta di loto che dalla selva sottostante si elevava presso il muro della facciata a sormontare il tetto del convento, pareva fatta a posta per colloqui misteriosi.
La penombra, che i riflessi verdognoli delle foglie illuminate dal sole vi spandevano dentro, lasciava appena distinguere i mucchi di mattoni rotti, i vecchi telai di imposte, i tavolini e i legni sporchi di gesso e di calcina che ingombravano gli angoli. Le due seggiole, poste una di fronte all'altra presso la finestra, indicavano chiaramente un interrogatorio premeditato.
«Scusi se l'ho condotto in questa stanzaccia.»
«Ai vostri comandi, cara signora.»
«Indovino senza che parliate» egli rispose sorridendo. «Nausea, eh?... Languori, eh?... Appetiti bizzarri, eh?... In questo caso sarebbe stato più pratico consultare la suocera. Avreste evitato di arrossire...»
«No, no, s'inganna!... Mi fa arrossire lei!» rispose Eugenia con voce turbata. «Questo maledetto profumo che non vuole andarsene via?... Non capiscono, lei e Patrizio, che tacendo mi spaventano di più e mi fanno sospettare tante bruttissime cose?»
Il dottore, con le mani aperte, le accennava di calmarsi, di calmarsi:
«Avete ragione, signora mia. Noi medici siamo nell'obbligo di saper tutto; ma spesso (parlo di me e dei miei pari) sappiamo poco o niente. Non potendo confessarlo ai clienti - se no, addio professione! - in certi casi facciamo come i bastimenti quando c'è tempesta; prendiamo il largo. E se non siamo presuntuosi o senza coscienza, ci mettiamo a consultare i nostri autori... Così, con l'aiuto di Dio, evitiamo, qualche volta, le corbellerie più madornali.»
Quantunque il dottor Mola, occorrendo, adoperasse facilmente coi malati le pietose bugie, pure allo scintillio di quegli occhi pieni di diffidenza e intenti a scrutare le parole che gli uscivano di bocca, aveva provato tale impaccio da sentir bisogno di una pausa.
«Questo maledetto profumo che non vuole andarsene via!» riprese, imitando scherzevolmente l'intonazione di Eugenia. «Si tranquilli. Già sappiamo che cosa è, e possiamo ridergli in faccia!»
«Ah!» esclamò Eugenia, incredula.
«Non avete mai inteso parlare di donne che, in uno stato simile al vostro, prendono in abborrenza gli alimenti ordinari, e divorano cenere, terra, segatura di legname, carbone, ne si nutrono d'altro?... Noi chiamiamo pica questa malattia. Chi poteva sospettare che tra i sintomi della pica ci fosse anche la emissione di un profumo?... Sissignora, è così... Avreste forse preferito mangiar cenere o carbone?»
Ella lo guardava con tanto d'occhi, senza poter dire una sola parola; e il cuore le batteva così rapido, e un nodo le stringeva così fortemente la gola, che per un istante temette di essere sul punto di svenirsi...
«È... proprio...questo?» balbettò. «Ah, Signore!...»
E si levò da sedere, passandosi le mani sul viso, facendosi di mille colori, ripetendo soltanto:
«Ah, Signore!...»
Il dottor Mola già sentiva rimorso di quella pietosa bugia, e osservava commosso la giovane che, affacciatasi alla finestra, pareva provasse una deliziosa sensazione stropicciando la faccia tra le lunghe e fini foglie del loto, quasi calmasse con tale espediente l'eccitazione cagionata dalla inattesa notizia.
«Ora» egli disse «dovreste confessarvi con questo vecchio confessore che è qui. Che cosa vi sentite? Fatevi animo; non abbiate ritegno. Commettereste un sacrilegio tacendo, come nella confessione; non si tratta soltanto della vostra salute, ma di quella di un'altra creatura di Dio. Parlate, parlate!»
Ed ella parlò, abbandonatamente, chiedendo scusa, di tratto in tratto, del suo sciagurato silenzio:
«Non tacevo io; c'era qualcuno che mi metteva una mano su la bocca, allorché volevo parlare...»
«Intendo. Via, rispondete alle mie domande; faremo più presto.»
Al dottore non pareva vero che la sua pietosa bugia avesse potuto produrre quell'effetto.
«Donne! Donne!» pensava fra una domanda e l'altra...
«Vedete?» egli concluse all'ultimo. «Se aveste parlato prima, non avremmo perduto un tempo preziosissimo. Da oggi in poi però, cara signora, sarete docile, ubbidiente, è vero? Dio vi ha consolata; dovreste eseguire tutte le prescrizioni del medico, anche per non essere ingrata verso Dio!...»
«Sì, sì» ella rispondeva, asciugandosi le lagrime.
Si sentiva più leggera, quasi le fosse stata tolta una macina di sul petto.
«È questo?... Oh Vergine benedetta!...»
«Se i sintomi non ci ingannano» soggiunse il dottore.
«Non lo sospettavo neppure!... Niente che me n'avvertisse! Può mai darsi?»
«Tutto può darsi, se vuole Iddio. Come siamo egoisti! Dimentichiamo una persona che non è in pensiero meno di noi.»
«Vada da Patrizio, vada, dottore!»