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Era proprio così! Angelica, Benedetta e, più di esse, Giulia e Ruggero invadevano il suo posto, si frapponevano fra Eugenia e lui.
Con l'inoltrarsi della bella stagione, progettavano quasi ogni giorno lunghe passeggiate fuori il paese, e Ruggero non mancava mai, trovando nella compagnia e nella conversazione di Eugenia qualche compenso alla forzata privazione di quella dei suoi amici, qualificati dal cavaliere cattivi compagni. Le passeggiate, che il dottore aveva tante volte consigliate invano, giovavano alla salute di Eugenia e nello stesso tempo le ammonivano il dispetto della propria rassegnazione e l'altro, più vivo, della rassegnazione di suo marito. Rimanendo sola, si tormentava sordamente, fantasticando; in compagnia, si lasciava distrarre, si abbandonava alle impressioni esteriori, piene per lei del dolce sapore della novità, dopo tanti mesi d'isolamento quasi claustrale e di afflizioni di cuore. E al ritorno, stanca, con la interna ripercussione di tutto quel che aveva veduto e sentito, appena il suo dispetto tentava di riaccendersi, ella alzava le spalle, rinunciando sdegnosamente a indovinare il senso delle enimmatiche parole di Patrizio: «Se tu lo comprendessi, non lo diresti!» che le rivenivano frequenti alla memoria.
«Forse non sa neppur lui che cosa significano!» conchiudeva.
Rifletteva però che l'altra volta egli s'era subito accorto e impensierito della tristezza di lei; ora lasciava correre, o non se ne dava per inteso. Avesse potuto almeno leggergli un'ombra di preoccupazione sul viso! Niente, niente! Da quella sera, dal ritorno dal Santuario della Madonna delle Grazie, neppure un lontano accenno al soggetto della mutua spiegazione rimasta interrotta. Ah! La credeva tuttavia malata. Che idea! Per questo il dottor Mola aveva ripreso le visite e le minuziose inchieste. Ella gli ripeteva:
«Stia tranquillo; mi sento benissimo!»
«All'aspetto, non si direbbe» rispose una volta il dottore. «Ormai vi conosco bene, signora mia. Vuol dire che prima avevate maggiore fiducia in me... sì, sì!»
«Oh, dottore!»
Protestava per cortesia; ma quella faccia magra, schiacciata ai lati, che col gran naso adunco pareva volesse spingersi a scrutarla nel profondo petto, cominciava a divenirle un tantino antipatica.
«Tu e lui» disse con stizza a Patrizio «vi siete ficcati in testa che io stia ancora male; lasciatemi stare!»
«Dovresti ringraziarlo» egli rispose. «Più che medico, è amico.»
«Tenga i suoi intrugli per sé; ne ho a bastanza!»
Due giorni dopo, il dottore venne a farle un predicozzo:
«Honora medicum» dice la Bibbia. «Chi trascura la propria salute pecca gravemente.»
Anche su questo punto s'era rassegnata! Chi sa? Forse avevano ragione. E se pure avessero avuto ragione? Non gliene importava. In certi momenti... arrivava fino a invidiare colei che giaceva sotterrata nel camposanto e non vedeva e non sentiva più nulla, felice lei!
Per ciò Eugenia sorrideva amaramente allorquando si sentiva invidiata da Giulia, che esclamava alla sua volta: «Felice lei!» e le susurrava queste parole in un orecchio, abbracciandola, quasi vedesse nella supposta felicità dell'amica un'anticipata rappresentazione della propria felicità, e in lei intendesse abbracciare con la immaginazione Corrado Favi, che appunto in quei giorni doveva prendere la laurea!
Gliel'aveva già ripetuto allo stesso modo poc'anzi, lungo lo stradone della Cava, avviandosi, insieme con le sorelle, Ruggero e la zia Vita, verso un fondicello di lei a mangiarvi i fichi primaticci, come solevano fare ogni anno in quella stagione.
«Sentirete che fichi, donna Eugenia! Innesti delle mani benedette della buon'anima.»
«E quando ti picchiava, zia, che mani aveva?» la interruppe Ruggero.
«Dio non gliene chieda conto lassù, figliuolo mio!»
E continuava, rivolta a Eugenia:
«Due spanne di terreno: paradiso! Peri, meli, prugni, nespoli del Giappone, melagranati di tutte le specie. Fichi poi!... Vittorio Emanuele, re bell'e qual è, non ne mangia frutta simile: ve ne assicuro io!»
«Dovresti mandargliela, zia» disse Giulia, scoppiando a ridere.
«A quello scomunicato? Se la compri, se pure ne trova, coi denari delle tasse che ci smunge!»
«Come se li mettesse in tasca lui, povero Vittorio Emanuele!»
«Tu, si sa, figliolo mio, sei liberale! Suo padre è sindaco» continuò ironicamente la zia Vita, tornando a rivolgersi a Eugenia «suo nonno era carbonaro. Chi se li prende, insomma? Garibaldi? Faranno a mezzo... So assai! Io sono donna, e non capisco certi pasticci. Pago fondiaria, ricchezza mobile, focatico... Che cosa non pago? Come quando viveva la buon'anima. Sono vedova per nulla, da questo lato.»
«Allora rimaritati, zia. Con tanti partiti che hai!» disse Giulia, strizzando il braccio a Eugenia e ridendo.
«Ti pare che vogliano me? Vogliono quel po' che possiedo.»
«Non far la modesta; sei forse vecchia?» soggiunse Ruggero per incitarla. «Quanti anni hai?»
«Ho quelli che ho: ma mi sento più giovane di quelle là. Vedi? Angelica e Benedetta sono già stanche, e hanno trovato da sedere. Io potrei fare fin dieci miglia, con tutta questa ciccia che ho addosso.»
«Qui siamo in discesa. Alla salita ti voglio!»
Lo stradone prendeva la china, sinuoso, tra le alte rupi a picco di qua e di là, bigie, coronate di capperi che spenzolavano i tralci su le bocche delle grotte, facendovi cortinaggi di verdura; impennacchiate di oleastri e di fichi d'India, popolate di taccole che gracchiavano saltellando da un ramo all'altro e, volato a stormo e fatto un giro per l'aria, tornavano a posarsi, continuando a gracchiare.
Eugenia, di tanto in tanto, levava gli occhi in alto, compresa dalla paura che qualcuno di quei massi sporgenti dalle rupi non si staccasse di lassù e non precipitasse a schiacciarli.
«Dovrebbe visitare una di queste grotte» le disse Ruggero. «Sono grandi quanto una chiesa. Mi dia la mano; non è pratica, come noi, di arrampicarsi.»
Egli la fissava negli occhi, sorridendo degli sforzi di lei mentre l'aiutava a salire dal ciglione; ed Eugenia provava un senso d'imbarazzo sotto quegli sguardi che lasciavano trasparire più ingenuamente la sincera ammirazione; imbarazzo che aumentò, non appena ella si vide sola con lui dentro la vasta grotta affumicata.
«S'inoltri; qui hanno rizzato una fornace da gesso» disse Ruggero dal fondo. «Questa buca, guardi, introduce in un'altra grotta anche più vasta.»
Ella esitava; però non volendo farsi scorgere, si avanzò fin davanti alla buca, voltandosi spesso indietro, sperando che Giulia si fosse decisa a seguirli; e si sentì sollevata, vedendola apparire su la soglia della grotta, con lo scialle al braccio e una mano su gli occhi a mo' di visiera.
«Dove siete?» domandava. «Ecco: ora ci sbircio. Pare così buio qui dentro, venendo dall'aria aperta!»
Girarono attorno alla fornace, ridendo a ogni inciampata nelle scorie del gesso che ingombravano il suolo; poi, precedute da Ruggero e passando, curve, una dietro l'altra, per la stretta buca, entrarono nella grotta accanto che prendeva luce da un'apertura praticata proprio sotto la volta e mezza velata da piante selvatiche.
Giulia avrebbe voluto affacciarsi; ma gli scalini intagliati nel vivo masso erano talmente corrosi, che, dopo due inutili tentativi, dovette rinunziare al suo capriccio.
Ruggero si chinò, prese un sassolino e lo tirò in alto. Tre grossi pipistrelli, che sembravano grumi neri appesi alla volta, si misero a volare all'impazzata tra gli strilli di Giulia e di Eugenia che scappavano via.
La zia Vita» di fuori, urlava:
«Che cosa è stato? Venite, si fa tardi.»
«Sempre spericolata!» esclamò Benedetta, mentre Giulia raccontava la paura avuta.
«A che servivano quelle cellette orizzontali scavate simmetricamente nelle pareti e disposte a due piani?» domandò Eugenia.
«Servivano ai primi abitatori della Sicilia per seppellirvi i loro morti» rispose Ruggero.
«Oh Dio!» ella fece con mossa di ribrezzo.
«Ora i morti stanno lassù, su la nostra testa» disse la zia Vita, additando il muro del camposanto che biancheggiava su l'orlo della rupe. «Al sole e alla pioggia, quasi non si trattasse di gente battezzata, morta con tutti i sacramenti, in grazia di Dio! Anche questo c'è toccato di vedere: non essere più seppelliti nelle chiese!»
E accorgendosi che il viso di Eugenia si era rattristato all'inopportuno richiamo, soggiunse subito ridendo:
«Lasciamo stare i morti, pensiamo piuttosto ai fichi!»
Eugenia era rimasta sovrappensiero. E procedendo a occhi bassi, tra Giulia e la signora Vita, si sentiva ancora addosso gli sguardi di Ruggero, quel giorno più insistenti del solito. All'improvviso alzò la testa per accertarsi se s'ingannava. Ruggero, che la guardava fissamente, a quell'atto si era voltato subito altrove, quasi vergognoso di essere stato scoperto.
Questi sguardi, ora fugaci, ora insistenti, ella li aveva notati da qualche settimana senza dare ad essi nessuna importanza. Oggi intanto ne provava una sensazione confusa, non sapeva se di lusinga o di leggero dispetto, o dell'una o dell'altro insieme. E ci pensava, vagamente, guardando a destra e a sinistra l'orrido che allargava la sua gola di mano in mano che le rupi, fiancheggiate da carrubbi, da ulivi, da pioppi, diminuivano d'altezza. Ci ripensava, vagamente, prestando sbadato orecchio alla parlantina della zia Vita, alle risposte e alle risate di Giulia, di Angelica e di Benedetta, ai motti di Ruggero che provocava la zia intorno alle sue famose tentazioni.
«Anche il dottor Mola! Che meraviglia? Non è un uomo come gli altri? C'è mancato poco non mi decidessi per lui. È persona seria il dottore... Intendiamoci: parlo di anni fa! Portavo ancora il lutto.»
A un tratto, scoppiò dietro il ciglione il suono festivo di un cembalo.
«Ecco quella matta di Pina che ci viene incontro» disse la zia.
Giulia, presa Eugenia sotto braccio, la trascinò avanti quasi di corsa, mormorandole all'orecchio:
«Se fosse qui anche Corrado!...»
Ed ecco Pina, coi bambini della mezzadra afferrati alla gonna, che saltellava e faceva smoffiacce per la viottola, tra le stoppie, picchiando su la cartapecora del cembalo ora con le sole punte delle dita, ora con la palma della mano, ora levandolo in alto per far tremolare le girelline di latta. E quel suono diffondeva allegria per la campagna attorno; e la campagna pareva più ilare sotto il sole che dorava il giallo delle stoppie, le tenere foglie degli albicocchi, dei peri e dei meli affollati su pel declive, dove ormai della roccia si scorgeva appena qualche masso rossastro, emergente qua e là, tra l'erbe e le pianticine selvatiche.
Alla vista delle signorine, Pina si era messa a saltare più lesta e a girare, tenendo alte le braccia per suonare furiosamente il cembalo, facendo rigonfiare la gonna.
«Basta, mi fai venire il capogiro!» gridò la signora Vita, che aveva un colpo di tosse dal troppo ridere. «Basta, basta, mattaccia!»
Pina fece fronte indietro e prese a sgambettare, picchiando il suolo coi piedi, continuando a suonare il cembalo, agitando la testa finché il fazzoletto di cotone a fiorami rossi e gialli non le cadde sulle spalle e dalle spalle per terra.
Così erano arrivati trionfalmente davanti a la casa rustica. Cestini colmi di fichi, pane e salame, bottiglie con vino e con acqua, bicchieri, tovaglioli si trovavano già pronti, disposti da Pina in bell'ordine sopra una gran tavola di pietra, sostenuta ai quattro angoli da rozzi pilastri. Era venuta avanti per questo e per avvertire i contadini dell'arrivo delle signore.
La mezzadra, col lattante al petto, mosse incontro alla padrona.
Giulia, preso in braccio il bambinello avvolto nelle fasce, lo mostrava a Eugenia.
«E lei, quando si risolverà a farne uno come questo?»
«Non sembra figliuolo di contadini» disse Angelica.
«Qui si vede la grazia di Dio!» sentenziò Benedetta.
Eugenia accarezzava il bambino, che la guardava con gli occhietti celesti, agitando le manine; lo accarezzava tristamente, invidiando quella mamma che forse ne avrebbe fatto a meno nella sua povertà, mentre lei... oh, lei ne sarebbe stata felice!
E anche allora i suoi occhi s'incontrarono con quelli di Ruggero. Questa volta però era toccato a Eugenia abbassarli, con tanta compiacenza Ruggero aveva seguitato a guardarla.
«Su! Non perdiamo tempo» esclamò la signora Vita. «Ve lo dicevo io che fichi come questi Vittorio Emanuele non ne ha visti e non ne vedrà mai! È quasi peccato mortale mangiarli.»
«Pecchiamo allegramente!» esclamò Giulia. «Il mio confessore è di manica larga.»
«E lei?» domandò Eugenia alla zia Vita.
«Io? Ah signora mia, io debbo contentarmi di vederli mangiare agli altri! Col mio stomaco, dice il dottore, un fico, uno solo, sarebbe veleno.»
«E tu, zia, dai retta al dottore?» fece Ruggero ammiccando a Eugenia.
«Via! Non sia detto che son venuta qui per nulla. Ne mangerò uno, proprio uno, in nome di Dio. Ah, che miele!»
«Zia, zia, almeno tre!» la pregava Giulia ridendo. «Questo qui pare di cera.»
«E sia!... Tre, in nome della Santissima Trinità!»
«No, zia; non darle ascolto» disse Benedetta atteggiando gli occhi e le labbra a severità. «Poi starai male.»
«Quest'altri due soli!... Tre e due cinque, per le cinque piaghe di Gesù Cristo!... Ed è finita» esclamò, pulendosi le labbra col tovagliuolo.
Ruggero serviva Eugenia scegliendole i fichi migliori, mescendole il vino; intanto, sotto voce, le diceva:
«Ora tocca a lei. Rideremo. Gliene offra uno e insista un po'.»
Giulia, vista la mossa di Eugenia, prese con due dita un altro fico e lo presentò nello stesso tempo alla zia, che cominciò a strillare:
«No, no, cara donna Eugenia!... No, no, nipote mia!... Che mi fate fare?... Dio mio!... Cinque e due sette, pei sette dolori di Maria... Bella Madre Santissima, beneditemeli voi!»
E mangiatili golosamente uno appresso all'altro e levatasi da sedere, giurando che non sarebbe andata più in là dei sette dolori, si mise a distribuire fette di pane e di salame alla mezzadra, a Pina, ai bambini. E se Giulia e Ruggero le additavano il cestino coi fichi, si faceva subito il segno della croce, ripetendo:
«Via, via, tentazionacce!»
Quando però giunse massaro Santi con un altro bel panierino di quelli degli innesti di due anni, la tentazione la vinse, povera zia! Sicché alla fine ella era passata pei dieci comandamenti di Dio, per le opere della misericordia, insomma per tutto il catechismo, e ne aveva mangiato anche parecchi alla salute dell'Agente che aveva avuto il torto di non venire con loro.
«Glielo dica che sono in collera perché non è venuto; glielo dica, donna Eugenia!»