IntraText Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Erano tornate tardi con una splendida serata di plenilunio. Traversando il corridoio, dalla striscia luminosa che scappava dall'uscio socchiuso, Eugenia si avvide che Patrizio si trovava insolitamente nella sua stanza d'ufficio; e superando le ripugnanze, la prima volta dopo sette mesi, aperse l'uscio arrestandosi sulla soglia:
«Buona sera! Che cosa fai qui?»
«È arrivato l'ispettore» rispose Patrizio. «Metto in ordine alcune pratiche per averle pronte domani. Ti sei divertita?»
«Un pochino.»
«Domani l'ispettore sarà a pranzo da noi.»
«Che seccatura! Dovrà adattarsi. E pel manzo come si fa?»
«Ho telegrafato al mio collega di Noto pregandolo di spedirmene tre chili col conduttore della diligenza.»
«Certamente. Inviterò il sindaco e Ruggero.»
«Perché anche il figlio?» disse Eugenia, dopo un istante di riflessione.
«Ti dispiace? Mi sembra giusto, invitando il padre.»
«Hai ragione. Dovrai lavorar molto?»
«Sì. Mandami una tazza di caffè. E non aspettarmi per andare a letto. Devi essere stanca. Era lontano il posto?»
«Laggiù, laggiù, in fondo alla Cava.»
Patrizio alzò la ventola per guardar meglio Eugenia.
«Non ti senti bene?» le domandò. «C'è qualcosa nel suono della tua voce...»
«Ora anche nella voce!» ella esclamò un po' stizzita. «Buona sera. Vieni di là a prendere il caffè... Sarà meglio. Accompagnami» soggiunse con qualche esitazione. «Il corridoio è allo scuro. Ho paura.»
«Neppure una bambina! Attendi un momento.»
E si diede a rassettare i fogli che aveva davanti, facendole intanto brevi domande intorno alla passeggiata, al pranzo del domani, accennando alla probabilità che l'ispettore volesse desinare con loro tutti i giorni, se all'albergo non lo contentavano.
Eugenia da prima aveva risposto a monosillabi, poi non aveva risposto più, impaziente di vedergli finire quel rassettamento per cui la teneva in piedi su l'uscio, senza pensare che doveva essere un po' stanca. Più che stanca, era malcontenta, irritata, non sapeva contro chi, con una smania che le mantrugiava leggermente la bocca dello stomaco e la rendeva irrequieta. Al tono di una sua risposta, Patrizio si era nuovamente voltato a guardarla.
«Scusa» le disse, levandosi da sedere.
Ella lo precedè; e quando, raggiuntala nel corridoio mal rischiarato dal barlume che penetrava dall'alta vetrata, Patrizio volle prenderla a braccetto, si schivò affrettando il passo.
«Di che hai paura?» egli fece.
Eugenia, stizzita della propria stranezza, si fermò; e, per correggere l'impressione che il suo contegno doveva produrre su Patrizio, gli disse con voce calma:
«Giacché inviti il sindaco e suo figlio, dovresti invitare anche il dottore.»
«Ci avevo pensato; ma temo che la nostra tavola sia troppo piccola.»
Mentre Eugenia preparava il caffè, Patrizio, affacciato alla finestra, guardava la selva che, inargentata dal plenilunio e chiazzata di grandi ombre nere, rispondeva al chioccolio della fontana con leggero stormire di fronde. Di tanto in tanto egli si voltava a osservare silenziosamente Eugenia, occupata a sorvegliare la caffettiera. La seguiva in tutti i movimenti, da un punto all'altro della camera, con sguardi pieni di tenera compassione, pensoso per quel tono di voce da lui notato poc'anzi. Gli pareva vi si rivelasse evidentissimo il segreto lavorio del male, che teneva sospesa la sua minaccia su la testa della povera creatura. Fortunatamente ella non se ne accorgeva.
«Eccellente!» esclamò Patrizio, terminato di sorbire il caffè. «Buona notte. Io farò un po' tardi.»
Invece di spogliarsi subito e di andare a letto, Eugenia si affacciò anche lei alla finestra.
Gli sguardi di Ruggero la inseguivano fin là, la molestavano, la irritavano con la loro insistenza. Ora si rammentava degli altri giorni, quando vi aveva badato poco o punto. E di mano in mano che ricordava i minuti particolari prima sembràtile insignificanti, si sentiva invadere da un senso di stupore, di paura, di rimorso, secondo che andava via via scoprendo dentro di sé un'inconsapevole compiacenza di quegli sguardi, una tolleranza incoraggiante da poter essere interpretata in mala parte, e quella timida protesta che le sorgeva dal fondo del cuore contro la propria rigidezza, insinuando: «Ebbene? Lascialo fare!»
No, non voleva lasciarlo fare!
Si stupiva che questo malo suggerimento potesse venire a tentarla; e aggrottava le sopracciglia, e si rimproverava da se stessa. Allora riprese un più intimo esame di coscienza; e mentre i suoi occhi guardavano ora gli alberi e i viali della selva, inondati dal limpido lume di luna che faceva risaltare i menomi frastagli delle fronde tremolanti alla brezza notturna, ora le case bianche, punteggiate dai vivi riflessi dei vetri delle finestre e intercalate di cupe ombre segnanti le insenature delle straducole e le irregolarità dei fabbricati, il gran silenzio le permetteva di continuare a sprofondar gli occhi interiori nelle più nascoste cavità del suo petto, quasi alla ricerca d'un nemico rifugiàtovisi a l'insaputa di lei e che bisognava scovare e scacciar fuori.
Un nemico? Come esagerava! Che mai doveva importarle che quel giovanotto la guardasse? Era poi certa che la guardasse col sentimento da lei supposto? E dato pure che fosse così, che poteva farci? Doveva forse dirgli: «Non mi guardi!» e mostrargli di essersene accorta e di aver capito? «Ebbene, lascialo fare!» Sì, era giusto. Non doveva occuparsene. Che stupidità tormentarsi senza ragione!
Intanto si rivedeva nel punto di arrampicarsi sul ciglione, sorretta dalla mano di lui; tornava a provare l'impaccio provato nella grotta al trovarsi sola con lui; sentiva di nuovo la mortificazione di aver dovuto abbassare gli occhi, poco dopo, come se non fosse stata tanto forte da poter sostenere gli sguardi di lui. E se n'era sentita turbata! In quello stesso momento non ne era pure turbata? Infatti le facevano male, le si conficcavano nel cuore come tante punte di spillo. Oh, non voleva pensarci!... Non doveva pensarci più!... No, anzi! Anzi! Prima, non era niente; ella non sapeva. Ma dopo che le si era fatta quella improvvisa luce nella coscienza, oh, doveva badarci!... Badare a che cosa?... Era assurda!
Tentò di distrarsi, pensando a Giulia, alla zia Vita con le sue cento richieste di matrimonio, e sorrise. Si sentiva però lentamente penetrare da tristezza grande, da strane paure dell'avvenire, che la riempivano di scoraggiamento. Perché Patrizio non era accanto a lei? Come si sentiva sola, abbandonata da tutti in quel momento, nel silenzio di quella notte estiva, mentre ogni cosa dormiva, e dalla selva, dall'abitato, dalla lontana campagna non le arrivava né una voce, né un rumore, tranne il monotono zampillare della fontana, laggiù, tra gli alberi, quasi sommesso borbottio!
Dall'orologio del convento cominciarono a squillare i rintocchi alternati della mezzanotte. Non si sentivano soltanto i colpi dei martelli su le campane e la ondulazione del suono, ma anche lo stridio delle ruote del congegno simile a digrignare degli enormi denti di un mostro appollaiato sul campanile, l'ombra del quale, gigantesca, si allungava sugli alberi, si sdraiava pei viali, si drizzava fin sul bianco muro di cinta e perdeva la cima nell'abisso sottostante.
«Mezzanotte!» esclamò, meravigliata del tempo trascorso.
E quantunque i rintocchi dell'orologio, che non finivano più, le facessero scorrere un brivido di freddo per le ossa, rimase ancora un istante alla finestra, con lo sguardo smarrito nello spazio, senza pensare, sentendo soltanto un indolenzimento per tutta la persona, una pesantezza che le inchiodava le braccia sul davanzale e le impediva di rizzarsi.
Chiusi i vetri e la imposta, cominciò a togliersi, davanti lo specchio, le forcine dai capelli. Si vedeva pallida, un po' dimagrita, con occhi straniti. Sì, Patrizio e il dottore avevano ragione: era malata tuttavia. Perché voleva nasconderlo? I suoi nervi fremevano. Pure - e si annusava ripetutamente le mani - nessuna traccia di odor di zagara! Ma non voleva dir nulla!
Abbassò il lume, si spogliò frettolosamente, ed entrata nel letto, cacciò la testa sotto la coperta per addormentarsi più presto. Gli occhi le si sbarravano nel buio, mentre recitava le devozioni. E si distraeva, ripigliava una preghiera interrotta, tornava a distrarsi; sempre con quegli sguardi persecutori davanti a sé, e nell'orecchio il suono delle parole che li avevano accompagnati dentro la grotta, lungo l'orrido, nella campagna, davanti a la casa rustica, tra le risate... Oh, Vergine benedetta!... Perché vi si fissava?... Perché non poteva scacciar via quell'ossessione?...
Si agitava nel letto, smaniando, spingendo la testa fuori delle coperte. Le pareva di soffocare. Però, udito nel corridoio i passi di Patrizio, si rannicchiò e chiuse gli occhi per farsi credere addormentata.
Lo sentiva andare e venire in punta di piedi, smovere con cautela una seggiola, posare il lume sul tavolino da notte; poi, per qualche istante, non sentì più nulla; forse si era fermato a osservarla. Il cuore le batteva violento nell'attesa. Ed ecco un fruscio lungo il muro del corsello; ecco due mani che tastavano delicatamente la coperta con cui ella s'era quasi avviluppata la testa, e che cercavano di scoprirla, o di praticare un adito all'aria libera della stanza.
«Così soffochi» udì borbottare.
Le rivolgeva la parola, quantunque la credesse addormentata. Ed ella, restando immobile e trattenendo il fiato, provava un dolce senso di ristoro nel sentirsi protetta e sorvegliata in quel modo da suo marito, la cui sola presenza bastava in quel momento a tranquillizzarla, a fugarle dall'animo ogni visione turbatrice.
«Il caffè lo prenderemo all'aria aperta, su la terrazza» propose il dottore.
E tutti si alzarono da tavola. Il sindaco faceva caldi complimenti alla padrona di casa.
«Pranzo squisito! Ha visto? Gli ho fatto proprio onore.»
L'ispettore invece, da buon piemontese, aveva fatto onore alle bottiglie di vino vecchio, regalate dal sindaco in quell'occasione all'Agente. Aveva gli occhi imbambolati, il viso rosso; e la lingua impastava male le poche frasi che gli riusciva di mettere insieme. Però si reggeva fermo su le gambe, e marciava pel corridoio con aria militaresca, mandando fuori i vortici di fumo del suo virginia, che infastidivano il dottore.
Ruggero si era fermato davanti all'uscio per lasciar passare Eugenia, indugiata a dare degli ordini.
«È in collera? Non mi ha rivolto neppure una parola!» le disse, scherzando.
«Perché dovrei essere in collera?» ella rispose. «Neppure lei ha detto una parola.»
«Quando c'è papà, bisogna star zitti. Oggi è così arrabbiato con me!...»
«Avrà una ragione.»
«I padri ne trovano sempre qualcuna per sgridare i figliuoli. Come se non fossero stati giovani anche loro!»
«Per ciò hanno un tesoro di esperienza.»
«Lo lascino acquistare anche a noi!»
Pareva ch'ella avesse fretta di allontanarsi, così lestamente andò a raggiungere il cavaliere fermàtosi nel corridoio a discorrere con Patrizio.
«Gioventù! Sì, lo capisco» diceva il cavaliere quasi sottovoce.
E s'interruppe, visto che Eugenia si scostava, credendo che essi volessero ragionare di qualcosa in disparte.
«Oh, signora mia! Niente di segreto. Dicevo: gioventù! a proposito di quel ragazzaccio. Che croce questi figliuoli! Quando ne avrà, me ne darà notizie. I maschi per un conto, le femmine per un altro. Auff! Seguitando il discorso, caro signor Agente, sono del suo parere. È prudenza chiudere un occhio su qualche marachella giovanile; ma tutti e due, no, no! E nel caso di cui le parlo, è bene tenerli aperti, molto aperti. C'è di mezzo il marito, omone più alto di me, che porta il berretto sull'orecchio, a mamma-santissima: mafioso, che scherza col crocifisso come lei con la penna... Il crocifisso è tanto di coltello, lo sa. Chi potrebbe dargli torto? Tu mi togli l'onore, io ti tolgo la vita. Finora non ha ammazzato nemmeno una mosca. Il passato brigadiere... lasciamolo stare. Era brigadiere, e il marito forse faceva l'allocco per forza, o perché gli tornava conto: bevevano, mangiavano insieme... Forse non c'è nulla di vero in quel che dicono le male lingue... Non voglio entrarci. Infatti, a vederla, colei sembra la Madonna immacolata... È venuta da un anno ad abitare nel vicolo di fronte a casa mia. Chi poteva immaginarlo? Lui dal balcone della sua camera, lei dalla finestra. Non lo vedevo più per le stanze, a mettere tutto sossopra come prima... «Che fa Ruggero?» «È in camera; studia.» Bello studio! Telegrafia! Intende? E poi il resto! Ma un angelo è venuto a dirmi all'orecchio: «Cavaliere, badi! Così e così. Ho visto con questi occhi, ho inteso con questi orecchi». Non so chi m'abbia trattenuto dal prendere la canna d'India di mio padre e spezzarla sulle spalle del ragazzaccio! Lo ammonisca lei, caro signor Agente. Di lei ha soggezione; le vuol bene. Anche la signora dovrebbe ammonirlo. Quasi mi mancassero sopraccapi!»
Erano usciti su la terrazza, e il Padreterno già portava il vassoio con le tazze del caffè. L'ispettore, rinfrescato dall'aria aperta, parlava un pochino più sciolto, questionando col dottore intorno ai beni delle corporazioni religiose soppresse:
«Roba della nazione, la nazione se la è ripresa.»
«E la volontà dei testatori? E la libertà individuale? E l'autorità della Chiesa?»
Appena il Padreterno riportò via le tazze vuote, l'ispettore diventò allegro, e la discussione tra lui e il dottor Mola si riaccese. Il dottore, seduto su la panca di pietra che orlava i quattro lati della terrazza, con le gambe allungate e accavalciate, girando i pollici delle mani uno attorno all'altro, aveva dovuto cedere la parola al cavaliere, il quale dava un colpo al cerchio e uno alla botte, per non compromettersi davanti a un funzionario del governo. Il dottore ora approvava, ora scoteva la testa negando, secondo il suo modo di vedere, convinto che sarebbe stato inutile tentar di arrestare un momento la foga della parola del cavaliere; ma l'ispettore, irritato da quella verbosità, stendeva le mani, lanciando di tratto in tratto: «Prego! Prego! Ma veda! Ma senta!» senza poter aggiungere altro, perché il cavaliere: «Capisco!... Ho inteso! Si lasci servire!» e tirava via, alzando la voce, quasi urlando.
«Lasciamoli accapigliare» disse Ruggero, accostandosi a Eugenia, che si era appoggiata al parapetto in un angolo della terrazza.
Eugenia non si voltò, né rispose.
«Che cosa ha?»
«Sto a sentire.»
«È di malumore.»
«Che cosa diceva papà all'Agente?»
«Non lo so...»
«Dunque perché domandarmelo?»
Ruggero rimase alquanto imbarazzato dal tono delle risposte; poi soggiunse:
«Per dirle che mio padre esagera.»
«Esageri, o dica la verità...»
«Non vorrei ch'ella si formasse una cattiva opinione di me.»
«Ha ragione!» egli rispose dopo breve pausa.
E si rizzò su la vita, guardandosi le ugne, lievemente arrossito in viso. Eugenia non si mosse. Scrostava con la punta dell'indice l'intonaco del parapetto, facendone cadere i bricioli giù nella selva sulla pianta di spigo accosto al muro. Avrebbe voluto allontanarsi, ma il silenzio di Ruggero la tratteneva. La voce del cavaliere continuava a tuonare, in mezzo alla confusione delle altre voci, dal lato opposto della terrazza; ma ella non prestava attenzione a quel che dicevano. Aveva dentro l'orecchio soltanto il suono triste e rassegnato delle ultime parole di Ruggero:
«Ha ragione!» e si sentiva rimescolata da un senso di pietà che le metteva sgomento. Dentro il suo cuore, in quella notte piena di sogni stravaganti e paurosi, era spuntato qualcosa, simile a una fioritura di erbe maligne, che cresceva e si espandeva, abbarbicandosi forte, invadendo ogni spazio, coprendo tutto con la sua ombra cupa, dandole tristezza ineffabile; qualcosa, di cui fino a un giorno addietro non aveva alcun sospetto, di cui non aveva pensato a guardarsi, e che di sorpresa l'aveva assalita e vinta... Oh!... Vinta no!
Si era dibattuta tutta la giornata, non ostante le occupazioni e la compagnia; si dibatteva ancora per isfuggire alla violenza di quella forza, che cercava di assoggettarla; maravigliata che potesse esserle germogliato nel petto un sentimento che offendeva tutto in lei, pudore, fede, ragione; e più maravigliata che la sua ragione, la sua fede, il suo pudore, la sua alterezza di donna onesta non lo avessero già annientato in un baleno, appena avutane coscienza.
Perciò si indignava contro se stessa in quel momento, e serrava i denti per non lasciarsi scappar di bocca le parole che le fremevano su la punta della lingua; e con l'indice scrostava, scrostava l'intonaco del muro, quasi a sfogo, non potendo far male, per vendetta, a se stessa, né ad altri.
«Ha dato un gran dispiacere a suo padre» ella disse lentamente.
Ruggero tornò ad appoggiarsi sul parapetto, accostandosi un po' più, tanto da toccarle il gomito col gomito.
«Ho diciotto anni, ma sono già un uomo» rispose. «Se prometto, mantengo. Do la mia parola d'onore... a lei. Assicuri a mio padre che non avrà più nessun motivo...»
Sentendolo parlare con voce sommessa e turbata, quasi le mormorasse qualche grave confidenza all'orecchio, Eugenia s'era subito pentita d'aver provocato quella risposta; e staccando nervosamente col dito un ultimo pezzetto d'intonaco, lo interruppe:
«Gliel'assicuri lei, sarà meglio. Sarà meglio» ripetè con accento più calmo, per dare alle sue parole il significato di un amichevole consiglio e nient'altro.