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Infatti il giorno appresso, dopo colazione, Patrizio, affacciandosi alla finestra, disse a Eugenia:
«Abbiamo smarrito la via di laggiù!»
«La selva dev'essere tutta in fiore» ella rispose.
«Il Padreterno va e viene. Che diamine fa?»
Eugenia sporse la testa per vedere:
«Se ti piacesse...» egli la invitò. «Il tempo di fumar questo sigaro.»
E si avviarono.
Eugenia era triste. Si sentiva vinta sin dalla sera scorsa. Le pareva che ormai tutto fosse stato detto tra suo marito e lei e che la sua sorte fosse già fissata. Non sentiva più l'incubo della gelosia della morta, ma una profonda malinconia. Dunque ella e Patrizio non s'intendevano! Era finita così! Bisognava rassegnarsi.
Tutto quello splendore di verde la lasciava indifferente. Quantunque al braccio di lui, aveva il sentimento di un grande stacco dall'uomo amato tanto! «Amato!» Quasi fosse stato un avvenimento lontano del quale le eran rimasti nel cuore un ricordo e un rimpianto. Si sentiva oppressa da torpore strano, da stanchezza che la faceva andare a passi lenti, muta, con lo sguardo vagante attorno, in cerca di qualcosa di cui non ritrovava nemmeno la traccia e che pure ella si ostinava a cercare. Che mai? Non avrebbe saputo dirlo; forse l'amore fantasticato tante volte tra quelle belle piante, tra quelle siepi ora dorate dal sole di maggio, davanti a quelle aiuole colorate ancora di brina nei punti riparati dall'ombra dei rami attorno.
La fontana smagliava. Lo zampillo, sgranato in perle e diamanti, cascava su le larghe foglie d'acanto, sugli esili steli di capelvenere, che si chinavano e si rilevavano continuamente sotto gli orli della vasca verdi di muschi novelli.
Eugenia, accostandosi, intinse nell'acqua la punta delle dita e se ne strofinò la fronte.
«Ti duole il capo?» domandò Patrizio.
«No... capriccio. Lasciami bere.»
Sentiva riarsa la gola e inaridite le labbra. Stese le mani concave sotto lo zampillo e bevve a sorsi, ripetutamente, quel po' di acqua che riusciva a raccogliere.
«Deliziosa!»
«Beva, beva pure, signora!» esclamò il Padreterno dalla siepe di faccia. «È tutta per lei. Io non ne sciupo goccia; siamo nemici antichi. Acqua male facere e vino confortabile, diceva quello. L'acqua produce ranocchi in fondo allo stomaco. Dico bene, signor Agente?»
«Da quel Padreterno che siete» rispose Patrizio sorridendo.
«Perché vi chiamano Padreterno?» domandò Eugenia distrattamente, tanto per dire qualche cosa.
«Il vero Padreterno, signora, era mio nonno, che faceva questa parte nel Mistero, ai tempi dei tempi, quando nella settimana di Passione si rappresentavano i Misteri; e il nomignolo gli rimase. Ora, siamo Padreterni da padre in figlio. Qualche volta mi ci arrabbio. Essere Padreterno e fare il sagrestano per campare la vita! Così va il mondo. Che belle giornate eh? La selva è un paradiso. Lor signori non ci sono più venuti; e i fiori attendevano la mia padrona. L'attendevano pure i cardellini. Oggi stesso li porterò su in camera; c'è un gattaccio dei dintorni che me li insidia. Sentono? Già cominciano a canticchiare. Vengano da questa parte, vengano!»
La selva era davvero un paradiso, verde e piena di sole, odorante di spigo, di rosmarino, di rose, brulicante d'insetti e di farfalle che sciamavano dalle siepi al fruscio della gonna di Eugenia e alle scosse che Patrizio vi dava a posta con la punta di un piede, quasi volesse prendersela con qualcuno. In quel momento lo occupava il pensiero del male che egli credeva covasse tuttavia nei deboli nervi di quella povera creatura, e così latente e così subdolo da illudere anche il dottore. Lo scatto di Eugenia, la sera scorsa, proveniva da questo! Ah! La cattiva sorte non si stancava di perseguitarlo. Quando non poteva colpir lui, colpiva le persone a lui dilette. Chi sa che gli preparava per l'avvenire!
Andavano, egli avanti, Eugenia dietro, rasentando la siepe di bosso, silenziosi tra tanto sorriso di vegetazione e di luce, quasi non se n'accorgessero o non se ne curassero.
La gabbia coi cardellini pendeva da un ramo del mandorlo accanto al rosaio. Il Padreterno aveva in mano due belle rose per offrirle ad Eugenia:
«Si sfogliano sulla pianta; chi le coglie?»
«Grazie» ella rispose, guardandole appena.
Non aveva voglia di nulla, infastidita di tutto, di tutti, e specialmente di se stessa. Quella passeggiata per la selva non avrebbe dovuto rallegrarla? Era un buon segno. «Mi emenderò: vedrai!» le aveva detto Patrizio. Perché dunque ella non credeva alla sincerità dei sentimenti di lui, e vedeva lo sforzo e l'ostentazione in un atto suggeritogli dal desiderio di farle piacere? Era ingiusta pretendendo qualche cosa di più? Che cosa? Ah! Lo sapeva forse lei? Ma non era quello. Non era quello! E le sembrava di sentirsi simile ai cardellini che smaniavano nella gabbia, tentando continuamente le gretole, saltellando su e giù. Almeno essi non s'ingannavano, volevano la libertà; nient'altro. Il resto lo avrebbero trovato pei campi e per l'aria. Ella sola cercava indarno, senza mai trovare! Cercava qualcosa nel più riposto angolo del cuore di Patrizio, e non lo trovava...
Il Padreterno, staccata dal ramo la gabbia, gliela presentava, orgoglioso del suo bel regalo:
«Due maschi e due femmine. Peccato che i cardellini non facciano cova! Badi! Scappano, signora!»
Eugenia aveva aperto la porticina, e la teneva spalancata:
«Andate via, creature di Dio!»
E il Padreterno, con la gabbia vuota tra le mani e gli occhi sbalorditi dietro il volo dei cardellini che si sparpagliavano di qua e di là, balbettava stupito:
«Perché, signora? Perché?... Glieli avevo allevati con tanta cura!»
Tornarono nella selva quasi tutti i giorni, ripresero la via della terrazza nelle belle serate; ma niente che rassomigliasse, né per lui, né per lei, alla gioia delle furtive scappatelle di una volta. Ragionavano tranquillamente di affari di casa, o degli scarsi avvenimenti della giornata: una visita delle figlie del sindaco, una sciocchezza detta dal Padreterno, una storditaggine di Dorata. Oppure rimanevano zitti, seduti accosto - egli, fumando; Eugenia, con le braccia abbandonate sul grembo e gli occhi socchiusi -, pensando e fantasticando ognuno per proprio conto, lasciandosi invadere sempre più, ella dalla sdegnosa rassegnazione a quella vita monotona, fredda, per la quale non si sentiva nata; Patrizio da un senso di pace e di riposo, che a poco a poco gli addormentava nel cuore le diffidenze e i sospetti contro la sua cattiva sorte.
Una, due volte la settimana, quell'atonia era interrotta dalle risate di Giulia. Allora, improvvisamente, per le stanze, pei corridoi, fin per l'ufficio, risuonava ed echeggiava l'allegro chiacchierio di lei, le sue risate, e le sue strampalerie di ragazza che ha sulla punta della lingua quel che le ribolle dentro, e lo getta attorno alla spensierata, per proprio gusto, senza punto badare agli altri.
Venivano talvolta, assieme con lei, anche le sue sorelle; e allora conducevano via Eugenia a passeggio, alla chiesa dove si celebrava qualche festa religiosa serale, o dalla zia Vita, che parlava sempre della buon'anima di suo marito; buon'anima che gliene aveva fatto vedere di cotte e di crude, come ella diceva. E per ciò si contentava di rimaner sola e di viver sola con la serva, quantunque non fosse poi tanto vecchia e le tentazioni non le mancassero. Oh, non era nata pel mondo! Infatti voleva farsi monaca; ma suo padre, che non intendeva ragione, l'aveva costretta a maritarsi. La mamma: «Fa' la volontà di Dio, figliuola mia!». E l'aveva fatta dieci anni, in mezzo a un vero inferno. Eppure si era ingrassata!
«Ora vi sembro una carrozza, donna Eugenia mia. Da ragazza, ero un fil di paglia.»
Eugenia si divertiva stando ad ascoltarla. Ascoltava però più volentieri le confidenze di Giulia. Nei giorni in cui veniva a trovarla sola e rimandava subito Pina dalla quale s'era fatta accompagnare, Giulia non la finiva più di ragionare del suo Corrado; le leggeva, una dopo l'altra, tutte le lettere di lui.
«Più lunga del passio!» esclamava, cavandone una di tasca. «Già la so a memoria.»
Giulia le recava spesso i saluti di Ruggero, che non vedeva l'ora di ritornare. Col pretesto delle lezioni del fratello, allora ella sarebbe venuta tutti i giorni; le pareva mill'anni!
E alcune settimane dopo, entrò in camera di Eugenia, sventolando il fazzoletto dall'allegrezza:
«Eccolo qui! Eccolo!»
Ruggero parve alquanto impacciato di quell'annunzio rumoroso.
Lo svelto abito grigio da mattina gli stava benissimo.
«Peccato che mio fratello non sia biondo» disse Giulia. «Sembrerebbe un inglese.»
«Di Marzallo» aggiunse Ruggero, ridendo.
E strinse la mano che Eugenia gli stendeva.
«Vestito così sbricio, pare più alto, è vero?» le susurrò Giulia in un orecchio. «Bel giovane, non c'è che dire. Son lieta che sia mio fratello.»
«Ora si tratterrà un pezzo» disse Eugenia, dopo di averlo invitato a sedere.
«È diventato più serio in questi mesi.»
«Con gli anni si mette senno. È diventata, mi pare, un po' più seria anche lei.»
«Oh, io?... Sempre la stessa.»
«Guarda! Parla quasi fosse una vecchia!»
«S'invecchia in tanti modi!» rispose Eugenia. «Tu sì, cara Giulia, non invecchierai mai.»
«Come la zia Vita, con la sua buon'anima. Perciò ha una proposta di matrimonio al mese, beata lei! Tentazioni, come le chiama. Gliela danno a intendere le femminucce, per cavarle di mano qualche soldo. Parlatele di quelle tentazioni e la fate felice. Io le dico spesso: «Zia, è vero che il tale ti ha chiesta?». Non è vero niente, nomino il primo che mi capita in bocca. «Ma sì, figliuola mia! Non mi vogliono lasciare in pace! Quasi non ne avessi avuto abbastanza con la buon'anima!» Se le dicessi: «È vero zia, che ti ha chiesto il papa?» risponderebbe egualmente: «Ma sì, figliuola mia!».»
«Come la imita bene nella voce, nei gesti! Par di sentire proprio lei» disse Eugenia.
«Ora ci vedremo spesso» riprese Ruggero. «Verrò ad annoiare l'Agente per le matematiche.»
«L'hanno bocciato!... Papà è su le furie, quantunque lo prevedesse.»
«Una volta poi finirò d'essere studente!» sospirò Ruggero.
«E allora prenderai moglie. Dovresti trovarne una come questa qui!»
«Matta!» fece Eugenia, battendole un colpetto su la mano,
Il cavaliere venne in persona per presentare il discepolo al professore.
«Se non è professore, meriterebbe di esserlo» egli rispose alla cortese protesta di Patrizio. «Sia severo. Costui ha la testa dura. Non vuol capire che le matematiche quadrano la mente e servono a tante cose, anche per gli avvocati, se dovrà essere avvocato. Diciamo piuttosto che è la poca o punta voglia di studiare. Dal liceo si torna in paese, non si apre più libro, e si dimentica il po' che si è appreso. Costui è abituato a far così. Se n'avvedrà poi, quando non potrà più rimediarci; glielo dica lei, che ha più autorità di me. Ai miei tempi, non c'erano tante scuole, e si studiava alla meglio. Oggi le scuole ci sono; manca la volontà. E poi se la prendono coi professori! Se lo tenga qui, gli faccia anche copiare carte dell'Agenzia, se le fa comodo; purché stia occupato e non vada uccellando qua e là coi cattivi compagni.»
«Non è più ragazzo» disse Patrizio «e non ha bisogno di prediche.»
Ruggero, a capo chino, girava il cappello tra le dita.
«Di prediche ne ha fin troppe!» rispose il cavaliere, stirandosi le fedine. «Ma fa il sordo; e il peggio sordo è chi non vuol sentire. Passo a salutare la sua signora. Sta bene? Me ne rallegro. Nervi, dice il dottor Mola. Proprio odor di zagara? Sembra una favola. Guarda un po' a che siamo soggetti! Povera signora! Basta. Quando possiamo contarle le disgrazie sono niente. Le mie figliuole vanno matte della sua signora. Giulia poi! A me fa gran piacere ch'ella pratichi una persona così buona. Così questo signorino si specchiasse nel signor Agente! Lei è ammirevole; lavoro e studio, studio e lavoro. Il mondo non esiste per lei. Lo invidio. Non ha rompicapi, non si fa bile, come me, che certe volte temo di scoppiare! Non si scomodi; so la strada. Ha fatto bene a mutare stanze. Queste dovevano produrre gran tristezza alla sua signora. Certi ricordi, benché cari, è meglio tenerli un po' lontani. Tanto, che cosa si fa? Quel che è avvenuto, è avvenuto. Lei non può consolarsi, lo so. Tutte le sere al camposanto! È un conforto anche questo. Pietà filiale commoventissima!»
In piedi e già mezzo congedato, il cavaliere continuò per un altro buon quarto d'ora, tornando a parlare delle lezioni.
«Ora costui è nelle sue mani!» conchiuse all'ultimo. «Son venuto a consegnarglielo.»
E quella sera, andando al camposanto, Patrizio rifletteva con senso d'amarezza quanto fosse mutata ogni cosa d'attorno a lui dopo la morte della sua mamma.
Oh, la dolce solitudine d'una volta! Oh, l'intimo silenzio di quelle stanze nei primi mesi della loro vita a Marzallo! Eugenia, allegra e piena di salute. Egli, felice di vederla a quel modo, di sentirla parlare e cantarellare, venendogli continuamente dinanzi con mille affettuosi pretesti. Di là, nella sua camera, su la poltrona, la mamma, che era pur sempre mamma con tutta la sua gelosia, con tutti i suoi rancori. Conforto, alito tiepido che gli scaldava il cuore!
Ora, egli non si raccapezzava più! Giulia, le di lei sorelle, Ruggero invadevano il suo posto, disturbavano la sua solitudine, si frapponevano tra Eugenia e lui, rovesciavano da cima a fondo l'ordine e la tranquillità della sua vita. Eugenia andava già spesso fuori di casa, quasi cercasse ogni occasione per starsene lontana da lui. E lui, lui stesso, che cosa faceva per tenersela legata, per non lasciarsela sfuggire? Era divenuto indifferente? O credeva che quella malinconica freddezza, da cui si sentiva lentamente circondare, fosse pace desiderabile e buona? Non si raccapezzava.
Anche il ricordo della sua povera mamma gli si rattiepidiva in fondo al cuore! L'abitudine, il tempo che andava trascorrendo avevano già alquanto spuntato l'acutezza del suo dolore. E dapprima gli era parso che aumentasse, che crescesse, ogni giorno, da dover diventare infinito! Ah, Signore, che tristezza!
Si fermò alla porta del camposanto, quasi volesse raccogliersi tutto nel solo pensiero della sua povera mamma prima di entrare, e si affacciò al parapetto murato su l'orlo della rupe. L'abisso si sprofondava nella gola tortuosa che si perdeva più in là, nella vasta pianura. Laggiù, laggiù, lungo il torrente, una fila di carri montava per la salita; contadini a piedi e a cavallo sbucavano dalle viottole nascoste tra gli alberi, brulicavano a frotte nere per lo stradale grigio, simili a mostruose formiche. Le taccole, appollaiate nelle fenditure della rupe, gracchiavano, quasi borbottassero da un nido all'altro. Solo un falchetto in ritardo ora si librava su le ali tremolanti, ora si lanciava come freccia per l'aria imbrunita, e squittiva acutamente, forse impaurito di quella forma nera, rizzatasi all'improvviso dietro il parapetto in cima alla rupe. In fondo, lontano, montagne di nuvole cineree salivano minacciose dal mare, spinte su dal libeccio che aveva cominciato a soffiare. Patrizio guardava giù, attorno, lontano, abbandonandosi a quella specie di momentaneo oblio da lui ricercato, lasciandosi penetrare tutto dalla solenne malinconia delle cose al cader della sera, che su quella cima di rupe, con la campagna che si scuriva là sotto, e fuggiva fino al mare, digradante di forma e di colore, riusciva più solenne.
Si scosse, e tirò il cordone della campana che pendeva fuori della porta del camposanto.
«Ah, voscenza!» disse il custode, salutandolo. «Credevo che questa sera non venisse.»
E Patrizio ebbe una stretta al cuore, quasi il rimprovero gli arrivasse dalla tomba della sua povera mamma.